“Il Cinghiale!”, disse con voce fredda, una sorta di rabbia contenuta.
Indossava un completo blu che a occhio e croce costava quattromila dollari e calzava scarpe italiane fatte a mano. Capelli grigio ferro, occhi verdi e un fisico ancora atletico per la sua età.
Catherine lo fissò in attesa del seguito.
“Mia figlia, la mia unica figlia si chiama… si chiamava come lei, anche se per me era semplicemente Cate.”
Un silenzio. Poi Warren Penn proseguì. “Era bella, molto bella, e, mi creda, non è perché io fossi suo padre; semplicemente è così.”
Come per confermare ciò che asseriva, estrasse da un’elegante borsa in pelle un prezioso album con la copertina a motivi floreali, opera di un artigiano della Toscana, Leonardo della L.C. Pistoia, da cui prese un’istantanea. La foto raffigurava una ragazza che Catherine giudicò di aspetto alquanto scialbo; non che questo contasse, naturalmente.
“Ma era matta come un cavallo.”, continuò Penn. “A quindici anni primeggiava in tutto: scuola, sport, numero di spasimanti. Due anni più tardi fui costretto a rinchiuderla in un istituto, il più caro, il migliore. Uscì dopo sei mesi. Completamente disintossicata, secondo il parere di quei luminari. Invece, riprese a farsi. La mandai in un altro posto. Risultati identici. Se ho una colpa, è che le passavo mille dollari alla settimana… sa la mancetta.”
“Un po’ tanti.”, osservò Catherine.
“Forse. Dipende dai punti di visti. Io guadagno venti milioni di dollari netti all’anno. Comunque, non è questo il punto. Posso fumare?”
“Certo, signor Penn.”
Si accese una sigaretta, aspirò una boccata di fumo, scosse la testa e continuò. “Ciò che è straordinario è che Cate ne venne fuori da sola. Aveva ascoltato un disco di un certo John Lennon, una canzone orribile in verità. Preferisco mille volte i Beach Boys oppure Carole King. Per farla breve, si rinchiuse nella sua camera, urlò, pianse, strepitò, strisciò sul pavimento. Il personale era disgustato: ovunque c’erano tracce di vomito, e feci. Ne uscì pulita, veramente pulita. Non fu grazie a me. Si era innamorata di un ragazzo che non tollerava né droga, né alcool. Susan, mia moglie, manifestò una blanda soddisfazione. Lei va avanti a venti gin al giorno. Io ero al settimo cielo. Ma il Cinghiale non intendeva rinunciare a tutti quei soldi. La presero, la portarono in un luogo isolato e le praticarono un’iniezione mortale.”
Penn estrasse un fazzoletto e si asciugò il viso. Trasse un profondo respiro, spense la sigaretta, fumata a metà, e guardò Catherine. “Naturalmente, sono andato alla polizia. Nessuna prova, soltanto congetture. Di conseguenza, Cate è morta e il Cinghiale è vivo.”
“Signor Penn, cosa vuole esattamente da me?”
L’uomo le porse una foto che ritraeva un volto ottuso, brutale e malvagio.
“La sua fine.”, dichiarò.
“E’ fuori questione, signor Penn. Io sono un’investigatrice privata, non un’assassina.”
“Già. Sembra una scena del “Padrino”, rammenta?”
“No.”
“In ogni caso, mia bella signora, ho svolto numerose ricerche. Con il denaro si può arrivare a tutto, o quasi. Lei e le sue tre amiche non siete propriamente angioletti; esistono dei precedenti. Ora, non è assolutamente mia intenzione ricattarla. Le offro cinquanta milioni di dollari, in cambio della vita di quel miserabile.”
Catherine deglutì. Erano già ricche, ormai lavoravano solo per passione; però la cifra era immensa. D’altro canto, lei aveva evirato a sangue freddo un uomo, testimoniato il falso in tribunale per permettere a Meg di uccidere un individuo spregevole che altrimenti se la sarebbe cavata con qualche anno di prigione, e poi… quanti “precedenti”?
Si alzò e prese a camminare per l’ufficio.
Alla fine, una domanda. “Perché noi? Lei potrebbe assoldare chiunque. Ci sono mille killer che non chiederebbero di meglio.”
“Per tre ragioni.”, rispose Penn. “La prima che un assassino professionista potrebbe non accontentarsi della ricompensa, sebbene essa sia altissima. Conoscendo il mio patrimonio, non è da escludere una continua e reiterata richiesta di denaro e in tal caso sarei costretto ad assumere un altro killer. Il secondo motivo è legato al fatto che preferisco non fidarmi dei criminali. Poi c’è una terza ragione. Lei sicuramente non ricorda, comunque un giorno Cate l’ha conosciuta. Circostanze casuali, non lo so. Forse aveva aiutato una sua amica, forse si trattò solamente di una coincidenza; ma, benché mia figlia amasse gli uomini e non le donne, nel suo diario ho letto una poesia dedicata a lei. Per quello sono venuto qui.”
Catherine si fermò davanti a lui. “Io non credo…”
“Mi ascolti.”, la interruppe Warren. “Ebbene, lo confesso: le ho mentito.” Si passò una mano sui capelli. Accese un’altra sigaretta. “Grazie alla mia influenza, nel caso di un processo, che avrei sicuramente ottenuto, non sussisteva il minimo dubbio che il Cinghiale sarebbe stato condannato. Avrei potuto schierare venti avvocati, i migliori d’America. Pagarli a peso d’oro. E sborsare soldi a poliziotti, agenti federali, giudici. Il risultato? Una condanna esemplare, vent’anni, magari venticinque, di reclusione. Lei sa che questo significa che fra un paio di lustri sarebbe uscito… e avrebbe ricominciato?”
Warren Penn guardò la finestra che dava sull’oceano. L’acqua riluceva al sole dell’estate. “La prego, faccia giustizia!”
Il Cinghiale consumava abitualmente i suoi pasti in un piccolo e sudicio locale, dove peraltro si mangiava discretamente bene e a prezzi contenuti.
Stava ingurgitando un’enorme fetta di hamburger, quando la ragazza prese posto al suo tavolo.
Lui la scrutò. Si riempì la bocca, già piena, di patatine, quindi l’apostrofò in modo sgarbato. “Cazzo vuoi?”
“Indovini.”
“Sparisci!” L’energumeno rovesciò sulle patatine una quantità impressionante di ketchup e maionese e si ficcò in bocca un altro pezzo di hamburgher, seguito da mezza ciambellla. Divorò il cibo senza masticare. Bevve un sorso di birra, si pulì la bocca con il dorso di una mano e ruttò. Prima di attaccare nuovamente le patatine, fissò in modo ostile Meg. “Hai capito? Sgombra!”
Una busta si materializzò dal nulla. Meg la posò sul tavolo. Nessuno ci fece caso. Notando che era voluminosa, il Cinghiale la afferrò, lanciò un’occhiata diffidente al contenuto, poi la infilò in tasca. “Mmmm?”, grugnì.
“Roba.”, proferì Meg.
“Ce n’è abbastanza per un esercito.”
“Io e alcuni amici.”, spiegò la giovane. “E siamo di gusti buoni. Se resteremo soddisfatti, potremmo vederci ogni mese.”
Il Cinghiale scosse la testa. “Non hai l’aria della tossica. Magari dell’atleta, ma non della tossica. E io non smercio quelle schifezze. Sei una federale?”
Meg si guardò attorno. I pochi avventori non badavano a loro. E, anche se lo avessero fatto, non avrebbero provato il minimo interesse; lì ognuno pensava ai fatti propri. Si tolse le scarpe e appoggiò i piedi nudi sul tavolo; un attimo dopo esibì il braccio sinistro. Quindi si ricompose.
Il Cinghiale annuì. Subito, però, tornò a essere sospettoso. “Ok, niente FBI, ma perché vuoi cambiare… uhm… fornitore?”
“Mi ha truffata.”
“Già. Succede.”, mormorò lui. “Esistono tipi tanto avidi da essere idioti. Chi ti ha mandata da me?”
Meg scrollò le spalle.
“D’accordo. Ci troveremo qui questa sera. E stai attenta: non amo gli scherzi. Capisci a me?”
“Certamente.”, lo rassicurò lei.
L’idea, piuttosto malvagia, venne a Patricia, l’intellettuale del gruppo. Maniaca di pc, adorava anche leggere. I libri che acquistava non erano scelti a caso: rientravano, benché forse in maniera vaga, in un dato schema che le riusciva d’aiuto nel suo lavoro. Sir Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Andrea Camilleri, Patricia Cornwell, Georges Simenon, Thomas Harris. In realtà, detestava quest’ultimo, perché nei romanzi che scriveva trionfava sempre il male, ciò che lei abborriva. Tuttavia, trasse ispirazione proprio da lui.
Dotata di una memoria eccezionale, ricordava molto bene un certo particolare, e aveva caldeggiato quella soluzione per evitare di uccidere. Meg e Heather si erano dimostrate perplesse, Catherine aveva approvato. Si sarebbero accontentate di un terzo del compenso, non avrebbero ammazzato, ma giustizia sarebbe stata fatta. Era quello che contava.
All’orario convenuto, avvenne lo scambio. Il Cinghiale non era stupido: avrebbe potuto tenersi i soldi, perdendo così un’ottima cliente; solamente un imbecille avrebbe preso in considerazione tale possibilità.
Quando, soddisfatto, uscì dal locale, non si accorse dell’ombra.
Fu seguito fino alla macchina. Mentre apriva la portiera, venne tramortito con una mazza da baseball. Dato che pesava più di novanta chili, risultò estremamente difficile trasportarlo fino al furgoncino dove Patricia aspettava al volante con il motore acceso. Heather scivolò e finì a terra; toccò a Meg e a Catherine l’ingrato compito.
E a un tratto, il bestione si riprese. Ruggì e si liberò con un potente strattone. Catherine evitò per un soffio un diretto destro che l’avrebbe stesa (se non peggio). Meg non ebbe la stessa fortuna. Il Cinghiale si avventò su di lei, la trascinò al suolo, soffocandola, e cominciò a strangolarla. Intervenne Heather che si beccò un manrovescio che la fece volare. Stessa sorte toccò a Catherine.
Meg agitava invano le gambe. L’uomo aumentò la stretta, la ragazza capì che stava per morire.
Strani ricordi si affacciarono alla sua mente, e visioni folli… si vide nell’oceano, mentre un giocoso delfino le procurava l’ebbrezza di una nuova forma di sci nautico. Chiuse gli occhi, abbandonandosi ai sogni che precedono la morte.
Fu la dolce Patricia a salvarla. Scese dal furgoncino, si avvicinò circospetta e sferrò un violento colpo con il cric.
Questa volta il Cinghiale svenne.
Due ore più tardi, fu costretto ad assumere alcune pastiglie.
Era legato e non poteva opporsi.
Trenta minuti dopo, le ragazze sciolsero i nodi che lo immobilizzavano.
Lui aveva gli occhi radiosi.
Con un gesto aggraziato Catherine gli porse una grossa scheggia di vetro.
“Scarnificati la faccia.”, suggerì.
Il Cinghiale ritenne che fosse un’idea eccellente.
La notizia del suo suicidio passò praticamente inosservata.