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Posts Tagged ‘il lato oscuro’

Il lato oscuro“Il Cinghiale!”, disse con voce fredda, una sorta di rabbia contenuta.
Indossava un completo blu che a occhio e croce costava quattromila dollari e calzava scarpe italiane fatte a mano. Capelli grigio ferro, occhi verdi e un fisico ancora atletico per la sua età.
Catherine lo fissò in attesa del seguito.
“Mia figlia, la mia unica figlia si chiama… si chiamava come lei, anche se per me era semplicemente Cate.”
Un silenzio. Poi Warren Penn proseguì. “Era bella, molto bella, e, mi creda, non è perché io fossi suo padre; semplicemente è così.”
Come per confermare ciò che asseriva, estrasse da un’elegante borsa in pelle un prezioso album con la copertina a motivi floreali, opera di un artigiano della Toscana, Leonardo della L.C. Pistoia, da cui prese un’istantanea. La foto raffigurava una ragazza che Catherine giudicò di aspetto alquanto scialbo; non che questo contasse, naturalmente.
“Ma era matta come un cavallo.”, continuò Penn. “A quindici anni primeggiava in tutto: scuola, sport, numero di spasimanti. Due anni più tardi fui costretto a rinchiuderla in un istituto, il più caro, il migliore. Uscì dopo sei mesi. Completamente disintossicata, secondo il parere di quei luminari. Invece, riprese a farsi. La mandai in un altro posto. Risultati identici. Se ho una colpa, è che le passavo mille dollari alla settimana… sa la mancetta.”
“Un po’ tanti.”, osservò Catherine.
“Forse. Dipende dai punti di visti. Io guadagno venti milioni di dollari netti all’anno. Comunque, non è questo il punto. Posso fumare?”
“Certo, signor Penn.”
Si accese una sigaretta, aspirò una boccata di fumo, scosse la testa e continuò. “Ciò che è straordinario è che Cate ne venne fuori da sola. Aveva ascoltato un disco di un certo John Lennon, una canzone orribile in verità. Preferisco mille volte i Beach Boys oppure Carole King. Per farla breve, si rinchiuse nella sua camera, urlò, pianse, strepitò, strisciò sul pavimento. Il personale era disgustato: ovunque c’erano tracce di vomito, e feci. Ne uscì pulita, veramente pulita. Non fu grazie a me. Si era innamorata di un ragazzo che non tollerava né droga, né alcool. Susan, mia moglie, manifestò una blanda soddisfazione. Lei va avanti a venti gin al giorno. Io ero al settimo cielo. Ma il Cinghiale non intendeva rinunciare a tutti quei soldi. La presero, la portarono in un luogo isolato e le praticarono un’iniezione mortale.”
Penn estrasse un fazzoletto e si asciugò il viso. Trasse un profondo respiro, spense la sigaretta, fumata a metà, e guardò Catherine. “Naturalmente, sono andato alla polizia. Nessuna prova, soltanto congetture. Di conseguenza, Cate è morta e il Cinghiale è vivo.”
“Signor Penn, cosa vuole esattamente da me?”
L’uomo le porse una foto che ritraeva un volto ottuso, brutale e malvagio.
“La sua fine.”, dichiarò.
“E’ fuori questione, signor Penn. Io sono un’investigatrice privata, non un’assassina.”
“Già. Sembra una scena del “Padrino”, rammenta?”
“No.”
“In ogni caso, mia bella signora, ho svolto numerose ricerche. Con il denaro si può arrivare a tutto, o quasi. Lei e le sue tre amiche non siete propriamente angioletti; esistono dei precedenti. Ora, non è assolutamente mia intenzione ricattarla. Le offro cinquanta milioni di dollari, in cambio della vita di quel miserabile.”
Catherine deglutì. Erano già ricche, ormai lavoravano solo per passione; però la cifra era immensa. D’altro canto, lei aveva evirato a sangue freddo un uomo, testimoniato il falso in tribunale per permettere a Meg di uccidere un individuo spregevole che altrimenti se la sarebbe cavata con qualche anno di prigione, e poi… quanti “precedenti”?
Si alzò e prese a camminare per l’ufficio.
Alla fine, una domanda. “Perché noi? Lei potrebbe assoldare chiunque. Ci sono mille killer che non chiederebbero di meglio.”
“Per tre ragioni.”, rispose Penn. “La prima che un assassino professionista potrebbe non accontentarsi della ricompensa, sebbene essa sia altissima. Conoscendo il mio patrimonio, non è da escludere una continua e reiterata richiesta di denaro e in tal caso sarei costretto ad assumere un altro killer. Il secondo motivo è legato al fatto che preferisco non fidarmi dei criminali. Poi c’è una terza ragione. Lei sicuramente non ricorda, comunque un giorno Cate l’ha conosciuta. Circostanze casuali, non lo so. Forse aveva aiutato una sua amica, forse si trattò solamente di una coincidenza; ma, benché mia figlia amasse gli uomini e non le donne, nel suo diario ho letto una poesia dedicata a lei. Per quello sono venuto qui.”
Catherine si fermò davanti a lui. “Io non credo…”
“Mi ascolti.”, la interruppe Warren. “Ebbene, lo confesso: le ho mentito.” Si passò una mano sui capelli. Accese un’altra sigaretta. “Grazie alla mia influenza, nel caso di un processo, che avrei sicuramente ottenuto, non sussisteva il minimo dubbio che il Cinghiale sarebbe stato condannato. Avrei potuto schierare venti avvocati, i migliori d’America. Pagarli a peso d’oro. E sborsare soldi a poliziotti, agenti federali, giudici. Il risultato? Una condanna esemplare, vent’anni, magari venticinque, di reclusione. Lei sa che questo significa che fra un paio di lustri sarebbe uscito… e avrebbe ricominciato?”
Warren Penn guardò la finestra che dava sull’oceano. L’acqua riluceva al sole dell’estate. “La prego, faccia giustizia!”

Il Cinghiale consumava abitualmente i suoi pasti in un piccolo e sudicio locale, dove peraltro si mangiava discretamente bene e a prezzi contenuti.
Stava ingurgitando un’enorme fetta di hamburger, quando la ragazza prese posto al suo tavolo.
Lui la scrutò. Si riempì la bocca, già piena, di patatine, quindi l’apostrofò in modo sgarbato. “Cazzo vuoi?”
“Indovini.”
“Sparisci!” L’energumeno rovesciò sulle patatine una quantità impressionante di ketchup e maionese e si ficcò in bocca un altro pezzo di hamburgher, seguito da mezza ciambellla. Divorò il cibo senza masticare. Bevve un sorso di birra, si pulì la bocca con il dorso di una mano e ruttò. Prima di attaccare nuovamente le patatine, fissò in modo ostile Meg. “Hai capito? Sgombra!”
Una busta si materializzò dal nulla. Meg la posò sul tavolo. Nessuno ci fece caso. Notando che era voluminosa, il Cinghiale la afferrò, lanciò un’occhiata diffidente al contenuto, poi la infilò in tasca. “Mmmm?”, grugnì.
“Roba.”, proferì Meg.
“Ce n’è abbastanza per un esercito.”
“Io e alcuni amici.”, spiegò la giovane. “E siamo di gusti buoni. Se resteremo soddisfatti, potremmo vederci ogni mese.”
Il Cinghiale scosse la testa. “Non hai l’aria della tossica. Magari dell’atleta, ma non della tossica. E io non smercio quelle schifezze. Sei una federale?”
Meg si guardò attorno. I pochi avventori non badavano a loro. E, anche se lo avessero fatto, non avrebbero provato il minimo interesse; lì ognuno pensava ai fatti propri. Si tolse le scarpe e appoggiò i piedi nudi sul tavolo; un attimo dopo esibì il braccio sinistro. Quindi si ricompose.
Il Cinghiale annuì. Subito, però, tornò a essere sospettoso. “Ok, niente FBI, ma perché vuoi cambiare… uhm… fornitore?”
“Mi ha truffata.”
“Già. Succede.”, mormorò lui. “Esistono tipi tanto avidi da essere idioti. Chi ti ha mandata da me?”
Meg scrollò le spalle.
“D’accordo. Ci troveremo qui questa sera. E stai attenta: non amo gli scherzi. Capisci a me?”
“Certamente.”, lo rassicurò lei.

L’idea, piuttosto malvagia, venne a Patricia, l’intellettuale del gruppo. Maniaca di pc, adorava anche leggere. I libri che acquistava non erano scelti a caso: rientravano, benché forse in maniera vaga, in un dato schema che le riusciva d’aiuto nel suo lavoro. Sir Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Andrea Camilleri, Patricia Cornwell, Georges Simenon, Thomas Harris. In realtà, detestava quest’ultimo, perché nei romanzi che scriveva trionfava sempre il male, ciò che lei abborriva. Tuttavia, trasse ispirazione proprio da lui.
Dotata di una memoria eccezionale, ricordava molto bene un certo particolare, e aveva caldeggiato quella soluzione per evitare di uccidere. Meg e Heather si erano dimostrate perplesse, Catherine aveva approvato. Si sarebbero accontentate di un terzo del compenso, non avrebbero ammazzato, ma giustizia sarebbe stata fatta. Era quello che contava.
All’orario convenuto, avvenne lo scambio. Il Cinghiale non era stupido: avrebbe potuto tenersi i soldi, perdendo così un’ottima cliente; solamente un imbecille avrebbe preso in considerazione tale possibilità.
Quando, soddisfatto, uscì dal locale, non si accorse dell’ombra.
Fu seguito fino alla macchina. Mentre apriva la portiera, venne tramortito con una mazza da baseball. Dato che pesava più di novanta chili, risultò estremamente difficile trasportarlo fino al furgoncino dove Patricia aspettava al volante con il motore acceso. Heather scivolò e finì a terra; toccò a Meg e a Catherine l’ingrato compito.
E a un tratto, il bestione si riprese. Ruggì e si liberò con un potente strattone. Catherine evitò per un soffio un diretto destro che l’avrebbe stesa (se non peggio). Meg non ebbe la stessa fortuna. Il Cinghiale si avventò su di lei, la trascinò al suolo, soffocandola, e cominciò a strangolarla. Intervenne Heather che si beccò un manrovescio che la fece volare. Stessa sorte toccò a Catherine.
Meg agitava invano le gambe. L’uomo aumentò la stretta, la ragazza capì che stava per morire.
Strani ricordi si affacciarono alla sua mente, e visioni folli… si vide nell’oceano, mentre un giocoso delfino le procurava l’ebbrezza di una nuova forma di sci nautico. Chiuse gli occhi, abbandonandosi ai sogni che precedono la morte.
Fu la dolce Patricia a salvarla. Scese dal furgoncino, si avvicinò circospetta e sferrò un violento colpo con il cric.
Questa volta il Cinghiale svenne.
Due ore più tardi, fu costretto ad assumere alcune pastiglie.
Era legato e non poteva opporsi.
Trenta minuti dopo, le ragazze sciolsero i nodi che lo immobilizzavano.
Lui aveva gli occhi radiosi.
Con un gesto aggraziato Catherine gli porse una grossa scheggia di vetro.
“Scarnificati la faccia.”, suggerì.
Il Cinghiale ritenne che fosse un’idea eccellente.
La notizia del suo suicidio passò praticamente inosservata.

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Il lato oscuro CatherineConsumarono il pranzo nell’ufficio di Catherine, perché Steve non se la sentiva di andare in un ristorante o in un bar. Mentre mangiavano un panino al prosciutto e bevevano acqua minerale, l’avvocato la mise al corrente della sua triste storia.
Biondo, con gli occhi azzurri, quando avevano avuto la loro relazione, durata un anno, era un uomo atletico, sportivo e aitante. Indossava giacche blu, che mettevano in risalto le spalle larghe, e pantaloni grigi dal taglio classico, perfetti per le gambe lunghe e muscolose. Le cravatte erano sempre annodate alla perfezione, le camicie, in genere bianche, fresche di bucato e ben stirate. Adesso era dimagrito, vestito francamente male e aveva due profonde occhiaie che lo invecchiavano, così come la barba di tre giorni e i capelli arruffati. Non portava cravatta e aveva l’espressione stanca, quella di un uomo sconfitto.
“Ho lavorato quattordici ore al giorno per più di un anno.”, disse. “Ho dato l’anima.”
Catherine annuì. Sapeva che era un grande professionista (e un ottimo amante, sebbene la tradisse, e per questo lei aveva troncato la relazione).
“Per farla breve”, continuò Steve, “abbiamo ottenuto una straordinaria vittoria. E avevo contro degli autentici mastini, i meglio pagati d’America. Ma la giuria ha ecceduto in entusiasmo: due milioni come risarcimento alla vedova e cinquanta milioni di dollari per danni punitivi. In ogni caso, i bastardi della LD Company disponevano di quei soldi; però, c’erano in agguato almeno venti colleghi e varie class-action. Aspettavano solo il verdetto del mio caso; ma anche se si fossero scatenati si poteva arrivare a un accordo stragiudiziale: cento milioni di dollari, forse centocinquanta, e la LD li aveva. E’ vero, le azioni erano crollate, e ragionevolmente si poteva prevedere un ulteriore netto calo per una perdita complessiva di ottocento milioni, forse novecento. Peraltro, prima o poi, le azioni risalgono; addirittura avrebbero potuto venderle allo scoperto in attesa di riacquistarle. D’altro canto, non avevano mai pagato alcuna polizza assicurativa, e quel denaro rientrava a bilancio. Erano in grado di sopravvivere e in seguito di rifarsi. Esisteva, inoltre, la possibilità di appellarsi alla Corte Suprema: un milione di dollari può far cambiare idea a un giudice. In effetti, era quello che temevo. No. Hanno scelto una strada più facile.”
Steve addentò di malavoglia il sandwich. “Non possedevo più un soldo – tutti investiti nel dannato processo – ma ero tranquillo. Direi euforico. Era stata fatta giustizia e io avevo guadagnato circa quindici milioni lordi. Roba da record!”
“E poi?”, chiese Catherine.
Steve esibì un sorriso tirato. “E poi”, rispose, “la LD Company presenta un’istanza di fallimento. La società appartiene a un gruppo lussemburghese, la maggioranza delle azioni del quale sono di proprietà di una holding che ha sede nei Caraibi. L’unica persona nota è l’amministratore delegato, che pensa bene di scomparire in Sud America. E non è finita qui: un mese più tardi riaprono un nuovo stabilimento in Messico, ovviamente con un altro nome, altri soci, tutti misteriosi. Lo stabilimento è grande il doppio. Lì non esistono leggi, perciò continueranno a inquinare l’acqua e altra gente morirà, come il marito e la figlia di Suzie Phan, la mia cliente.”
Catherine lo guardò con aria sinceramente rattristata. Se anche Steve l’aveva tradita più di una volta, era comunque un uomo buono, di saldi principi morali (sesso a parte).
“Ora”, concluse Steve, “io posso fare a meno di tutti quei soldi, a malincuore, certamente, perché mi avrebbero cambiato la vita; ma non posso accettare una simile ingiustizia nei confronti della signora Langlton, maritata Phan, e delle altre vittime di quei porci.”
“Mi dispiace molto.”, dichiarò Catherine. “Però, oltre alla mia personale comprensione non ho altro da offrirti.”
Steve scosse il capo.
“Ti sbagli.”

Mentre risaliva in macchina, dopo aver trascorso la notte in un pessimo motel, che serviva colazioni ignominiose, Catherine trasse un profondo sospiro.
C’è un uomo al di sopra di tutto questo, aveva spiegato Steve, un uomo il cui patrimonio personale ammonta a dieci miliardi di dollari. E’ nei top venti di Forbes, possiede pozzi petroliferi, alberghi di lusso, società di assicurazioni, cantieri navali… e la ex LD Company, di cui probabilmente non sapeva nemmeno l’esistenza, o quasi. Ha mille interessi, fra politica e affari, mille diversificazioni; sicuramente è abituato a delegare il compito di dirigere le sue scatole cinesi a dirigenti capaci ed esperti, cioè squali. In molte aziende non figura ufficialmente, in altre sì: quelle più “pulite”. Lui tira le somme e muove le fila a Washington, fra lobbisti e senatori.
Ha ville sparse in tutto il mondo. E adesso – lo so per certo, ho anch’io le mie conoscenze – si trova per qualche giorno in vacanza a Sausalito, forse l’unico luogo dove è possibile avvicinarlo. Possibile, capiscimi bene, non probabile.
“Perché proprio io?”, aveva domandato Catherine.
Una breve risata. “Perché sei intelligente e bella. E il vecchio Paxton stravede per le ragazze attraenti. Quattro matrimoni, sei figli, un centinaio di amanti. Nella sua scala di valori, al primo posto viene il potere, al secondo il denaro e al terzo le donne. Paga un medico personale solamente per potersi procurare tutti i prodotti presenti sul mercato (e anche fuori mercato) che gli assicurino ancora un minimo di virilità. Ed è vanesio. Sommamente vanesio.”
“Fantastico.”, aveva commentato Catherine.
Accese il motore e si diresse, con molta riluttanza, verso la villa.
Prima di partire, si era consultata con le tre investigatrici – ormai socie a tutti gli effetti -, che lavoravano con lei: Meg la dura, Heather la sfrontata, Patricia la perspicace. Meg e Heather erano amanti. Patricia un vero hacker; all’infuori del pc non risultavano altri amori. Formavano un’equipe fantastica. Catherine aveva sollevato vari dubbi, nella segreta speranza che la dissuadessero. In risposta, sei occhi l’avevano fulminata.
Piccole bastarde, pensò con un sorriso.
Almeno era una radiosa mattina di sole e ciò valse, almeno in parte, a rasserenare il suo umore. Lanciò un’occhiata alla busta commerciale posata sul sedile del passeggero, poi calcò con forza il piede sull’acceleratore.
In quanto a misure di sicurezza, la “villa” di Paxton non aveva nulla da invidiare a Fort Knox. Era circondata da un alto muro di recinzione e sorvegliata, notte e giorno, da guardie armate. Sofisticati sistemi di allarme erano in grado di cogliere anche il minimo segnale di pericolo. Sul lato opposto a quello della strada, il panorama era a dir poco stupendo: un ampio terrazzo si affacciava sulle verdi acque dell’oceano; ormeggiato a cento metri dalla costa, uno yacht di dimensioni esagerate (in gergo un giga-yacht: vale a dire di categoria superiore a un mega-yacht e a un banale super-yacht), provvisto di ogni confort, si dondolava pigramente al vento, in attesa di feste, ricevimenti, riunioni di affari. Poco distante dalla sontuosa abitazione, l’aereo privato di mister Paxton scintillava alla luce della California, simile a un gioiello, quale in effetti era.
Catherine si fece forza e suonò il citofono, l’unico che individuò.
Il massiccio cancello si aprì subito e due energumeni dall’aria scontrosa le rivolsero uno sguardo inquisitorio.
“Desidera?”, abbaiò uno dei due.
“Desidero parlare con il signor Paxton”.
Cellulare all’orecchio, poche frasi. Catherine venne perquisita, in un modo che non apprezzò particolarmente, quindi fu scortata all’ingresso.
Nuova perquisizione, ancora più intima.
La giovane strinse i denti.
Infine, una segretaria dall’aspetto matronale.
“Mister Paxton la aspetta?”
“No.”, ammise Catherine.
“Beh, allora…”
“Per cortesia, gli consegni questa busta.” Catherine le porse la rozza busta commerciale che le aveva consegnato Steve.
La receptionist inarcò un sopracciglio, diffidente. “Vediamo.”, disse in tono antipatico.
Una telefonata, una seconda.
Dopo un’ora, comparve un tipo vestito di tutto punto. “Mi segua.”, proferì con l’accento classico di un bostoniano.
Percorsero infiniti corridoi e, quando giunsero davanti a una porta, che – suppose Catherine – conduceva al sancta sanctorum, dovette sottoporsi a una terza ispezione. Quando le ficcarono le mani nelle mutandine, meditò di reagire con violenza: a trattenerla fu il pensiero della signora Suzie Phan.
Entrò in uno studio immenso, che rigurgitava ricchezza. Quadri d’autore alle pareti, scaffalature di libri – prime edizioni – mai letti, né sfogliati. Una finestra aperta, situata dietro alla scrivania, dava sul Pacifico. Una piacevole brezza penetrava nell’ambiente.
Paxton non si alzò per salutarla.
“Cos’è questa merda?”, le chiese. Indossava un paio di shorts e una maglietta dei Red Sox. Tenuta da relax. Catherine notò anche l’orologio e la catena d’oro, che un operaio non avrebbe potuto acquistare nemmeno se avesse lavorato per cent’anni. Lei era in minigonna e, nonostante l’atmosfera ostile, captò un’occhiata avida diretta alle sue cosce.
Senza essere invitata a farlo, si sedette di fronte a lui. “Vietnam.”, rispose. “Se non vado errata, il giovane a destra era il capitano Paul Paxton. Il muso giallo, a sinistra nella foto, si chiamava Bao Phan. Sorridono, perché Bao salvò la vita a suo figlio. Entrambi, purtroppo sono deceduti. Paul a causa di un brutto male, Bao per via delle acque inquinate da una delle sue aziende.”
“Stupidaggini! Calunnie! Non so niente dell’azienda di cui lei farnetica.”
“Ma davvero?”
“Oserebbe mettere in dubbio la mia parola?” Paxton la guardò, disgustato. “Lei sa chi sono io? Quanti posti di lavoro ho creato? Quanto benessere ho assicurato? Mi chiamo Edward Paxton, sciacquetta!”
Catherine scattò in piedi, all’improvviso furiosa.
“E lei, lei, mister Paxton, ha scelto di far fallire quella fottuta fabbrica per evitare di dare un dollaro alla vedova!”
“Non le permetto di parlarmi in questo modo. Se ne vada.” Paxton era paonazzo in volto.
“Certo.”, replicò Catherine. “Me ne vado con gioia, brutto figlio di puttana!”
Si diresse all’uscita. Poi si fermò. Girandosi in direzione del miliardario, agitò un dito. “Ma verrà un giorno…” Sorrise, sprezzante. “I Promessi Sposi, the Betrothed. Non li hai letti, miserabile! Ma capirai. Presto o tardi capirai. Ricordati che Paul ti guarda dall’alto.”
Sbatté la porta, riattraversò i corridoi, oltrepassò nuovamente il cancello e risalì in macchina.
Fallimento su tutta la linea, considerò amareggiata, durante il viaggio di ritorno.
Una settimana più tardi, Steve fece irruzione nel suo piccolo ufficio, sventolando un assegno.
“Cento milioni di dollari!”
Catherine lo fissò sconcertata.
“E dieci sono tuoi.”, aggiunse l’avvocato.
“Oltre a un invito a cena, si intende.”
Catherine rise.
“Niente dopocena, però.”

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Il lato oscuro CatherineLa stanza è immersa nella semioscurità. Finestre e imposte sono chiuse, così come la porta, a doppia mandata. E’ impossibile stabilire se sia giorno o notte. L’unica debole luce filtra dal bagno, un locale piccolo e squallido in sintonia con la camera, male arredata e bisognosa di pulizie.
Tutto ciò non interessa a Danny.
Quello che conta è il battito del suo cuore. A momenti potrebbe esplodergli nel petto, pensa il bambino. Benché abbia solo sei anni non è ingenuo, né tanto meno stupido: sa che nessuno lo potrà salvare, nemmeno la mamma.

“Quella donna mi aveva portato via il marito.”, dichiarò l’elegante signora Julie Carpenter. Era bianca come uno straccio e le mani le tremavano, ma si sforzava di parlare con calma. La voce non era isterica. “Poi lui, diciamo, è rinsavito… e io l’ho perdonato. Lei, la strega, ha aspettato che William non ci fosse – è un manager e adesso si trova in Giappone – ed è andata a prendere Danny a scuola. William è un uomo intelligente, specialmente nel lavoro, un po’ meno in altre cose, e aveva fatto conoscere Danny alla strega.”
Negli occhi di Julie comparvero delle lacrime. Catherine si alzò per prenderle un bicchiere d’acqua. Aveva già intuito dove sarebbe andata a parare e ammirava la sua compostezza. Julie bevve un piccolo sorso con garbo, quindi proseguì: “Per farla breve, lo ha rapito. Ieri sera mi ha telefonato. Dopo avermi insultata con parole irripetibili, mi ha avvisata. Se avessi chiamato la polizia, avrebbe ucciso Danny, non le interessavano le conseguenze poiché io le avevo rubato William, e senza di lui la sua vita non aveva più alcun senso; se, invece “mi fossi comportata bene”, me lo avrebbe restituito sano e salvo, a parte un occhio e le gambe, che si sarebbe presa perché le spettavano. E’ pazza!”
“Si  è messa in contatto con la polizia?”, le domandò Catherine in tono pacato.
“Assolutamente no!” Julie scosse il capo.
“Ero… sono disperata. Non sapevo cosa fare. Mi sono confidata con un vecchio parente, un tipo strano che però mi vuole bene. E lui mi ha suggerito di venire qui.”
“Chi è questo signore?”, chiese Catherine.
“Si chiama Daniel Penn. Daniel come Danny. Gli ha sempre fatto dei bei regali. Stravagante sì, ma buono d’animo. Si diverte con un suo amico, Yosseph Weber.”
Adolf Hitler!”, esclamò Catherine.
“Già. Mi ha messo a disposizione tutti i soldi di cui avrei potuto aver bisogno, sebbene mio marito guadagni bene, e ha insistito perché io parlassi con lei.”
Catherine la fissò pensierosa. “Non è questione di denaro.”, affermò. “Il problema è trovarli. Innanzi tutto, diamo un nome a questa squilibrata.”
“Kate. Kate Miller.”
“Lei sa dove lavora?”
“Lavorava in un’agenzia di viaggi. Fu lì che William la conobbe. Ho telefonato, spacciandomi per una cliente e chiedendo espressamente di lei. Me ne hanno parlato così bene, e via dicendo. Risultato: si è licenziata. E, prima di venire qui, mi sono recata al suo indirizzo, che figura regolarmente sull’elenco. Il portinaio mi ha detto che era partita.”
“Suo marito forse conosce i posti che frequentava.”
“Sì. Me ne ha indicati un paio. E’ in procinto di tornare dal Giappone, ma non arriverà mai in tempo.” A questo punto, Julie Carpenter perse la compostezza e scoppiò in un pianto a dirotto.
Gli occhi di Catherine si ridussero a due fessure.

“E’ bello giocare a basket, vero Danny?”
Il bambino annuisce, terrorizzato.
“Mi dispiace, mi dispiace veramente. Ma tu non potrai più farlo. Senza le gambe è impossibile. Mi rimarranno, un ricordo. Dovresti ringraziare quella troia di tua madre. Ora, aspettami, caro. Devo andare a prendere alcune cose. Poi procederemo. Forse soffrirai. Nel caso, pensa al buon Gesù.”
Danny rimane solo, legato al letto.
Nella sua mente fantastica di segnare un canestro da tre punti.

Il primo dei due locali citati dalla signora Carpenter non produsse alcun risultato. Nessuno si ricordava di Kate Miller, e a nulla valse descriverla. Bruna, alta, con gli occhi scuri; alquanto diversa da Julie, che era bionda e di media statura.  Meg uscì scontenta.
Maggiore fortuna ebbe Heather. Un uomo nerboruto dall’espressione cattiva le rivolse uno sguardo astuto. “Quanto sei disposta a pagare, piccola? E… me la daresti?”
“Alla seconda domanda, la risposta è no. Sa, ho gusti diversi. In quanto alla prima: diecimila dollari.”
Lo sguardo dell’energumeno divenne avido.
“Per diecimila dollari venderei mia sorella!”
“Quindi?”
“Viene spesso in questo bar. Una tipa altezzosa, che crede di essere superiore a noialtri. Un po’ come te.”
“Devo rintracciarla al più presto, signor…”
“Max. Max Powell.”
“Dunque, signor Powell?”
“La ricompensa?”, si informò sospettoso l’altro.
Heather abbassò lo sguardo sulla borsetta. “Diecimila dollari.”, ripeté. “Naturalmente, a patto che lei mi sia da aiuto.”
Powell si guardò intorno, come ad accertarsi che nessuno lo stesse a sentire.
“Non lo so dov’è adesso.”, confessò infine. “Però, certe voci circolano. E in cambio di cinquemila verdoni, sarei in grado di indirizzarti dalla persona giusta.”
“Affare fatto. Chi è?”
Max Powell allungò il collo e annuì, mentre gli occhi porcini si soffermavano su un individuo seduto all’altro lato della sala. Era alto, magro, dall’espressione inquieta. “Sidney.”, sussurrò.
Heather tirò fuori le banconote, le contò e posò la cifra richiesta sul tavolo, poi si alzò e si diresse verso Sidney.

“Sei pronto, caro?”
Danny scruta la donna, imponendosi di non piangere. Quanto a supplicare, mai! Gli eroi dei fumetti non supplicano: lottano. Purtroppo, non è nelle condizioni di reagire, legato com’è. E, comunque, la donna è più forte di lui, se n’è già reso conto. Se ci fosse mio padre!, pensa.
Kate Miller accende quattro candele. Quattro è il suo numero preferito, e le candele danno un tocco di magia alla cerimonia. Alla fine, andrà di persona dalla svenevole Julie Carpenter per godersi il suo trionfo.
Si muove con calma, a piedi nudi. Si muove leggiadra, come una ballerina. Volteggia per la stanza. Infine, afferra l’ascia e si avvicina al letto. Ha delle belle gambe, il piccolo. Sarebbe potuto diventare un buon atleta.
“Ricordati il buon Gesù.”
Poi solleva l’ascia.
Vibra il colpo con vigore, mirando al ginocchio destro. E’ solo l’inizio.

“Sono un’investigatrice privata.”, disse Heather, sedendosi di fronte a Sidney.
Gli mostrò il tesserino e disse: “Kate Miller.”
“Non so di chi stia parlando. Io possiedo un piccolo motel. Cosa vuole da me?”
“Semplicemente evitare che le sia revocata la licenza o, nell’eventualità di certi guai, che l’FBI venga a farle visita. Reati federali, sa cosa significa questo termine?”
Sidney tacque a lungo. Bevve un sorso di birra, scrollò la testa e ribatté: “FBI? E per quale motivo? Io sono una persona onesta!”
“Benissimo.” Heather fece per andarsene.
“Aspetti. Non so niente di niente, lo giuro. Però, è vero: le ho affittato una camera. In genere, cerco di salvaguardare la privacy dei miei clienti; ma se lei parla di FBI…”
“L’ubicazione del suo motel?”

Il dolore è troppo intenso. Danny perde i sensi. Furibonda, Kate si aggira per la stanza. Lui deve soffrire. Troppo comodo così. Vuole sentirlo urlare, perché è come se gridasse Julie, anzi è ancora meglio, altrimenti su quel letto ci sarebbe la sgualdrina che le ha rubato William. Avrebbe potuto sequestrare lei, ma ritiene che il dolore di un figlio sia un peso maggiore da sopportare. E pregusta l’espressione del suo viso, quando vedrà come è stato ridotto l’amato figliolo. Questo la calma.
Riprende a danzare, euforica. Va in bagno, riempie una catinella d’acqua e la rovescia sulla faccia del bambino. Lui apre gli occhi.
Kate riprende l’ascia. Prima regola: infierire sul punto già colpito. In seguito, occuparsi del resto.
Con un movimento elastico, abbassa nuovamente la scure.
E, finalmente, il piccolo Danny urla!
Kate Miller è al settimo cielo.
E’ attraversata da un turbine di emozioni. Da bambina, suo padre la sculacciava, e aveva mani pesanti. Con la cintura dei pantaloni, spesso frustava mamma, e lei provava sensazioni contrastanti: da un lato era dispiaciuta, ma al contempo la scena la eccitava. William! Come aveva potuto preferire una sciacquetta come Julie a lei? Sicuramente, quella falsa frigida lo aveva ricattato; però, dopo aver scoperto quanto era successo, avrebbe ripudiato la moglie e sarebbe tornato fra le sue braccia. Danny boy era lo strumento del destino.

Catherine ricevette la chiamata di Heather, la invitò a tornarsene a casa e lo stesso fece con Meg.
Se ne sarebbe occupata di persona.
Salì in macchina e, guidando veloce, raggiunse il motel.

L’altro ginocchio. Maledizione! Il ragazzino era svenuto di nuovo. Ma aveva tutta la notte davanti a sé. Il mattino dopo, si sarebbe recata da Julie.
A un tratto, però, provò come un senso d’urgenza. Voleva completare l’opera. Subito. Alzò ancora l’ascia per un colpo definitivo.
La porta all’improvviso sembrò scardinarsi.
La luce si accese.
Una giovane donna apparve sulla soglia.
Impugnava una pistola.
Kate la guardò, sgomenta.
Era sua madre? Veniva a rimproverarla perché si era eccitata vedendola strisciare sul pavimento, mentre il papà la frustava?
Si inginocchiò, alzando entrambe le mani. La scure scivolò al suolo.
“Pietà!”, invocò.
Catherine sparò. Per tre volte.
Poi, prima di occuparsi del bambino, pensò al suo lato oscuro.
Non era sicura che le piacesse.

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Il lato oscuroMeg uscì dalla palestra e si incamminò verso la stazione della metropolitana. Indossava una felpa con il cappuccio tirato sulla testa per coprire i capelli ancora bagnati dopo la doccia, leggins e anfibi.
Stava ripensando divertita all’ultimo caso, quello del signor Hitler, quando vide la ragazza. Era sera tarda e in giro c’era pochissima gente: un paio di ubriachi dall’aspetto peraltro inoffensivo e quattro o cinque giovani di colore che si dedicavano alla loro musica, dondolandosi sulle gambe al ritmo di qualche rap che proveniva dalle cuffie.
La ragazza in teoria sarebbe potuta apparire graziosa, ma aveva l’aria emaciata. Per quanto Meg riuscì a notare, era bianca in viso e tremava. Un istante prima che il treno arrivasse, la giovane si lanciò sui binari. Meg spiccò un balzo disperato e la afferrò per la vita, trascinandola indietro. Finirono per terra. La ragazza lottò e scalciò, ma Meg la tenne ferma.
“Sei pazza?”, le chiese.
“Lasciami stare!”, gridò l’aspirante suicida, dimenandosi. “Non hai il diritto di intrometterti nella mia vita.”
“Forse vorrai dire nella tua morte.”, osservò pacata Meg. “Comunque me lo prendo. Come ti chiami?”
“Melanie.”, sibilò l’altra, sconvolta e furibonda. “E ora voglio andarmene!”
“Calmati. Se intendi cercare un ponte da dove gettarti, non ti tratterrò. Mi è concesso un solo salvataggio al giorno.”, interloquì l’investigatrice con un sorriso. “Sono indubbiamente fatti tuoi. Ma… perché?”
Si alzò, lasciando Melanie libera, e le tese una mano, che fu ignorata.
La ragazza si tirò su da sola, guardandola in cagnesco. “Avevo trovato il dannato coraggio e tu, stronza, hai rovinato tutto!”
“Coraggio o follia?”, domandò Meg sempre in tono calmo. “Non vuoi parlarne?”

L’edificio era ubicato in fondo a una piccola via, in un quartiere degradato, dove la polizia passava raramente e di malavoglia. Visto dall’esterno aveva un aspetto alquanto dimesso. Le finestre erano chiuse e non trapelava alcuna luce. Il portone, tuttavia, era massiccio e dotato di una serratura moderna a prova di scasso. Meg girò l’angolo e imboccò una strettoia, delimitata sulla destra da un deposito di legnami e poi da un vecchio garage che aveva conosciuto tempi migliori; sulla sinistra, c’era la casa a due piani dall’aria malandata; in fondo allo stretto vicolo si ergeva un muro alto circa due metri.
Prima del muro, però, un sentiero sterrato conduceva sul retro della costruzione che stava ispezionando. A causa del buio non era possibile individuare un secondo, eventuale, ingresso. Meg accese la torcia elettrica e scorse una porticina, seminascosta da alcuni vecchi mobili e da un ammasso di ferraglia. Oltre, non era possibile proseguire perché il muro pochi metri più avanti curvava, come riavvolgendosi su se stesso. In alto, brillava un lumicino, attraverso una tendina troppo corta per coprire tutta la finestra. Tale finestra era situata sopra il secondo piano – una mansarda, evidentemente -, che non risultava visibile dall’entrata principale.
Meg si impresse nella memoria ogni particolare, quindi tornò a casa a dormire.

Melanie Griffith era una brava ragazza. Apparteneva a una famiglia che la adorava. Suo padre lavorava in un cantiere navale, aveva un discreto stipendio ma anche un mutuo da pagare, dato che tre anni prima aveva acquistato una bella casetta con un piccolo giardino annesso. Melanie era un’artista di talento. Sognava di aprire una galleria tutta sua; però naturalmente non disponeva dei soldi necessari. Si era fidata di un “amico” ed era andata in una bisca clandestina. Oltre ad aver perso tutti i risparmi che faticosamente era riuscita a mettere da parte, vendendo i suoi quadri e sbrigando mille lavoretti, aveva accumulato un debito di cinquantamila dollari.
La sera precedente, l’avevano avvisata: se non avesse pagato entro tre giorni, le avrebbero spezzato le gambe.
Meg l’aveva ascoltata in silenzio, poi l’aveva portata in un bar e aveva ordinato due grossi boccali di birra.

Due sere più tardi, Patricia entrò nella casa, grazie alla collaborazione di un agente corrotto che tempo prima lei non aveva denunciato proprio in considerazione di possibili benefici futuri.
L’interno era assolutamente diverso dalla parte esteriore. Vi era una lussuosa sala da pranzo, che serviva cene eccellenti e un servizio di prim’ordine con camerieri solleciti e cortesi. C’era un bar estremamente ben fornito: liquori, prelibati stuzzichini, bibite di ogni genere. Nessuno faceva caso ai prezzi esorbitanti. C’erano due bagni ampi e spaziosi, nonché perfettamente puliti. E c’era la sala da gioco, discretamente illuminata e le cui finestre che davano sulla strada erano protette da pesanti tendaggi di velluto scuro.
Patricia acquistò le fiches alla cassa, pagando in denaro contante; quindi si recò a una delle roulette, incominciando a giocare e a perdere cifre modiche. Al croupier non sfuggì il fatto che puntava sempre sul diciassette, con pervicace ossessione. Qualche tempo dopo, il suo occhio esperto notò che la sprovveduta andava nuovamente alla cassa – aveva perso la modesta somma che aveva investito -, e che adesso giocava cifre consistenti, sempre sullo stesso numero e naturalmente sempre perdendo.
Non riuscì, però, a sentire la vibrazione del cellulare, che regolato a volume zero annunciava una chiamata alla quale Patricia si guardò bene dal rispondere.
Nel frattempo, il croupier annunciava impassibile: “Place your bets”. E in seguito: “Finish betting”, per poi finire con: “No more bets”. Negli Stati Uniti, queste tre frasi sono l’equivalente delle più conosciute (in Europa) Faites vos jeux, Les jeux sont faits e Rien ne va plus.
Patricia gettò sul tavolo fiches per un valore di mille dollari.

Nel sentiero rischiarato da poche lontane stelle, Meg posizionò la scala snodabile che aveva portato con sé, in modo da ridurre le distanze, la salì agilmente, lanciò il rampino a tre punte, si assicurò che avesse fatto presa e cominciò ad arrampicarsi. Calzava scarpe con suole di gomma, aveva il volto coperto da un passamontagna e indossava una tuta nera. Aprire la finestra della mansarda fu un gioco da ragazzi.
La giovane saltò dentro, puntò la pistola su un uomo dall’aria esterrefatta e gli fece segno di tacere. Gli si avvicinò, esaminò l’ambiente concentrandosi sul marchingegno posto sul tavolo, e premendogli l’arma alla tempia gli impartì alcuni ordini. Non ci fu bisogno di insistere.

La pallina di teflon ruotò fino a fermarsi sul numero diciassette.
Ciò significava una vincita di trentacinquemila dollari.
Impassibile, Patricia puntò ancora sul suo numero preferito; ma questa volta spinse davanti a sé fiches corrispondenti a tremila dollari.
Il croupier, palesemente a disagio, premette un pulsante nascosto. Arrivò il direttore di sala, osservò la scena e annuì. Se anche quella non fosse stata una bisca clandestina, le probabilità che uscisse ancora il diciassette erano largamente inferiori al 2,63158 per cento. Ma, dato che quella era una bisca clandestina, Tom, lassù, avrebbe in ogni caso provveduto.
Il croupier premette un secondo pulsante.
Tom, terrorizzato dalla figura nera che lo minacciava con una pistola, interpretò quell’ordine all’inverso.
Quando la pallina si arrestò di nuovo sul diciassette, procurando una vincita di centocinquemila dollari, la gente che gremiva la sala esplose in un grido collettivo. Una cosa mai vista!
Patricia incassò i suoi centoquarantamila dollari, sorrise soavemente all’allibita cassiera e uscì dal locale.

Il giorno dopo, Catherine divise il denaro in tre parti: tolte le perdite iniziali, restavano centoventimila dollari. Cinquantamila erano destinati a saldare il debito di Melanie, altri cinquantamila erano per lei, e, modestamente, ventimila dollari spettavano alle ragazze terribili.

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Il lato oscuro - Meg“Mi chiamo Aldolf Hitler.”, dichiarò l’uomo con i baffetti grigi.
Catherine lo osservò, cercando di mantenere un’espressione impassibile. L’uomo dimostrava circa cinquanta-cinquantacinque anni e, per quanto ricordava dalle foto o dai filmati d’epoca, non assomigliava minimamente al Führer. Questo significava due cose: che era nato dopo la fine della seconda guerra mondiale e che era indubbiamente pazzo. Si domandò come mai non si trovasse in un’adeguata struttura sanitaria. L’impeccabile completo grigio, stirato alla perfezione, la camicia bianca con i polsini d’oro, la cravatta di seta e le costose scarpe italiane fornivano un risposta: era un pazzo ricco.
“In cosa posso esserle utile, signor Hitler?”
“Sono venuto qui in America per rifarmi una vita, e c’ero riuscito; poi quel maledetto ebreo mi ha visto e riconosciuto!”
“Quale maledetto ebreo?”
“Yosseph Lechner!”, ringhiò l’uomo, come se sputasse le parole.
L’accento era tipicamente californiano, considerò fra sé Catherine; ma il problema era un altro: come liberarsi da quel folle individuo?
Un istante dopo, vide allibita un mucchio enorme di banconote che si depositava sulla sua scrivania.
“Tenterà di uccidermi entro i prossimi tre giorni. Voglio che mi proteggiate.”
“Esistono varie agenzie che possono procurare eccellenti guardie del corpo.”, suggerì Catherine, mentre calcolava approssimativamente la cifra spropositata che si trovava davanti.
“Pagliacci!”, sbottò Hitler. “Come le SS che non sono riuscite a eliminare quel porco giudeo. Mi hanno parlato bene di voi. Donne risolute, forti, belle e ariane, forse tranne una.”
Catherine si scusò e uscì dall’ufficio. Non poteva decidere da sola. Sapeva che avrebbe rischiato un’incriminazione per circonvenzione di incapace, o qualcosa di simile; però sapeva altresì che con quel guadagno enorme le sue amiche avrebbero potuto permettersi qualsiasi sfizio: una macchina nuova, una vacanza esclusiva, una barca.
La riunione fu breve. E prevalse il parere di Meg.
Catherine tornò da Hitler. “D’accordo.”, disse. “Se è quello che desidera, lei sarà al sicuro per i prossimi tre giorni.”
L’uomo annuì, soddisfatto. “E’ quello che desidero.”
Si alzò, quindi aggiunse: “Comunque, non sarà un compito eccessivamente gravoso. Con i pochi soldi che mi sono portato dalla Germania, ho potuto acquistare una villa che è ben sorvegliata. Filo spinato, cani, cellule fotoelettriche. Questo genere di cose. Ogni mattina, però, amo fare una passeggiata. Sempre rigorosamente da solo. In genere, mentre cammino rifletto e ricordo: la conquista della Francia, la liberazione del Duce, i bombardamenti di Londra… bang bang… mmmm, l’invasione dell’Unione Sovietica. E sarà in quel momento che Lechner cercherà di ammazzarmi.”
Il giorno dopo, Meg si recò all’indirizzo convenuto, spalancò gli occhi vedendo la villa – era semplicemente immensa – e seguì a debita distanza il signor Hitler. Non accadde nulla.
Nel frattempo, Patricia lavorava al pc.
Scoprì che l’uomo in questione in realtà si chiamava Daniel Penn ed era immensamente ricco. A occhio e croce, sebbene fosse difficile individuare tutte le sue fonti di reddito, poiché erano estremamente diversificate – cantieri navali, possedimenti in Texas, fabbriche di medicinali, una decina di alberghi di lusso sparsi in Florida – il suo patrimonio si aggirava sui cento milioni di dollari.
Intanto Catherine, per scrupolo, telefonava alla polizia.
“Le passo il mio superiore”, disse l’agente che rispose alla chiamata.
Catherine espose il caso.
“E’ stata molto gentile a informarci. Provvederò a mandare due macchine, no, forse tre. Magari quattro. Grazie!” John Parker riagganciò, emise un sospiro e tornò alle sue incombenze.
Catherine guardò il ricevitore, vagamente perplessa, poi prese in mano il fascicolo che riguardava un nuovo caso.
Ventiquattro ore più tardi, Meg seguì ancora il signor Hitler-Penn, tenendosi a debita distanza. Non vide indivudui sospetti, non notò nulla di strano e, quando il cliente terminò la passeggiata, andò a mangiarsi un paio di hamburger.
Fu la terza mattina che Patricia confermò di essere una maga dei computer. Yosseph Lechner si chiamava Yosseph Weber, era il presidente di un consorzio di banche, in effetti era ebreo e il suo patrimonio superava gli ottanta milioni di dollari. Sia Hitler- Penn, sia Lechner-Weber pagavano regolarmente le tasse, ed entrambi avevano affidato i loro imperi finanziari a dirigenti esperti e capaci. In pratica, si godevano i soldi e non lavoravano più. La cosa strana – ed era quello che li accomunava – era che non avevano hobby. Niente golf, niente crociere, niente amanti. Che vite noiose, pensò la giovane investigatrice. A che serve essere così ricchi?
Un’ora più tardi, accadde.
Meg scorse un uomo che si avvicinava con fare aggressivo a Hitler-Penn. Impugnò la pistola e corse verso il suo facoltoso cliente.
“E’ Lechner!”, urlò Penn. “Cosa vuoi da me maledetto giudeo?”
“E’ giunta la tua ora, dannato nazista!”
Meg si frappose fra i due. “Sono un’investigatrice privata.”, disse rivolgendosi a Lechner, un omino piccolo e dall’aspetto insignificante. “Adesso lei mi seguirà alla centrale!”
Lechner la ignorò. “Hai contravvenuto alla clausula quattro!”, gridò a Penn. “Questo è assolutamente indecoroso!”
“Speravi di farcela, eh, jüdisch?”
“La clausola quattro!”, ribadì l’altro, dando una spallata a Meg. Poi tirò fuori una pistola grottescamente enorme. E, prima che Meg potesse intervenire, sparò.
La giovane sbiancò in viso. Non poteva assistere a un assassinio!
Penn fu raggiunto da un grande spruzzo d’acqua colorata.
“Finalmente abbiamo regolato i conti!”, annunciò trionfante Lechner.
Sbalordita, Meg vide che i due irriducibili nemici si abbracciavano ridendo fino alle lacrime.
Quella sera, Catherine, Heather, Patricia e Meg furono ospiti nel più esclusivo ristorante di Los Angeles.
“E’ da quando abbiamo lasciato i nostri affari che ci divertiamo così.”, disse il signor Adolf Hitler stappando una bottiglia di champagne.
A tarda notte li riportarono a casa completamente ubriachi.

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NicoleL’uomo obeso e tatuato scrutò la giovane bionda che si trovava di fronte. Era bella, esile, con gli occhi azzurri: il genere di donna che piaceva a lui. Con un sospiro le fece strada lungo un corridoio stretto e buio. Al di là di una massiccia porta, c’era il magazzino, fatiscente e ingombro di casse.

Catherine varcò la soglia del ristorante, pensando divertita a quanto stavano combinando nel frattempo le sue amiche. Avevano deciso di partecipare a un rodeo party. L’idea era stata di Meg – l’unica, a suo avviso, che forse sarebbe tornata a casa incolume. Vedeva già Heather e Patricia con le ossa rotte.
Naturalmente anche Catherine era stata invitata ma, benché fosse quella con le maggiori probabilità di successo, aveva giudicato la cosa poco dignitosa. Prese posto a un tavolo d’angolo, accanto a un’ampia vetrata che dava su un giardino interno, illuminato da una serie di faretti che gli conferivano un aspetto vagamente fiabesco. Studiò la lista e scelse costata, patatine fritte, gelato alla vaniglia e Diet Coke.
Il cibo era squisito e mangiò con appetito. Era stanca dopo una giornata di lavoro intenso, non aveva voglia di cucinare e, finito di cenare, sarebbe andata subito a dormire. Si augurava di non sognare Heather in lacrime.
Pagò il conto con la carta di credito. La cameriera che l’aveva servita, un’affascinante biondina, si allontanò di qualche passo, poi fece un gesto furtivo che a Catherine non sfuggì. Però, non le era chiaro il senso di quel movimento; nutriva un vago sospetto, ma non la certezza assoluta.
Incuriosita, la sera dopo tornò nello stesso locale. Aveva trascorso metà pomeriggio ad ascoltare rassegnata le vanterie di Meg e a guardarla cambiare continuamente posizione alla enorme coppa che aveva vinto. Quando, finalmente, si dichiarò soddisfatta, il sole era già tramontato da un’ora.
Il ristorante era pieno, all’infuori di un tavolino situato all’altra estremità della sala rispetto a dove aveva mangiato ventiquattro ore prima. E la cameriera era un’altra. Catherine sostenne di non avere fretta e di preferire il posto della sera precedente. “Per via del giardino.”, disse. Il maitre fece spallucce e le indicò il bar, suggerendole un aperitivo offerto dalla casa.
Infine, Catherine poté sedersi. Consumò ancora una cena eccellente e, al momento del conto, studiò con attenzione l’attraente cameriera bionda. Questa volta vide chiaramente ciò che faceva.
Tre giorni più tardi, sul tardo pomeriggio, si collegò con il pc al sito della banca e digitò il codice d’accesso. Fra gli ultimi movimenti registrati, figuravano regolarmente le spese relative alle due cene; meno regolari erano due prelievi di entità modesta, che in un estratto conto mensile o trimestrale sarebbero sfuggiti ai più, a causa di tutti i numeri complicati che sono prerogativa di tali rendiconti.
Un’ora dopo entrava di nuovo nel ristorante. Il “suo” tavolo era libero. Si affrettò a occuparlo e ancora una volta mangiò con grande gusto. Saldò il conto, sempre con la carta di credito, ed ebbe la prova inequivocabile di quello che faceva la truffatrice bionda. Aveva con sé una sofisticata macchinetta, dalle dimensioni molto ridotte che nascondeva in una tasca del grembiule, e mentre si dirigeva alla cassa clonava la sua American Express. Pochi dollari, della cui mancanza nessuno si sarebbe accorto. Ma, moltiplicati per dieci, per cento, per mille, quanto diventavano in un anno?
Catherine uscì e attese l’orario di chiusura nascosta in un portone.
Verso l’una di notte, la bionda, in minigonna e scarpe con i tacchi, salutò le colleghe e si incamminò in direzione opposta. Catherine la seguì lungo due isolati, poi la affiancò e la afferrò per un polso. L’altra, spaventata, cercò di liberarsi, ma la differenza di forza glielo impedì. “Cosa vuoi farmi?”, domandò alla donna che l’aveva aggredita e che, a causa del buio, non era ancora riuscita a riconoscere.

“Questa andrà benissimo per lei. E’ leggera, maneggevole e assai precisa.”, disse l’uomo obeso. “Ovviamente, il numero di serie è cancellato; ciò nonostante sarebbe bene che, portato a termine il lavoretto, lei se ne liberi nel più breve tempo possibile. In quanto al resto, io non l’ho mai vista e lei non ha mai visto me. E voglio soltanto contanti. Prima di concludere, controllerò i numeri di serie, lei mi capisce.”
La bionda annuì. “Quanto?”, chiese.

“Come ti chiami?”, le domandò Catherine. “Jill. Jill Appleton. Cosa vuoi farmi?”, ripeté. “Non ho danaro con me, soltanto pochi spiccioli.” Catherine la trascinò fino a un lampione. “Adesso mi riconosci? Non voglio derubarti, stai tranquilla. Più semplicemente, andremo insieme alla polizia.”
Jill la fissò impietrita. Poi scoppiò in lacrime. “Non sono una ladra!”, esclamò fra i singhiozzi.
“Io direi di sì, invece.”, obiettò in tono gelido Catherine. “E non sei una truffatrice occasionale… continuazione di reato… da quanti mesi ti appropri indebitamente dei soldi dei clienti? Coraggio, ti porto alla centrale.”
“Non voglio andare in prigione, ti prego!”
“Però, lo meriti.”
“Sì.”, ammise Jill. “Ma… ma… posso spiegarti.”
Alla luce del lampione Catherine notò che era mortalmente pallida. Provò un senso di pena. Sto invecchiando, si disse. “Sentiamo.”
“Non sono l’unica.”, affermò la bionda. “Non conosco le altre, però so che siamo almeno in venti; ciascuna opera in una zona diversa e lontana. Chi comanda l’organizzazione è una donna avida e spietata. Nicole Greene. Eravamo compagne al college, lei era di tre anni maggiore ma finse di desiderare la mia amicizia; poi io fui espulsa perché mi trovarono a letto con un’altra ragazza.
In seguito, Nicole mi rintracciò. Conosceva questa mia debolezza. Organizzò una specie di festa… ehm… molto intima. Mi fece bere, mi spinse a provare la coca. C’erano queste due cubane, una più bella dell’altra. Mi sedussero, passammo la notte a fare sesso e a tirare coca. Al mattino dopo, ero pentita. Ma Nicole aveva fotografato tutto. E da allora mi ricatta. Se i miei genitori vedessero quelle foto… mio padre è debole di cuore…non voglio pensarci!”
Catherine annuì. “Inoltre, se la denunciassi, finiresti in carcere anche tu. E, dolore dei genitori a parte, per una delatrice la prigione è l’inferno in Terra.”
“Non mi porterai dagli sbirri?”, le domandò ansiosamente Jill.
Catherine rifletté. Che Jill Appleton avesse sbagliato era fuori questione, ma quali alternative aveva? Se suo padre avesse visto le foto, avrebbe rischiato un infarto; e in seguito era entrata in un meccanismo perverso dal quale non era possibile uscire.
“No.”, disse infine. “Ho deciso di aiutarti.”
D’impulso, Jill la abbracciò, tuttavia poi si scostò. “Non puoi.”, ribatté con voce lugubre. “Nicole ti ha notata. A lei non sfugge nulla. Ti ha visto questa sera – di tanto in tanto viene a controllare – e non le sei piaciuta. Ha voluto sapere se era la prima volta che venivi a mangiare da noi. E, quando le ho risposto che ti avevo già servita due o tre volte, ha assunto un’aria pensierosa. Il maitre, per qualche ragione, le ha raccontato che avevi rifiutato un altro tavolo: lui fa parte della banda. Nicole è diventata fredda come un serpente. Grazie alla carta di credito, ti troverà. Rischieresti la vita, amica mia.”
“Amica? Mi chiamo Catherine. Credo che sia un po’ presto per considerarci amiche.”
Jill scosse la testa. “Per te, forse. Non per me. Tu sei la prima persona che mi ha teso una mano, sei la mia unica amica. Non voglio che ti succeda qualcosa di brutto.”
“Sono un’investigatrice privata e conosco il mio mestiere. Rilassati, Jill. Organizzerò una trappola perfetta. Fra un mese a partire da oggi, tutto sarà sistemato.”
Jill esitò, poi la baciò su una guancia. Catherine accolse quel bacio senza sottrarsi, sebbene provasse un lieve imbarazzo. Ma dentro di sé avvertì una profonda emozione. Avrebbe salvato quella sfortunata ragazza.
Mmmm, sto invecchiando, sussurrò alla notte, prima di spegnere la luce e di addormentarsi.

Nicole Greene l’avrebbe uccisa. Senza pietà. Nicole era più forte di Catherine, era più forte di tutti. Jill non poteva permetterlo. Aspettò che l’armaiolo controllasse il numero di serie dei dollari con cui lo aveva pagato, prese la pistola, fermò un taxi e indicò l’indirizzo di una casa lussuosa. All’ultimo piano, era ubicato lo sfarzoso attico di Nicole. Mentre suonava al citofono, si sentiva forte, di una forza che non credeva di possedere. Ti voglio bene, Catherine, pensò entrando nell’ascensore.

Fu un presentimento che indusse Catherine a recarsi nuovamente al ristorante. Sedette al consueto tavolo e aspettò che Jill venisse a raccogliere l’ordinazione. Si presentò una cameriera che non aveva mai visto. Catherine si alzò di scatto e uscì dal locale. Sapeva dove abitava Nicole Greene. Patricia aveva rintracciato il suo domicilio senza il minimo problema. Balzò in macchina e pigiò il piede sull’acceleratore, sfrecciando per le strade di Los Angeles. Aveva capito quello che la biondina aveva in animo di fare. Affrontò le curve ad andatura folle, effettuò un sorpasso sconsiderato che le valse una quantità di insulti, e infine arrestò l’automobile con un grande stridore di freni.

Jill entrò nell’abitazione. Le aveva aperto Roger, uno degli amanti occasionali di Nicole: una nullità.
“Cosa vuoi, Appleton? Perché non sei al lavoro?” La voce di Nicole Greene era fredda e imperiosa. Indossava un giubbotto di pelle. Evidentemente stava per uscire. Non nascose il fastidio che quella visita inaspettata le procurava. Era magra ma dall’aspetto atletico e muscoloso di chi dedica molte ore all’esercizio fisico.
“Sono venuta a regolare i nostri conti.” Jill si espresse in modo fermo; la voce non le tremava e neppure la mano, quando tirò fuori la pistola.
“Sei impazzita?”
“Oh, no. Non mi sono mai sentita meglio di adesso.”
Prese la mira e sparò.

Catherine suonò a vari citofoni, finché qualcuno, irritato, le sbraitò di non disturbare la gente a quell’ora. Pizza a domicilio? E che gli importava? Non era per lui. Un attimo dopo, tuttavia, l’investigatrice udì il clic e si catapultò verso l’ascensore. Era all’ultimo piano. Premette il pulsante e attese impaziente che scendesse.
Udì il suono dello sparo, che echeggiò nel silenzio della sera.

La pallottola sfiorò una spalla di Nicole, senza però colpirla.
Jill impugnò l’arma a due mani, come aveva visto fare in mille telefilm polizieschi, ma non riuscì a premere per la seconda volta il grilletto. Mentre Roger si ritraeva, terrorizzato, Nicole Greene le fu addosso. Le due donne lottarono per il possesso della pistola; poi, quando l’arma finì a terra, sfuggendo ad entrambe, continuarono a lottare, dapprima in piedi, quindi, in seguito a uno sgambetto di Nicole, sul morbido tappeto persiano che copriva il pavimento.
Jill si batteva con ferocia, allo spasimo, ma Nicole era più robusta. La immobilizzò, sedendosi a cavalcioni su di lei. La guardò trionfante e con calma disse: “Roger, vuoi essere così cortese da passarmi quello stupido arnese?”
Lui parve non comprendere. Nicole indicò con un dito la pistola.
Jill si dimenava disperatamente, ma il peso dell’altra la inchiodava al suolo.
Roger obbedì.
“Bene, piccola stupida. Credevi di vincere?”
Jill tentò ancora, invano, di liberarsi.
Fissandola negli occhi con una luce di eccitazione nello sguardo, Nicole cominciò a premere il grilletto.
Catherine scardinò la serratura facendo fuoco quattro volte. Irruppe nell’attico.
Osservò, sgomenta, la scena. Jill sotto, l’altra donna sopra. E la morte in agguato.
“Ferma!”, urlò.
Nicole sparò in bocca a Jill.
Un istante dopo, si alzò agilmente e prese di mira Catherine.
Si esercitava spesso al poligono ed era un’ottima tiratrice.
Risuonarono due spari.

Al funerale parteciparono pochissime persone. Alcuni anziani, che non avevano niente di meglio da fare, il pastore e quattro giovani donne.
Deposero una grande corona di fiori sulla tomba, sormontata da una semplice lapide che recava scritto: qui giace una splendida ragazza, strappata troppo presto dalla vita e da ciò che avrebbe meritato. Riposa in pace, amica Jill.
Mmmm, sto invecchiando, pensò Catherine, mentre frugava nella borsa per trovare un fazzolettino. Era la terza volta che formulava quel pensiero, e ne era consapevole.
In ogni caso, non avrebbe dimenticato facilmente Jill Appleton.

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HeatherIl mazzo di rose baccarat scuro come il sangue più che un pensiero romantico sembrava un avvertimento minaccioso. Ormai da circa un mese, Danielle riceveva dei mazzi di rose e, come d’abitudine, guardò tra i lunghi e spinosi gambi, trovando il solito sacchetto di pizzo. Questa volta era una spilla incredibilmente bella, antica e preziosa. La osservò incredula e ammaliata, ma nel contempo impaurita, e dopo averla rigirata timidamente fra le mani la ripose assieme a tutti gli altri gioielli che aveva ricevuto nello stesso modo.
Era più spaventata del solito; sapeva che il giorno seguente sarebbe uscita sul “Los Angeles Times” la notizia del furto con la descrizione minuziosa del gioiello.
Non sapeva che fare. Recarsi alla polizia era da escludere, visto il suo passato, e poi chi avrebbe creduto a una simile storia? Chi riceve dei regali sontuosi da un anonimo?
Aveva sentito parlare di quattro giovani investigatrici, che molti chiamavano “le ragazze terribili”. Da quanto aveva appreso, risultavano determinate, oneste… e talvolta spietate.
Qualche tempo prima, Danielle aveva fatto parte di una banda che derubava le gioiellerie più esclusive; avevano sottratto diamanti, rubini, orologi di marca, senza farsi mai beccare. Poi il capo era scomparso, proprio nel momento in cui il medico le aveva confermato che lei aspettava un bambino da lui. Poiché, a sua volta, era sparita dalla circolazione, il resto della gang aveva pensato che fosse fuggita con Brad. In realtà, aveva deciso di cambiare vita e si era rifugiata dai genitori.
Inizialmente, il padre di Danielle aveva storto il naso, cercando di dissimulare l’indignazione; la mamma, che stravedeva per l’unica figlia, l’aveva invece abbracciata e stretta forte a sé. Alla fine, anche il padre aveva ceduto alla commozione e, perché no, all’orgoglio che derivava dal fatto che presto sarebbe diventato nonno. Danielle avrebbe avuto tutti i motivi per essere, se non felice, almeno serena; ma quei fiori, con annessi i gioielli, per lei rappresentavano un incubo.
“E’ un uomo violento, un pazzo!”
Catherine scrutò, pensierosa, la giovane donna. Patricia era da qualche parte in Indonesia, in vacanza; Meg e Heather erano in procinto di partire per il Messico. In quanto a lei, il mattino dopo si sarebbe sottoposta a un lieve intervento chirurgico: niente di grave, ringraziando il cielo.
“I suoi sono avvertimenti! E’ lui che mi ha lasciata, e senza pronunciare una sola parola d’addio; ma ora, nella sua mente contorta, ha deciso di farmela pagare. E non sarà una punizione lieve, glielo assicuro! Sono certa che, prima o poi, mi ucciderà. E pensare che un tempo mi amava, o almeno così sosteneva.” Danielle si strinse nelle spalle. “Ha perso la ragione!”
Catherine annuì. Detestava ciò che stava per fare, ma il dovere veniva prima di tutto, e quella “sciagurata” aveva il diritto di essere protetta. Prese il telefono e digitò un numero. Al terzo squillo, Heather rispose. “Mi dispiace…”, disse Catherine. Si allontanò dalla scrivania con la poltroncina girevole nella speranza che la giovane che sedeva di fronte a lei non udisse le imprecazioni che giungevano dall’altra parte del filo, degne – pensò, nascondendo un sorriso – di uno scaricatore di porto, ma di quelli tosti,  quindi riagganciò e tornò seria.
“Dopo aver partorito, è disposta a trascorrere qualche anno in prigione?”
Danielle scosse la testa. “Separarmi da mio figlio? Sono certa che sarà un maschio, bello come Brad, ma non cattivo e crudele come lui: avrà bisogno della mamma. E poi, lei lo sa cosa fanno le portoricane a donne come me?”
Catherine lo sapeva. La sua interlocutrice era graziosa, ma aveva un aspetto fragile. L’avrebbero violentata, questo era poco ma sicuro. D’altro canto, avrebbe dovuto pensarci prima. “Sono rincresciuta.”, disse in tono pacato. “Tuttavia, se desidera essere aiutata, questo è lo scotto che dovrà pagare.”
“La prego!” Danielle la fissò con gli occhi spalancati, torcendosi le mani. “Io non ho mai fatto del male a nessuno. Le persone che ho derubato erano assicurate, sono state risarcite. E le assicurazioni sono società a delinquere, al pari delle banche.”
Catherine trasse un profondo sospiro. “Vedremo.”, rispose.
Un’ora più tardi, la porta dell’ufficio si aprì. Apparve Heather, scura in volto. “Ok, capo!”, esclamò con esplicito sarcasmo.
Catherine le porse la foto di un uomo in jeans e canotta che dimostrava circa trent’anni, sul metro e ottanta, ottantacinque chili, muscoli e tatuaggi in evidenza; poi le spiegò ciò che si aspettava da lei.

Rintracciare Brad sembrava impossibile, ma Heather conosceva il luogo adatto dove raccogliere informazioni.
Abbigliata in modo adeguato all’ambiente, entrò in un sudicio bar e si guardò attorno nella penombra. Il tratto distintivo degli avventori che frequentavano quel bar, situato in una viuzza colma di immondizia, era che erano tutti pregiudicati. Heather ordinò una birra e andò a sedersi al tavolo di un giovane che conosceva. Non era esattamente un delinquente: la sua attività consisteva nel rubare auto o, in alternativa, furgoni e motociclette. Non guadagnava molto, poiché il suo ricettatore abituale era abilissimo a lesinare sul prezzo. In ogni caso, pensava Steve, era meglio non correre rischi inutili, perciò preferiva evitare individui a lui sconosciuti.
“Come te la passi, Steve?”, gli domandò facendo segno al proprietario del locale di portare un’altra birra. Bevvero con calma, poi lui ruttò e disse: “Niente di speciale.” Indicò il boccale ormai vuoto e aggiunse: “Il secondo giro è mio.” Heather annuì graziosamente.
Lasciò trascorrere alcuni istanti, quindi si sporse verso di lui. “Sto cercando un certo Brad.”
Steve si ritrasse, ma con un attimo di ritardo. “Mai sentito nominare.”, dichiarò con aria indifferente. “Un’altra birra? Offro ancora io.”
“No, grazie.” Heather fece scorrere lo sguardo fino all’ingresso. “Oh, oh, sento odore di guai.” Steve alzò gli occhi dal tavolo e vide la poliziotta. Non era di quel quartiere; si domandò cosa ci facesse lì. Inoltre era sola, e questo suonava strano: i piedipiatti si presentavano sempre in coppia.
L’agente si diresse verso di lui. Era giovane e attraente, però aveva l’espressione da dura, di quelle che non fanno sconti. O frigida o lesbica, considerò fra sé il ladro. La donna gli mostrò un tesserino, che un momento dopo fece scomparire, quasi come in un gioco di prestigio. “Le dispiacerebbe svuotare le tasche e deporre ogni oggetto sul tavolo?”
Steve ghignò. Cosa diavolo stava cercando? Comunque, lui era pulito. Tirò fuori un fazzoletto, un rotolo di banconote, alcuni spiccioli e la patente. “L’altra tasca del giubbotto.”, disse la sbirra, mentre riportava i suoi dati su un taccuino.
Steve obbedì, assolutamente tranquillo. All’improvviso, impallidì. La poliziotta raccolse un involucro di plastica trasparente, che era pieno di polvere bianca. Lo aprì e annusò il contenuto. “Mi segua alla centrale e senza opporre resistenza.”, disse in tono gelido.
“Non è roba mia!”, protestò il ladro, ed era vero; “qualcuno vuole incastarmi”, e anche questo era vero.
“Certo.”, commentò, asciutta, Meg. “Qui ce n’è abbastanza per spacciarla ad almeno dieci ragazzini. Forza, si alzi e non si sogni di provare a scappare. Non esiterei a spararle.”
Frastornato, incredulo e in preda a un vivo panico, Steve obbedì.
Intervenne Heather. “La prego, agente! Per questa volta non potrebbe chiudere un occhio?”
“E’ fuori questione.”
“Mi ascolti, per favore. Io sono un’investigatrice privata. Ho tutti i documenti in regola. Quest’uomo mi sta aiutando a risolvere un caso. Se lei lo arresta, a breve ci sarà un omicidio. Solo lui è in grado di evitarlo, e non perché sia coinvolto; semplicemente sa dove trovare l’assassino.”
Meg la scrutò, fingendo di essere perplessa. Quanto doveva durare ancora quella pantomima? Guardò il ladro e comprese che era terrorizzato. Non sospettava nulla. Si chinò, raccolse l’involucro che conteneva una quantità di aspirine debitamente ridotte in polvere e lo infilò in una tasca della divisa. “Per questa volta.”, disse. “Ma, stia attento: la controllerò.” Raddrizzò le spalle e uscì dal bar.
Steve era bianco come uno straccio. Sentendosi perfida, Heather domandò con aria angelica: “Dove posso trovare Brad?”

Lo trovò l’indomani, in uno scantinato buio e polveroso.
Era armata. Una precauzione superflua.
Rimase fortemente stupita e, dopo essersi presentata e aver spiegato le ragioni della sua visita, diede una rapida scorsa alla foto che aveva con sé.
Il suo primo pensiero fu che Steve, sebbene fosse spaventato, aveva capito che era stata a lei a infilargli in tasca la polverina e di conseguenza l’aveva deliberatemente ingannata.
Ma gli occhi non mentono. E quelli erano gli occhi di Brad.
Per il resto, non era più la stessa persona. Il viso emaciato, ogni traccia di muscoli scomparsa, doveva aver perso almeno trenta chili. E lo sguardo arrogante, da predatore, era stato sostituito da un’espressione sofferente.
Quest’uomo sta per morire.
Brad parve averle letto nel pensiero. “Mi rimangono pochi giorni di vita. Ai bei tempi era uno spasso rapinare le gioiellerie; nelle ultime settimane, invece, per me è stato uno sforzo inaudito. Se ce l’ho fatta, se ci sono comunque riuscito, è stato per un unico motivo: per amore. Dunque, la manda quella sciocca? Quell’adorabile sciocca?” Heather notò le lacrime. Provò un grande senso di disagio.
“So che avrò un figlio.”, mormorò l’uomo. “E ciò mi rende felice. Ma che padre potrei mai essere? Danielle deve rifarsi una vita… e quei fiori, quei gioielli sono il mio dono d’addio. Vendendoli, avrà il futuro assicurato. Potrà crescere bene il nostro bambino.”
Soffocò un singhiozzo e le indicò la porta.
“Sia gentile, mi lasci solo.”
Heather uscì sulla strada spazzata dal vento. Camminando curva, iniziò a piangere.

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Il lato oscuroNegli ultimi tempi avevano guadagnato molto, in particolare grazie al signor Diego Gomez che aveva devoluto loro il venti per cento del suo milione di dollari ricavato dalla vendita del Goya. Senza contare la generosità del padre di Michelle, la ragazza stuprata al campo sportivo, il distinto dottor John Williams.
Catherine decise che le ragazze meritavano una vacanza premio, sette giorni da trascorrere in montagna. Per qualche ragione, dopo aver sfogliato numerosi depliant, scelse l’Italia e precisamente Bormio, un paese situato in provincia di Sondrio, famoso per le terme oltre che per i campi da sci e per il pittoresco paesaggio. Ubicato in una conca, offriva un panorama ridente, a differenza di altre località più cupe dove le montagne incombevano su strette vallate e il clima era più rigido.
Dopo aver attraversato l’oceano, si fermarono per un giorno a Milano, dedicandosi a vari acquisti. Avevano viaggiato leggere. Dietro suggerimento del portiere dell’hotel Gallia, si recarono da Moncler dove comprarono bianche tute sexy, scarponi da sci – solo due paia per Catherine e Meg -, pattini per Heather, e comodi alti doposci di pelo per tutte e quattro. Gli sci li avrebbero affittati in loco.
Dopo un ottimo pranzo, consumato da Bagutta in zona Montenapoleone (Meg aveva proposto hamburger e patatine, ma venne fulminata da sei occhi), noleggiarono una Lancia. Poi acquistarono vestiti adatti per la sera da Dolce e Gabbana. Infine, Patricia, l’unica non sportiva, si dedicò ai libri. Scelse “Inferno” di Dan Brown, “Il crepuscolo della Lubjanka” di una certa Alessandra Bianchi, unitamente a un dizionario dato che non esisteva una versione tradotta in inglese del romanzo dell’italiana. Patricia era misteriosamente attratta dal KGB.
Cenarono al Gold di Dolce e Gabbana e andarono a dormire presto.
L’indomani presero l’autostrada dei laghi, esplorarono velocemente Como, dopodiché puntarono sulla Valtellina. Arrivarono in tutta calma a Bormio per l’ora dell’aperitivo. Avevano una settimana davanti a loro. Le giornate impiegate a trasvolare l’Atlantico e la sosta a Milano erano fuori dal computo dei sette giorni. Alloggiavano all’albergo Miramonti.
A causa dell’euforia, esagerarono un po’ con i grossi calici di Inferno, un tipico vino locale dall’ottimo sapore. La cena, a base di pizzoccheri e di brasato con polenta, le rimise comunque in sesto. Più tardi, mentre Meg e Heather andavano a ballare e Catherine si concedeva una lunga passeggiata, Patricia si rintanò in camera e cominciò a leggere il libro di Bianchi. Fu subito attratta dal personaggio di Monica Squire, l’eroina della CIA, inviata in Unione Sovietica per cercare di contrastare il golpe dell’agosto del 1991. Rabbrividì quando comparve la sinistra figura del maggiore Pomarev. A tarda ora, si addormentò.
Al risveglio la accolse una splendida mattina di sole.
Trascorsero i primi tre giorni divertendosi moltissimo. Di notte, una sagoma furtiva usciva dalla sua stanza… la porta della camera di Meg era aperta, e Heather la raggiungeva nel letto. All’alba, sgattaiolava fuori, benché per quanto riguardava Catherine e Patricia fosse una precauzione del tutto inutile.
Il fatto accadde al quarto giorno.
Come talvolta succede nella vita fu un avvenimento fortuito. Ormai ben rodate, Meg e Catherine si sfidarono in una gara di discesa libera. A metà percorso risultò chiaro chi avrebbe vinto. Meg, tuttavia, non accettò la sconfitta e tagliò per un tratto di neve fresca, parallelo alla pista ma provvisto di meno curve. Malgrado sapesse sciare bene, lo affrontò con eccessivo impeto nel disperato tentativo di riguadagnare il terreno perso. Con la coda dell’occhio, Catherine la vide “volare” e un attimo dopo finire a terra a pochi centimetri da un albero.
Si fermò, derapando con perfetto stile, e iniziò la faticosa risalita, augurandosi che l’amica non si fosse fatta male. Con sollievo, notò che si stava rialzando. Comunque, continuò a salire, alzando un braccio in segno di vittoria. Meg le mostrò la lingua.
Poi, però, qualcosa attrasse la sua attenzione.
In quel momento, Heather volteggiava sui pattini. Molti sguardi avidi erano puntati sulle sue gambe che i collant mettevano in generosa evidenza. Dal canto suo, Patricia sorseggiava una cioccolata calda, godendosi il sole e trepidando per la sorte di Monica Squire: per leggere, usava sempre meno il dizionario. Fra le numerose doti che possedeva, rientrava una grande capacità di apprendimento.
Meg cadendo aveva perso uno sci. Tolse anche l’altro e si diresse verso un gruppo di piante oltre al quale un sentiero sterrato portava a valle. Scorse una jeep parcheggiata in uno spiazzo e soprattutto distinse più chiaramente quanto stava avvenendo.
La ragazza era magra, dall’aspetto fragile. I due uomini erano grossi e massicci. Uno dei due la teneva ferma, l’altro le aveva rimboccato una manica del maglione e si apprestava a conficcarle un ago nella pelle.
“Vi prego!”, supplicò la giovane, piangendo. Si esprimeva in un inglese che denotava la sua origine britannica. Gli altri risero. “Hai fatto la cattiva.”, disse quello che la immobilizzava.
“Ho smesso!”, gridò lei.
“Non si può smettere, senza il nostro consenso.”
“Vi prego!”, ripeté la ragazza. “Vi scongiuro.”
“Io non vi prego. Io vi ordino di lasciarla immediatamente!”, intervenne Meg.
Gli energumeni la fissarono. “E tu chi saresti?” L’accento le sembrò vagamente slavo.
“Non importa. Andatevene e lasciatela stare!”
Probabilmente, pensò Meg, l’avevano seguita fin lì dall’Inghilterra; questo significava che in passato era stata una buona cliente. Difficile rinunciare ai soldi facili. In ogni caso, se era riuscita a smettere, la ragazza meritava rispetto… e aiuto. Nella sua immaginazione, si figurò uno scenario: quella giovane era figlia di un facoltoso commerciante di tessuti, oppure di un industriale. Era caduta nella trappola della droga. Poiché disponeva di molto denaro, non aveva difficoltà a comprare dosi sempre più abbondanti. I genitori non sospettavano nulla, ma lei capiva che stava correndo verso un baratro. Un giorno, aveva trovato il coraggio per venirne fuori. Era stata dura, ma ce l’aveva fatta. A quel punto, erano cominciate le telefonate minatorie. Lei ingenuamente aveva deciso di trascorrere l’inverno in Italia, convinta che così avrebbero smesso di tormentarla. Si era sbagliata.
Il più alto dei due si mosse verso Meg con fare minaccioso. Non si accorse della presenza di Catherine e non vide lo sci che si abbatteva sulla sua fronte. Meg sferrò un calcio ai testicoli dell’uomo con l’ago. Il delinquente si accasciò gemendo.
Catherine tirò fuori il cellulare e compose il 112. Prima di andare all’estero, è bene informarsi.
L’inglesina le strappò il telefonino dalle mani. La guardarono stupite. Ciò che videro le sorprese ancor di più. La povera vittima innocente si era trasformata in una maschera di ghiaccio. “Idiote!”, sibilò. “Era un gioco e ci stavamo divertendo! Avete rovinato tutto.” Abbassò lo sguardo su uno dei due uomini. “E avete fatto male a Drazen! Siete due povere, piccole, bastarde!”
Catherine la squadrò freddamente. “La vita è tua.”, disse. Le torse il polso, strappandole un grido di dolore e costringendola a restituire il cellulare.
Poi le due americane si allontanarono, disgustate.
Qualche minuto più tardi, Meg annunciò che aveva fame.
Catherine scoppiò a ridere. “Sei un’ingorda!”

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Il lato oscuro - MegQuando Meg riprese i sensi, cercò di alzarsi dal letto, ma era impossibile. Era legata mani e piedi e non poteva muoversi. La stanza era avvolta nella penombra, però una luce la feriva agli occhi. Lentamente, cominciò a ricordare. Il dolore. Insostenibile. Le sue urla disperate. Infine, la promessa di morte. Nessuno sarebbe mai riuscito a trovarla e quella promessa sarebbe stata mantenuta. Si domandò cosa era successo. La testa le pulsava e faticava a concentrarsi. Le scosse elettriche. La sofferenza inaudita. Ancora sofferenza. Ma perché? Poi rammentò tutto, fin dall’inizio. Fu colta da un terrore indicibile. Sapeva che, prima di morire, l’avrebbe torturata di nuovo. Sapeva che avrebbe supplicato invano. Sperò di impazzire. Non aveva altro in cui sperare.
Poi udì i passi.

Heather esaminò cupamente per la quarta volta il breve messaggio battuto a macchina che qualcuno aveva infilato nella cassetta della posta. Catherine contemplava la strada, affacciata alla finestra. Patricia piangeva. Non si trattava di uno scherzo, lo sapevano tutte e tre. Perché Meg era scomparsa.
Il messaggio era chiaro. Poche agghiaccianti parole. La vostra amica, la sgualdrina, morirà a breve. Ma non prima di aver subito un duro castigo. E’ in un luogo isolato e urlerà, invocherà pietà, piangerà, senza che anima viva se ne accorga. Merita la punizione che io le infliggerò.
“Un pazzo!”, esclamò Heather, gettando per terra il foglio di carta che conteneva quel sinistro avvertimento. “Dobbiamo fare qualcosa!”
Catherine si voltò. “Piangere non serve a nulla.”, disse in tono freddo, rivolta a Patricia. Quindi, spostò lo sguardo su Heather. “E nemmeno fare scene isteriche.”
“Tu non sai…”
“Oh, certo che lo so. E anche Patricia lo sa. Ma non credere che le vogliamo meno bene di te. Forse non la amiamo, comunque è una differenza relativa. Ciò che conta è che è una di noi.”
“E allora?”, domandò aggressivamente Heather.
“E allora proviamo a ragionare con calma.” Catherine si versò da bere. Il caffè ormai era freddo, ma non se ne accorse. Era immersa in profondi pensieri. La chiave era il messaggio. “Un pazzo.”, disse. “Questo è irrilevante, che sia vero o meno. Invece, sono importanti le parole, e precisamente: duro castigo e merita la punizione. Di norma, perché una persona viene punita?”
“A causa di qualcosa che ha fatto.”, osservò Patricia.
“Meg non ha fatto niente di male!”, gridò Heather.
“Dal tuo punto di vista.”, la corresse Catherine. “Prendiamo in considerazione altre visuali, altri modi di vedere le cose.”
“E’ legato a una sua indagine.”, disse Patricia, annuendo.
“Già. E deve essere un’indagine recente. Il “pazzo” la definisce “sgualdrina”: un sintomo di odio, di rabbia, un’emozione che non può essere repressa a lungo. In caso contrario, quella specie di lettera sarebbe stata scritta in modo più freddo. La punizione, poi, coinvolge anche noi: altrimenti, perché avvisarci? Semplice, per farci soffrire. Perciò, si tratta di qualcosa che Meg ha iniziato, ma che abbiamo portato a termine tutte e quattro. Nella mente di chi l’ha rapita, lei è la principale colpevole, tuttavia non l’unica.”
Catherine si avvicinò allo schedario, ne trasse alcuni fascicoli che posò sulla scrivania. Li indicò con un dito. “Qui troveremo la risposta.”

Era a piedi nudi; le erano stati tolti calzini e scarpe da ginnastica, ed era lì che si erano dirette le scariche. Uno dei punti maggiormente vulnerabili del corpo.
“Ti prego, ti scongiuro: abbi pietà! Sto impazzendo.” Anche se era umiliante perdere così il controllo, Meg non riusciva a trattenersi. La sofferenza era atroce, non aveva mai sperimentato niente di simile in vita sua.
“Hai fretta di morire? No, sgualdrina, abbiamo molto tempo davanti a noi. E mi stupisce la tua scarsa intelligenza: non capisci che le tue suppliche mi riempiono di soddisfazione?”
Meg svenne, ma fu sufficiente un secchio d’acqua gelida per farla tornare in sé.
E il tormento riprese.
Immobilizzata al letto, Meg pensò che, se esisteva l’inferno, lei ne faceva già parte.

Patricia depose la cornetta del telefono. “Non c’è nulla di intestato a nome suo, ma una mia “fonte” sa che possiede una seconda casa, in campagna, un posto sperduto.”
Era alla decima telefonata.
Catherine la fissò, riflettendo.
Heather scattò in piedi. “Andiamo!”
Catherine la guardò. “Sì, andiamo. Sperando che non sia troppo tardi.”
Heather aveva il volto rigato di lacrime.
Catherine la abbracciò. “Coraggio, ce la faremo.”

La donna era molto alta. Circa un metro e ottanta, si disse Meg. Aveva le spalle larghe e gambe e braccia forti e muscolose. Benché non fosse bella, né graziosa, aveva un aspetto attraente. Ed era particolarmente gentile. “Non desidero soldi da lei.”, affermò con un sorriso. “Le chiedo soltanto di leggere questo opuscolo per comprendere la parola del Signore, il Suo Verbo.”
“D’accordo.”, acconsentì garbatamente Meg. “Intanto, le preparo un caffè.”
“Non si disturbi. Sa, il mio giro non è ancora finito.”
Uscirono entrambe. Il piccolo prato che separava la villetta dalla strada era illuminato dal sole. Meg le porse la mano. A un tratto, provò un brivido di apprensione, uno strano presentimento. Gli occhi della sconosciuta sembravano colmi d’odio.
Un istante dopo, la donna la sollevò di peso e la portò verso la macchina. Meg tentò di lottare, ma era stretta in una morsa di ferro. Le mancava il respiro. Fu scaraventata nell’auto. Mentre l’altra raggiungeva il posto di guida, aprì la portiera e corse verso casa. Sentiva i passi di quella squilibrata che la seguivano. Lei è più forte ma io sono più veloce, pensò.
Era a un metro dalla porta, quando venne colpita alla testa.
Fu l’inizio del suo personale inferno.

Catherine affrontava le curve come un pilota di Formula Uno. Accanto a lei, Heather trepidava. Meg era l’amore che non aveva mai avuto, inizialmente soltanto un sogno che lei giudicava irrealizzabile, ma adesso realtà: non più un sogno, bensì la consapevolezza di una grande gioia. L’idea di perderla era insopportabile.
Dietro a loro, Patricia pregava in silenzio.
Abbandonarono la statale per imboccare un sentiero sterrato.
La casa era lì, in fondo. Aveva un aspetto cupo, ma forse era solo suggestione.

“Bene. Sei pronta per il viaggio?”
Meg ansimò. Se prima si era augurata la morte, ora era in preda al panico. Desiderava vivere.
“Non voglio morire!”, urlò.
Jane, la moglie di Bugsy, rise. “Non sta a te decidere, sgualdrina. Non avresti mai dovuto impicciarti degli affari di mio marito. C’è un prezzo da pagare.” Si sedette su di lei, schiacciandola sotto il suo peso, prese un cuscino e glielo premette sul viso.
Mentre soffocava, Meg non riusciva nemmeno a dibattersi.
La mancanza di ossigeno era terribile. Il suo ultimo pensiero, rivolto a Heather, svanì… mentre la vita la abbandonava.
Non sentì il rumore di uno sparo.
Attraversò un lungo tunnel buio; in lontananza scorse una luce.

Quando, in un letto d’ospedale, riemerse dalle tenebre, la prima cosa che vide fu il volto di Heather.

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Il lato oscuro CatherineTom era il migliore, ma aveva commesso un errore. Per tre sere consecutive si era recato nello stesso ristorante, pagando sempre il conto con una banconota da cento dollari, e intascando il resto. Per sua somma sfortuna il locale apparteneva alla moglie di un agente dell’FBI, che insospettita consultò il marito. Quella sera, casualmente, l’uomo stava cenando proprio lì. Tom trascorse alcuni anni in prigione. Lo trattarono bene, e quando uscì le guardie lo abbracciarono.
Sebbene fosse un falsario, era un brav’uomo.
Ed era di natura cordiale e molto simpatico. Ascoltò con attenzione Patricia, quindi trasse un profondo respiro. “Prima un buon caffè.”, disse. “Poi un sigaro fumato in santa pace, dopodiché “visualizzerò” e infine procederò. Sarà il mio capolavoro, glielo prometto.”
Il giorno dopo si mise all’opera.

Mick Powell si era introdotto nell’ufficio del suo editore con la consueta arroganza. Poteva permetterselo, poiché i thriller che scriveva andavano regolarmente in cima alle classifiche di vendita. Poco contava che fossero basati solo su tre elementi, sempre gli stessi: violenza, sesso e azione. Ai lettori piacevano lo stile crudo e asciutto e la descrizione particolareggiata degli omicidi o degli strupri.
Posò sulla scrivania una risma di fogli. “Un capolavoro!”, dichiarò.
John Malgreave abbozzò un sorriso ironico. “Ancora violenza allo stato puro?”, domandò.
Powell scosse la testa. “Quando avrai la bontà di leggerlo, ti stupirai. Questa volta parlo di sentimenti. Voglio il Premio Pulitzer!”
Malgreave incarcò le sopracciglia. “Tu che parli di sentimenti? Sentimenti veri? Moti dell’anima? Mi sorprendi, Mick.”
“Leggilo e vedrai.”, fu la replica.
Malgreave lesse, e rilesse. In effetti, “Storia d’amore?” era un libro fantastico, scritto in modo eccezionale. Ciò che lo colpì fu il brano in cui veniva descritto in maniera superba lo stupro di Jane. Di sera, su una spiaggia illuminata dalla luna. Però, c’era un particolare che stonava. Un particolare inquietante. Un particolare che non lo fece dormire per molte notti.

Il romanzo fu pubblicato e balzò subito al primo posto. Arrivò anche il Premio Pulitzer, e un noto produttore si fece avanti per trasformarlo in un film. Nel frattempo, Malgreave rifletteva e tornava con il pensiero al passato. Jane. Occhi blu come il mare, capelli biondi simili a una distesa di grano, il sorriso sulle labbra, l’intelligenza pronta, l’arguzia e il candore. Dopo di lei, non aveva più amato. Il lavoro era un rifugio, nient’altro. Un rifugio dall’angoscia, dal tormento: Jane si era uccisa, in seguito a una violenza subita. Per lei, che amava le cose belle della vita, era stato un peso insopportabile, come un macigno.
Un giorno, invitò a pranzo Powell. Mentre attendevano le costate, gli chiese: “Trovo molto interessante la scena dello stupro. E’ un sacco della tua farina oppure un episodio reale?”
“Ero ubriaco e lei non voleva.”, rispose lo scrittore, versandosi un bicchiere di vino californiano. “Ma quello che conta è il libro.”
“Non ti sei mai pentito?”
“Pentito? Se non fosse stato per quella notte, non avrei mai scritto un simile capolavoro.”
“Capisco.”, disse Malgreave.

Dapprima, comparve misteriosamente su cinque bancarelle un romanzo scritto da un autore ormai deceduto e non particolarmente famoso. In seguito, fu inoltrata una denuncia per plagio da parte della vedova. Mentre si teneva il processo, Catherine si introdusse nella casa di Powell e nascose “Stupro sulla sabbia” dietro a una fila di volumi. Era il lavoro di Tom, perfetto. La carta era quella giusta, la patina di sporcizia dimostrava che si trattava di un’opera non nuova.
L’avvocato difensore di Powell, contrariamente al volere del suo cliente, si appellò a una forma di malattia che portava a dimenticare certi episodi del passato e non altri. In breve, lo scrittore aveva completamente dimenticato di aver letto “Stupro sulla sabbia”.
Il giudice annuì, e commutò una multa a Powell.
Niente di speciale, ma non per Powell, che tornò nel suo appartamento furibondo e sconvolto. Passò in rassegna tutti i libri che possedeva, e che occupavano un’intera parete del suo studio. Li scaraventò per terra, sempre più furioso, finché non vide “Stupro sulla sabbia”. Sfogliò le pagine, incredulo.

L’indomani, appresa la notizia del suicidio, Catherine si rivolse una precisa domanda: era giusto ciò che faceva?

Liberamente tratto da “Tiré a part” di Jean-Jacques Fiechter.

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