Il vero nome di Marcus era Hans Schweinsteiger. Suo padre era tedesco, sua madre spagnola, ed egli parlava perfettamente entrambe le lingue. Conosceva anche l’inglese e il russo.
Da giovane Marcus aveva seguito le orme paterne lavorando come tecnico in un’acciaieria, ma presto quell’occupazione gli era venuta a noia. Lo stipendio era buono, però inferiore alle sue necessità: Marcus amava vestirsi bene, circondarsi di lussi, mangiare nei migliori ristoranti e bere champagne. Era stato in Sud America, una vacanza fin troppo breve che però gli aveva permesso di conoscere le persone giuste. In Germania la polizia non scherzava, era efficiente e organizzata. Dopo aver riflettuto a lungo Marcus decise di trasferirsi a Londra. In Inghilterra aveva prosperato, creandosi una vasta rete di clienti grazie ai quali poteva concedersi tutto quello che voleva. I poliziotti inglesi erano pigri e corruttibili. Marcus aveva a libro paga un capitano: questo gli consentiva di dormire fra due guanciali.
Marcus era capace di porsi in modo diverso a seconda delle persone che frequentava. Con i clienti si comportava in modo freddamente professionale, al pub recitava la parte del sognatore ingenuo, con le donne sapeva essere appassionato ma anche brutale. Non aveva scrupoli e l’anno prima aveva fatto sparire nel Tamigi un italiano che cercava di fare il furbo, invadendo la sua zona e mettendo gli occhi sulla sua clientela: prima di gettarlo nel fiume, Marcus lo aveva accoltellato.
Era sempre stato deciso e risoluto, ciononostante nel caso di Sarah Taverner e di Janine Leblanc aveva esitato fin troppo a lungo. Si era accontentato di sognarle, e questo era molto strano per lui; ma forse, pensava, era un metodo per accrescere l’eccitazione: non una decisione razionale bensì un impulso dettato dall’inconscio. Comunque fosse, adesso era arrivato il momento di agire. Il “Sun”, come sempre informatissimo sugli eventi più banali, aveva riportato una notizia che lo aveva profondamente irritato; stando a quanto aveva pubblicato il giornale, Sarah e Janine si erano lasciate. Ma Marcus le voleva tutte e due: assieme nello stesso letto. Era il suo grande sogno, ed egli era abituato a realizzare i propri sogni, a ottenere ciò che desiderava, a non farsi fermare da niente e da nessuno, a qualsiasi costo. L’italiano che dormiva il sonno eterno nel Tamigi ne sapeva qualcosa, se da qualche parte esisteva un aldilà.
Sarah Taverner aveva un carattere forte, ed era scostante. Gli approcci di Marcus erano falliti: non l’aveva affascinata, non era riuscito a indurla ad assumere l’ecstasy, né a portarla fuori a cena.
Ma i fallimenti non lo avevano mai sgomentato, dato che aveva sempre saputo trasformarli in trionfi. Quando era ancora un ragazzino si era scontrato duramente con suo padre, e sfidare Joseph Schweinsteiger non era la cosa più facile di questo mondo. Joseph era figlio di un ufficiale nazista, un colonello delle SS, e da lui aveva preso durezza e intransigenza; ma con Marcus i suoi modi prepotenti e la vena di crudeltà, probabilmente ereditate dal colonnello, si erano rivelati inutili. Marcus era un vincente nato.
Rintracciò il nuovo indirizzo di Janine e andò a farle visita. Mentre guidava con calma, si disse che quello era l’anello debole della catena.
Quando scese dalla macchina lanciò un’occhiata al cielo. Era una fredda ma limpida serata invernale. Apparivano le prime stelle, lontani punti luminosi che brillavano simili a remoti gioielli. Marcus si prese qualche minuto per osservarle. Un giorno sua madre gli aveva detto che gli astri influenzano la vita degli uomini, e lui le aveva creduto. Aveva scrutato attentamente la volta celeste per individuarne uno particolarmente lucente, convinto che avrebbe indirizzato la sua esistenza. Naturalmente la mamma aveva avuto ragione, e Sirio lo aveva sempre guidato e protetto. Prima di suonare al citofono di Janine si chiese perché le stelle di lei e di Sarah Taverner si fossero allontanate. Lo avrebbe scoperto quella sera e si sarebbe inventato qualcosa per farle riavvicinare, almeno provvisoriamente: dopo che le avesse possedute entrambe, avrebbero potuto lasciarsi anche per sempre.
Mentre Susan Driver le succhiava un capezzolo, Sarah capì che non funzionava.
Non c’era nulla che non andasse in lei, a parte forse l’accento texano. Era attraente, volitiva, tutto sommato anche simpatica e, quando si erano esibite a Reading, fra loro era passata come una corrente magica, la stessa scossa che ricordava di aver avvertito mentre provavano la nuova canzone. Ma allora Sarah era legata a Janine.
Adesso invece era libera e, più per noia che per reale convinzione, si era lasciata sedurre da Susan. Non cercava l’amore, ma del buon sesso. Era un metodo come un altro per scacciare la solitudine. Però, sebbene Susan avesse un bel corpo e sapesse muoversi con estrema perizia a letto, ciò che mancava era propria quella famosa scossa. Sarah aveva conservato l’ultimo grammo di coca per quell’occasione, e adesso si rendeva conto di aver sbagliato dato che le rammentava Janine. Susan non possedeva la sua dolcezza, era avida e pressante ma si capiva che non era mossa da alcun sentimento… come Sarah, peraltro.
Quando si sentì penetrare, fu colta quasi da un senso di fastidio. Distolse il viso per sottrarsi ai baci, finse di ansimare, ma intanto pensava a Janine. Le parole di I love Janine riecheggiavano nella sua mente: da lì, poi, scendevano al cuore. Sarah l’aveva amata con tutta se stessa. Le piaceva la sua personalità, la intrigava sessualmente, condivideva con lei interessi, sogni, aspettative. Tuttavia non riusciva a perdonarla e pensava che non lo avrebbe mai fatto: ne era sempre più convinta. Janine sapeva di sua madre. Questo rendeva doppiamente grave il suo comportamento. Senza contare che avrebbe potuto scegliere fra mille insulti possibili, ma sgualdrina no! Era l’unica parola che Sarah non avrebbe mai potuto accettare e Janine, benché accecata dalla gelosia, avrebbe dovuto esserne consapevole.
Finalmente Susan si rilasciò sul letto, apparentemente appagata. All’occorrenza, Sarah sapeva essere una brava attrice e riteneva di aver finto in maniera credibile. Era stata spinta a ciò dal desiderio di non ferirla, sia perché non lo riteneva giusto dopo che aveva accolto le sue avanche, sia perché Susan poteva rivelarsi assai utile ai fini della sua carriera; era un modo di pensare un po’ meschino, ma non certo insolito nel loro ambiente.
Si alzò dal letto per andare a preparare il tè. Susan si stirava piacevolmente, con aria languida. Una volta che fu in cucina, Sarah venne raggiunta da un nuovo pensiero. Ricordava le parole che aveva detto a Janine: “E’ finita, non voglio più vederti. E ti prego vivamente di non farti trovare qui al mio ritorno. Mi costringeresti a buttarti fuori o a chiamare la polizia.”
Benissimo. Questo era vero, però una persona determinata non si sarebbe arresa subito, limitandosi a farfugliare delle scuse (Dammi una possibilità! Ho sbagliato, lo so benissimo, non so che cosa darei per poter tornare indietro e tenere chiusa quella mia maledetta bocca!) Come si sarebbe comportata lei, Sarah, in una situazione simile? Avrebbe lottato, sarebbe tornata da lei per tentare di convincerla, le avrebbe scritto o telefonato, e al telefono non avrebbe fatto scena muta! Janine era una donna debole, se ne rendeva conto appieno adesso, e questa era la seconda ragione per cui non intendeva perdonarla. Si era ingannata sul suo conto. La dolcezza, la passione, l’affetto, non compensavano la mancanza di forza. Sarah non sopportava le persone prive di carattere, e Janine si era dimostrata tale. C’era anche un’altra possibilità: che quella di Janine fosse una semplice infatuazione e non amore vero; per questo non aveva insistito. Però Sarah tendeva a escluderla. Le sembrava poco verosimile. No, era proprio mancanza di attributi.
Tornò in camera con il tè, rabbiosamente sicura di aver fatto bene a lasciarla.