Vladimir Vladimirovich Putin arrivò negli Stati Uniti il giorno del funerale.
Arrivò accompagnato dal ministro degli Esteri, da due alti funzionari del ministero, dal tenente generale Vasily Ivanovic Melnikov, da due interpreti, quattro segretarie, un cuoco, un cameriere e venti agenti del SVR.
Arrivò munito di asciugamani e lenzuola tenuti sotto vuoto, cibo preparato in Russia, acqua minerale russa, succhi di frutta russi e, sebbene non avesse le abitudini del suo predecessore, che durante un viaggio in America era stato messo a letto ubriaco tutte le sere da due uomini dell’FBI, portò con sé dieci bottiglie di vodka Russkij Standart. Portò anche un lettore e un cd con i successi degli Abba. Inoltre, aveva un dono per Monica: una matrioska che era un’opera d’arte del valore di svariate migliaia di dollari; se esisteva un sottile sottinteso non è possibile saperlo.
Arrivò accolto da un clima quasi primaverile, ma poiché era solito informarsi su tutto – su ogni dettaglio, anche il più insignificante -, indossava un abito adeguato, che a Mosca lo avrebbe fatto gelare.
La popolazione americana avrebbe reso l’ultimo commosso omaggio a John più tardi, dato che la cerimonia per volere di Monica era privata. Putin entrò comunque in chiesa, mentre fuori dell’edificio cinquanta agenti vigilavano. Naturalmente erano tutti armati: trenta federali e i venti uomini del servizio segreto russo. Fra loro non ci furono saluti né sorrisi.
Al termine del rito funebre, Monica e Putin si appartarono, sorvegliati a vista dai rispettivi angeli custodi, i quali però erano sì a distanza di sicurezza ma non in grado di ascoltare quello che le due più potenti persone del mondo si sarebbero detto.
La conversazione si svolse in russo, lingua che Monica parlava correntemente.
Putin la baciò tre volte, ma non sulle labbra. Un fatto singolare: in genere, non amava il contatto fisico. Quando Silvio Berlusconi, l’ex premier italiano, al termine di una canzone napoletana, gli dava un’amichevole pacca sulle spalle, reagiva con distacco e accettava tali comportamenti soltanto per via dell’amicizia che li legava.
Dopo le condoglianze e gli attestati di reciproca stima, Monica gli annunciò che, in seguito, per tutte le altre questioni, avrebbe dovuto confrontarsi con Margaret Collins. Lei infatti stava meditando di dimettersi, e anche se avesse cambiato idea desiderava “eclissarsi” per un certo periodo di tempo.
“Niet!”, disse Putin in tono freddo. “Io non conosco nessuna signora Collins. Conosco solo il presidente degli Stati Uniti e il suo valoroso marito.”
Monica lo fissò per qualche secondo, vagamente interdetta. “Lei non è una madre che ha perso il proprio figlio, e per sua colpa.”, dichiarò infine. “Io… io non so nemmeno ciò che è veramente successo, chi e perché ha tramato alle mie spalle; di sicuro alcuni personaggi hanno agito contro il mio volere. E questo è grave. Potrebbe significare che non sono all’altezza della carica che ricopro. Come vede, sono molto franca con lei.”
“La franchezza è una buona dote, benché talvolta sia bene non eccedere.”, replicò Putin. “Ho affrontato questo viaggio per discutere di questioni importanti. Questioni commerciali, questioni che riguardano la distensione fra i nostri due Stati, problemi che potrebbero verificarsi con l’Ucraina. La situazione in Medio Oriente che è drammatica e che è destinata a peggiorare. Ma la ragione principale che mi ha condotto qui è la solidarietà, un atto di amicizia e, se possibile, di conforto. Posso garantirle che chi ha ucciso John pagherà con la propria vita il suo gesto infame!”
Indugiò per un momento, quindi aggiunse:” Io so tutto di lei, come del resto immaginerà. Afghanistan, Cannes… Sempre contro di noi, ma erano tempi diversi. Poi l’estate del fallito golpe. L’avrei arruolata immediatamente e messa a capo del SVR o del FSB. E difatti è diventata direttore della CIA; poi ha vinto le elezioni, quando nessuno avrebbe scommesso un dollaro su di lei. Una donna forte! Una donna che ammiro. Non ha il diritto di arrendersi. Non glielo concedo e sono convinto che la maggior parte dei cittadini americani condivida il mio pensiero.”
Fece un ampio gesto circolare con il braccio. “Presto ci saranno gravi pericoli, se non poniamo rimedio. Niente Collins, prego.”
In uno sperduto villaggio, che ventidue anni prima, nel quadro dell’operazione Desert Storm, aveva visto passare il più grande esercito del mondo dai tempi della seconda guerra mondiale, Sarah Gabai abbandonò la jeep che l’aveva condotta sin lì, nascondendola come meglio poteva, ed entrò in una casupola dimessa, situata ai margini di quel piccolo agglomerato di abitazioni altrettanto dimesse. Il sole era già tramontato e spirava un vento freddo. Nel cielo apparivano le prime stelle.
“Nu?”, domandò al vecchio che la accolse con un sorriso.
Spiegò la carta geografica che aveva con sé e indicò due punti, entrambi evidenziati con un pennarello.
Il vecchio scosse la testa. “Un mese fa Ibrahim era lì e la settimana scorsa qui.”, disse puntando un dito sulle due località. “Ma adesso si trova in Siria. Nei pressi di Al Bukamal. Sei fuori strada, ti conviene tornare in Israele e ripartire da lì.” Pur essendo nativo del Kuwait, Yasir collaborava con il Mossad: non per soldi, ma perché aveva studiato a fondo la Bibbia; un particolare che gli israeliani ignoravano. Non agiva mai in prima persona, in compenso era al corrente di molti fatti segreti. Come ci riuscisse, era un mistero.
“Oppure attraversare l’Iraq.”, osservò Sarah.
“Molto rischioso.”
“Ma forse più rapido.”
Sarah rifletté, mentre Yasir preparava una modesta cena e del tè verde.
Il problema era che non poteva andare con la jeep ed erano più di mille chilometri. Con un dromedario avrebbe impiegato circa sei giorni, posto che tutto filasse liscio e di questo non poteva essere certa. Se invece fosse tornata a Tel Aviv guidando la jeep sarebbe arrivata in due giorni. Poi avrebbe potuto chiedere un elicottero a Aaron Ben-David. Se aveva fatto un viaggio inutile era stato a causa sua. Informazioni sbagliate. Era un’altra ipotesi pericolosa, ma forse più pratica.
Un raid improvviso e micidiale.
In fondo, quella era la specialità di Israele.
“Dormirai qui. Ho una stanza per te.”, disse Yasir, portando in tavola le pietanze. “La notte porta consiglio.”
A Londra era ancora pomeriggio. Un tardo pomeriggio piovoso. A tratti sprazzi di sereno si alternavano agli scrosci d’acqua. In un internet-point Danielle Williams controllò uno dei suo conti protetti, apprendendo con soddisfazione che Ibrahim al-Ja’bari aveva effettuato il bonifico. Un pazzo furioso, pensò divertita; però un pazzo che manteneva gli impegni.
E adesso era ancora più ricca. Incominciava a stancarsi di quella caccia infinita, di esecuzioni che la soddisfavano per pochi minuti, lasciandole comunque sempre un grande vuoto dentro. Magari un’ultima missione e poi si sarebbe scelta un posto nei Caraibi. Una bella casa, uno yacht e chissà… un giorno avrebbe potuto incontrare un uomo capace di colmare quel vuoto.
Uscì dal locale e attraversò King’s Road, cercando di evitare le pozzanghere; risultato vanificato dagli schizzi provocati dalle automobili, una delle quali le sfrecciò a un metro di distanza. Decise che prima di cena sarebbe passata in albergo per cambiarsi.
Istinto, sesto senso, l’attitudine al pericolo, qualsiasi nome gli si voglia dare, la indusse a voltarsi per gettare una breve occhiata alle sue spalle.
E lo notò subito.
Sull’aereo che l’aveva portata in Inghilterra, era seduto tre file dietro di lei.