Si fermò dopo un’ ora abbondante di una corsa al limite delle sue possibilità. Il cuore pareva trapassarle il petto. Percepiva le gambe completamente atrofizzate, rigide e indolenzite come due pezzi di acciaio e un dolore lancinante nelle parti intime che la costringeva a piegarsi.
Sfinita fisicamente, ma ancor più` psicologicamente, si lasciò cadere addosso al grande tronco della grossa quercia della campagna che aveva raggiunto. Quante volte lei e Flavio, durante il loro fidanzamento, erano soliti raggiungere proprio questo luogo e questo albero con una biciclettata per assaporare il fresco del crepuscolo serale.
Una volta Flavio incise persino un piccolo cuore sulla sua corteccia, decorandolo con le loro iniziali. Mentre eseguiva il suo disegno aveva gli occhi scintillanti e le labbra rilassate in un sorriso sincero.
Clara lo osservava con vivida emozione e curiosità.
Cose da innamorati insomma.
Clara ricordò sempre questo gesto, ogni volta che si trovava a passare da lì, più intensamente rispetto al regalo di un anello con rubino che aveva ricevuto poco tempo dopo come promessa di matrimonio. Da una persona qual era Flavio uno sforzo del genere non se lo sarebbe mai aspettato. Mai da uno come lui, con poco humor, con poca iniziativa, molto introverso, che non era mai stato tipo da gesti romantici fino a quel giorno (e a dir la verità non lo fu più neanche dopo).
Quell’azione banale, per Clara rappresentò una vera prova d’amore, significava un impegno di Flavio ad aprirsi con lei e finalmente la sua decisione di esternarle più chiaramente tutto il bene che provava.
Il matrimonio fu scritto su quella quercia e venne deciso quella sera.
Clara si alzò in piedi, fece scivolare le sue mani sottili sul tronco e ne carezzò dei flebili segni quasi totalmente cancellati dal tempo e dalle intemperie che si erano avvicendate nel corso degli anni a seguire. Appena percettibili i contorni del cuore, delle lettere ormai nessuna traccia. La corteccia era divenuta consunta, in molti punti era ceduta, mostrando soltanto la nudità del legno chiaro, la struttura dell’albero.
E così, prima con sconforto e poi con rabbia, si convinse che la sua relazione non aveva piu` senso. Inutile attaccarsi ai ricordi, per quanto possano essere belli. Quello che contava in un rapporto erano le basi, che dovevano essere solide, ferree, in modo da resistere a qualsiasi sorta di tormenta.
E nel suo caso le fondamenta della sua storia con Flavio erano sprofondate a poco a poco nella routine e nella noia, nel silenzio e nello scontato, per i troppi giorni di pioggia e di vento di tramontana.
Guardò prima il cielo, quasi a chiedere con una preghiera la forza per affrontare suo marito, poi abbassò gli occhi alla terra ancora carichi di lacrime di vergogna.
Riparartì nuovamente di corsa, con le gambe che arrancavano dalla fatica, tremanti, insicure. Non riusciva del tutto a comandarle e dirigerle come desiderava, erano fuori controllo ma, non si sa come, riuscirono a riportarla a casa sebbene con enormi sofferenze.
Varcando l’uscio di casa, si accorse di non averlo nemmeno richiuso a chiave, e si incolpò pesantemente anche per questo.
Si spaventò come nel trovarsi in casa uno sconosciuto, quando davanti a sé, eretto in mezzo al soggiorno e dinanzi alla porta di ingresso, visualizzò l’imponente figura di Flavio.
Le scappò di bocca con voce rotta la frase più stupida potesse mai pronunciare: “Non sei al lavoro?”
Flavio la stava fissando, o meglio analizzando, mettendola in imbarazzo totale.
Nella stanza un silenzio surreale, interrotto ogni tanto soltanto da quelle stupide gocce d’acqua che da anni piangevano dal rubinetto ossidato della cucina.
Secondi come ore. Clara percepiva la sua faccia scaldarsi febbrile e in ebollizione ed il sangue come impazzito sfrecciarle nelle arterie e, l’unica cosa che pensò in quegli interminabili istanti, fu che se fosse morta sul colpo sarebbe stato senz’altro meglio.
A un tratto, quasi senza preavviso, lui la abbracciò, cingendole la vita con delicatezza. Dopo un solo, breve, attimo di stupore, Clara ricambiò l’abbraccio. Ciò che seguì fu un bacio interminabile, dapprima a labbra socchiuse, poi come in un crescendo rossiniano quel bacio si trasformò in qualcosa d’altro: nella magia della passione che diventa amore, mai fine a se stessa, simile a un’aurora incantata, a un nuovo giorno colmo di promesse che – lo pensavano entrambi – non sarebbero mai state tradite. Ci sarebbero stati litigi, incomprensioni, momenti di tensione; nessuno dei due era tanto sciocco da non saperlo, ma anche questo apparteneva alla vita. Quello che contava, però, e che sarebbe sempre contato, era la consapevolezza che i momenti amari, il disagio causato da un litigio o da un silenzio non condiviso, sarebbe durato lo spazio di pochi minuti, simile a un temporale estivo, che alla fine si dissolve per cedere il passo all’arcobaleno.
E quell’arcobaleno rappresentava la continuità, la determinazione, l’estrema volontà di proteggere e rafforzare la loro unione. Così come si accudisce un fiore nello splendore di un giardino fino a farlo diventare un simbolo della natura e, parafrasando il tutto, il simbolo di due vite intrecciate, unite, decise a trasformare ogni nuovo giorno in una ennesima prova d’amore. E l’amore, il loro amore, sarebbe durato, li avrebbe condotti, mano nella mano, al tramonto dorato di due esistenze indissolubilmente legate.
A bassa voce, lui intonò come fosse una canzone un brano di una poesia che lei aveva scritto tempo addietro. “Cucinare, impastare, anche vestirsi. Rami, rovi, spine, frutti. Piccole ferite, grandi ferite. Sangue.”
Lei rise e proseguì: “Guanti d’inverno. Screpolature. Morbido il gatto, ruvida la terra. Freddo il marmo. Preghiere. Saluti. Alt. Mani.”
Era un gioco che gli apparteneva; ogni coppia ne possiede uno e anche più di uno. Di volta in volta Flavio sceglieva un passaggio e Clara doveva ribattere al volo, pena una dolce penitenza. Non avendo uno spiccato senso dell’umorismo, lui si aggrappava a quello che poteva: nella fattispecie alle doti poetiche e musicali di Clara. Lei cantava molto bene, soprattutto in inglese. Fu un altro istante di commozione. Lei gli strinse con forza la mano. Si sentiva serena, appagata, felice. Non aveva nient’altro da chiedere alla vita.
Con il cuore che le batteva forte, si staccò dall’abbraccio, sebbene a malincuore, per guardare Flavio negli occhi e ciò che vi lesse la colmò di una gioia senza limiti.
Poi posò gli occhi sul piccolo cuore inciso sulla corteccia della quercia, mentre la brezza della sera imminente le scompaginava i capelli.
Clara distolse lo sguardo dal tronco dell’albero, guardò in alto, assaporando l’incanto di quel tramonto fatato; chiuse gli occhi… e, quando li riaprì, ebbe la conferma che le fate non esistono, che è l’uomo inteso come essere umano a creare la magia di un tramonto, di un’alba, di un amore. E quell’amore semplicemente non c’era più.
“Non è per quello che è successo.”, disse Flavio in tono triste. “Ma penso proprio che il divorzio sia la soluzione migliore per tutti e due.”
Clara annuì.
Lui le accarezzò per l’ultima volta il viso.
Poi uscì per sempre di casa.