Il presidente degli Stati Uniti ha il compito di difendere la Costituzione e di operare per il bene del Paese, dichiarando guerra se necessario, anche se nei limiti del possibile la sua funzione è quella di preservare la pace. Deve avere a cuore gli interessi dei cittadini, lavorare per il loro benessere; soprattutto deve essere sempre rintracciabile, perché rappresenta il punto di riferimento di un’intera nazione. Partendo da questi fondamentali presupposti, si poteva arrivare a un’unica conclusione: Monica Squire si era rivelata un fallimento.
Così ragionava Margaret Collins davanti allo specchio del bagno. Inizialmente, l’aveva considerata un modello da seguire, una maestra; sapeva molto bene inoltre che, senza di lei, senza la sua fiducia, non sarebbe mai salita così in alto. Monica aveva dovuto combattere per imporla al partito, e ciò aveva fatto nascere un sentimento di amicizia. La stima era fuori questione, ma adesso quella stima si era persa a causa di troppe decisioni sbagliate. Al di là delle apparenze, Squire in realtà era una donna debole, che si era lasciata travolgere dagli eventi; Margaret era più forte di lei e sarebbe stata un presidente migliore.
Sebbene fosse assolutamente convinta di essere dalla parte della ragione, si pose tuttavia una domanda: quanto contava l’ambizione personale? Il desiderio di diventare la numero uno, la persona più potente del mondo? Negli ultimi tempi si era resa conto che l’esercizio del potere è più inebriante del sesso. Servire il popolo, sicuro, però con in mano il bottone dei comandi.
Liquidò con un’alzata di spalle quell’inutile interrogativo. Non erano questi motivi a indirizzarla. In ogni caso, entro tre anni (non certo sette), ne avrebbe preso comunque il posto, si trattava soltanto di aspettare, e la pazienza rientrava fra le sue doti, come la volontà, la determinazione e l’intelligenza. No. Esisteva solo un rimedio ai danni provocati da Monica: sostituirla. E al più presto!
Una vocina sgradevole insinuò che forse non era tutto vero, che sotto la virtuosa indignazione si celava una componente di rivalità. Ma se esisteva tale rivalità, essa nasceva proprio dal postulato iniziale! Se lei era superiore a Monica, perché allora doveva essere una subalterna? Il problema di fondo era sempre lo stesso, da qualsiasi parte si considerasse la questione. Squire non era in grado di espletare i suoi compiti, quindi andava sostituita. L’Ufficio Ovale meritava un’inquilina più capace e più responsabile. Al posto di “Diana”, sarebbe subentrata “Minerva”. Che fatalmente la loro amicizia si sarebbe trasformata in spazzatura era spiacevole però accettabile.
Soddisfatta, tacitò la vocina e finì di truccarsi.
Yarbes scrutò i quattro uomini. Due di essi provenivano dai reparti speciali, gli altri due dal corpo dei Marines. Tutti e quattro si erano messi in proprio per trarre profitto dalle esperienze acquisite sul campo, ma da Martin non volevano un dollaro. Erano americani e il fanatico dispensatore di morte, uccidendo John, aveva colpito al cuore gli Stati Uniti. Inoltre avevano assistito al barbaro spettacolo delle decapitazioni. Yarbes li aveva scelti perché li conosceva di persona, e loro provavano il violento desiderio di ammazzare l’arabo, e nel modo più cruento possibile. Erano uomini duri, poco inclini alle emozioni; avevano visto perire colleghi e amici, avevano rischiato la vita e restituito i colpi ricevuti. Dato che erano ancora vivi, ciò significava che la bilancia era largamente in attivo. Questa missione, però, era diversa da tutte le altre e la collera che provavano esulava dal concetto di compiere semplicemente il proprio dovere. Era un fatto personale.
Riguardo a Yarbes, naturalmente non sapevano quello che in passato aveva fatto, ma sapevano che aveva fatto. Essendo conoscitori di uomini, non si lasciavano ingannare dalla sua calma e dalla maniera pacata, quasi asettica, di parlare: bastava guardare quegli occhi gelidi per capire l’intensità dell’odio che provava e la capacità di tradurlo in pratica. Riconoscevano da lunga data il valore, nonché la necessaria spietatezza che a esso si accompagna. La compassione era una parola che non gli apparteneva. Sebbene fosse meno in forma di loro, per via dell’età, ritenevano che fosse imprudente sfidarlo; non che l’idea li sfiorasse.
Martin li invitò a sedersi. Si trovavano in una piccola sala insonorizzata messa a disposizione, nel più assoluto segreto, da Brian Stevens. “Fumate pure, se volete.” Un gesto gentile, benché inutile: nessuno dei quattro aveva mai fumato in vita sua; in quanto al bere, al massimo si concedevano un paio di birre, e non quando dovevano lavorare.
“No, grazie, capo.”, disse infatti Knowles, un nero di novanta chili con due spalle che ricordavano un armadio.
Yarbes annuì. “Chiariamo subito una cosa. La nostra non è un’operazione “nera”, anzi è un’operazione che proprio non esiste, almeno per adesso. Nessuna copertura, niente appoggio da parte della CIA o da altre agenzie governative. Domande?”
Nessuno batté ciglio.
“Bene. Allora proseguiamo”. Spiegò sulla scrivania una carta topografica, estraendola da un portacarte impermeabile. Indicò un punto evidenziato da un lapis rosso. “La località è questa. La buona notizia è che lì la polizia è assolutamente inefficiente. Il territorio è impervio, e pure questo va bene.”
I quattro osservarono con attenzione. Non ci furono commenti.
“Ciascuno di voi disporrà di un kit.” Tirò fuori dalla tasca della giacca un foglio e lesse lentamente quanto vi era scritto. “Comprenderà un’imbracatura portatutto, una mimetica, corda, binocolo, due borracce, medicinali per pronto soccorso, razioni MRE – non andremo al ristorante -, fondotinta mimetico, flashbang, AK-47, una versione leggermente modificata, pistole dotate di silenziatore con canna filettata.”
“Uhm, capo…cioè signore.”, lo interruppe De Beers. A causa del suo cognome, aveva dovuto sopportare innumerevoli prese in giro; quando erano troppo cattive, il biondo di origine olandese risolveva la faccenda a suon di cazzotti: era meno alto di Knowles, ma poco meno forte di lui. Tre turni di servizio attivo da volontario nei Marines non sono uno scherzo.
Yarbes lo guardò. Preferiva “capo”.
“Portiamo questa roba in aereo? Voglio dire, i Kalashnikov e tutto il resto?”
“Certamente no. La troveremo in loco. Io sono sicuro che quel bastardo non si presenterà da solo; perciò è bene essere attrezzati. Comunque, voi ne sapete più di me. Cosa manca?”
“Una torcia elettrica.”, suggerì Scottfield. Un altro cognome destinato a suscitare ironia. Peraltro, Scottfield, a differenza del collega, possedeva un forte senso dell’umorismo.
“E un pugnale.”, aggiunse Knowles. “Di quelli giusti. Conosco un tale che potrebbe procurarci anche degli Shuriken, con o senza veleno aggiunto.”
“Pastiglie per purificare l’acqua.”, disse Wilkins. “Non mi fido dell’acqua che si trova in Italia”. Del gruppo, era il più freddo e caustico.
Yarbes prese nota. “Bene, direi che per oggi è tutto.”
A Londra, la pioggia non infastidiva Ivan Vladimirovic Todorov. Aveva ricevuto due notizie. La prima riguardava la data esatta in cui avrebbe dovuto far deflagare l’ordigno nucleare. La seconda, assai appagante, confermava il buon esito di un bonifico, il secondo dei tre previsti; l’ultimo sarebbe giunto a lavoro ultimato. Aveva già scelto il luogo dell’esplosione, in pieno centro; ora si trattava solamente di attendere l’ora X. In lui mancava la benché minima parvenza di rimorso; sapeva che la bomba avrebbe ucciso donne, vecchi, bambini, oltre agli uomini adulti, ma non era abituato a porsi problemi etici. Era “business”, come dicevano gli americani, e il “business” procurava denaro, in quantità variabile, a seconda del rischio e delle difficoltà; nel suo caso, una cifra enorme.
Alla fine, pensò, grazie a Ibrahim al-Ja’bari, sarebbe andato in pensione. Forse, nei Caraibi.
Una prospettiva molto piacevole.