Ormai prossimo alla pensione, Sergej Vadimovic Sokolov aveva una vasta esperienza. Era entrato a far parte del KGB, dopo aver militato nell’Armata Rossa, dove si era distinto in varie occasioni per intelligenza e coraggio; in seguito aveva operato per il Gru. Alla Lubjanka lo avevano tenuto d’occhio. Inizialmente lo mandarono in Arabia, poi aveva lavorato in Francia, quindi in Gran Bretagna. Quattro anni prima era stato nominato rezident.
Era un comunista convinto e parlava correntemente cinque lingue, fra le quali naturalmente l’inglese. E conosceva gli uomini.
Mentre ascoltava e osservava la giovane donna, seduta di fronte a lui, nel frattempo la valutava. Monica indossava un tailleur di stampo classico e calzava scarpe con i tacchi bassi. Si esprimeva in un inglese dal forte accento americano, usando termini che Sokolov avrebbe accuratamente evitato.
Era una donna intelligente, ma era ancora inesperta. Con il tempo, sarebbe maturata e forse sarebbe diventata una “stella” della CIA; quello che tuttavia era certo era che stava mentendo. Gli aveva rivelato il nome di due traditori, che erano già sul punto di venire richiamati in Unione Sovietica per essere processati (un eufemismo) e condannati. Aveva dichiarato di odiare il capitalismo e di essere mossa da profondi ideali; ciò nonostante, aveva offerto i propri servigi in cambio di denaro.
Questo era stato il primo errore. Le persone che cambiavano bandiera si dividevano in tre categorie, e chi – come l’inglese Philby – decideva di tradire il suo Paese, spinto da ragioni morali e da solidi principi, non pretendeva nulla in cambio. Aldrich Ames, invece, era motivato unicamente dall’avidità, ma non si era mai sognato di definirsi comunista. Poi c’erano i millantatori, che fingevano di essere amici dell’Urss, ma che in realtà facevano il doppio gioco. Monica Squire apparteneva a quest’ultima categoria.
Il secondo errore nasceva dal fatto che lei amava gli Stati Uniti, credeva nei loro falsi valori, e non era riuscita a dissimularlo. Probabilmente avrebbe tratto in inganno uno sprovveduto, un uomo superficiale; e non era il caso di Sokolov.
In realtà esisteva anche una quarta categoria, composta da chi è sottoposto a un ricatto, ma il ricatto nasce da una colpa, e lo sguardo della giovane americana era troppo limpido per presumere che fosse incorsa in qualche tipo di malversazione oppure che fosse stata fotografata a letto con un’altra donna o magari con un negro. E poi il rezident ne sarebbe già stato al corrente.
L’avrebbe liquidata dopo dieci minuti di colloquio… però, poi, Squire gli fornì il recapito di un uomo che Sergej Vadimovic Sokolov disprezzava e detestava. Era un’informazione vera? Oppure falsa? Ma, nel tal caso, perché avrebbe dovuto correre il rischio di essere smascherata? Non avrebbe ottenuto nulla, né soldi, né riconoscenza, e soprattutto avrebbe perso la già scarsa credibilità di cui ai suoi occhi disponeva.
Il rezident rifletté. L’operazione era stata studiata e pianificata con estrema attenzione. Dubitava, però, che la CIA volesse sbarazzarsi di Klaus Altmann: era troppo importante per Langley, e comunque avrebbero potuto farlo sparire senza coinvolgere il KGB. Dunque, esisteva un motivo nascosto alla base di quella rivelazione. Una trappola. Una trappola ideata con un preciso scopo. Attirare in Italia un agente della prima direzione centrale, al fine di sopprimerlo. E chi, se non il brillante Aleksandr Stavrogin? Matrioska aveva perso il suo migliore amico e avrebbe insistito per essere lui e non altri a vendicarlo. Sebbene vivesse da anni a Londra, Sergej Vadimovic Sokolov era informato su tutto, anche su ciò che accadeva a Berlino est. Compresa la morte di Klavdij, sicuramente dovuta a un ordine dell’Uomo di Ghiaccio, il miserabile nazista che, invece di giustiziare, gli americani avevano assoldato.
Il rezident si concesse un sorriso e annuì. “Sono davvero lieto di averla conosciuta.” Aprì un cassetto, contò delle banconote e porse a Monica una somma che a lei parve esagerata.
Se avesse potuto leggere nei pensieri di Sergej Vadimovic Sokolov, avrebbe capito che l’anziano rezident voleva quell’incontro e non avrebbe mosso un dito per impedirlo. Comunque, lo intuì. Ma Squire – come quasi tutti all’interno della CIA – non sapeva chi era veramente Aleksandr Sergeivic Stavrogin. Lei un giorno lo avrebbe scoperto, altri molto prima.
Mezz’ora più tardi, Kris e Monica sedevano a un tavolo appartato, in un locale anonimo, ubicato nei pressi della Waterloo Station. “Non mi ha creduto.”, affermò Monica. Howe finì di bere il suo caffè, invero pessimo, poi depose la tazzina con aria pensierosa. “Ne sei certa?”
“Sì.”, rispose Squire. “Mi ha riempita di soldi, ma non ci è cascato.”
“I soldi sono tuoi.”, replicò Kris. “La CIA può tranquillamente farne a meno… ma, allora, perché te gli ha dati?”
“Per una ragione molto semplice. Adesso sa dove a breve Altmann si trasferirà. A questo ha creduto. L’ho compreso dalla sua espressione. Sembrava annoiato e non lo nascondeva, ma d’un tratto si è fatto estremamente attento. Ha capito che “questo” era vero, e se pure diffidava di me, la notizia gli è piaciuta. E sono convinta che invieranno proprio il “soggetto”. Più che convinta.”
“Perché?”, ripeté Kris.
“Perché lo considerano il migliore. Ma, si sa, i russi sbagliano sempre.”
Il tenente Stavrogin parlava molto bene quattro lingue. Oltre al russo e al tedesco, l’inglese e il francese. Con l’italiano se la cavava, ma con qualche difficoltà. Per questo, quando varcò senza problemi la frontiera di Ventimiglia, dopo il volo che lo aveva condotto da Stoccolma all’ aeroporto di Nizza, aveva con sé un passaporto perfetto a nome di Julien Leblanc, agente immobiliare di Antibes. Nel doppiofondo della valigia, ve n’era un secondo, intestato a Patrick Driver, un mobiliere di Manchester.
Stavrogin non aveva un aspetto tipicamente russo: poteva sembrare un tedesco, un austriaco, un inglese o un francese del nord.
Era a bordo di una Bmw 320 turbo diesel di seconda mano, regolarmente acquistata a Nizza da un rivenditore di auto usate. Meno regolare era ciò che aveva nascosto nel bagagliaio e sotto l’auto; ma anche la perquisizione più attenta e scrupolosa molto difficilmente sarebbe servita a scoprire quello che era stato celato con grande abilità in entrambi i posti. E comunque non c’era motivo per cui la polizia lo fermasse e ispezionasse l’auto. Stavrogin rispettava i limiti di velocità, viaggiava sulla corsia di destra e aveva tutta l’aria del turista intento a godersi una bella vacanza in Italia.
Si fermò per fare il pieno e per mangiare un sandwich nei pressi di Pavia. Pioveva e il cielo era grigio. Giunto a Milano, imboccò l’autostrada dei laghi, prese la deviazione per Como e uscì al casello di Lomazzo. Aveva studiato attentamente tutta la zona e sul sedile del passeggero c’era una carta geografica. Il panorama, bello nei mesi caldi, dava una sensazione di tristezza. Passò per Cermenate, evitò Cantù svoltando a sinistra e, quando fu a Olmeda, girò a destra. Dieci minuti più tardi era a Montorfano. Posteggiò la Bmw e attraversò la strada per bere un caffè al bar Crème.
Si sedette a un tavolino d’angolo, dove fu servito da una ragazza molto carina.
Decise che avrebbe aspettato l’indomani per mettersi in azione. Era abituato a preparare i suoi piani con estrema cura, senza tralasciare il minimo aspetto; quando tutti i tasselli combaciavano e il quadro era completo, allora sferrava il colpo… e non falliva.
Lanciò un’occhiata alla ragazza del bar. Era alta e flessuosa, ma non era il momento di pensare al sesso. Il suo pensiero era fisso sulla morte di Klavdij.
Si limitò a ordinare un secondo caffè.
Quella sera cenò da Sonia, una pizzeria vicina al lago di Montorfano, e si coricò presto, all’hotel Albavilla, dove aveva prenotato una camera telefonando da Nizza.