José López aveva commesso il primo furto all’età di dodici anni. Adesso ne aveva trenta e si occupava d’altro: un’attività più redditizia.
Quando si era reso conto che nella comunità ispanica il suo nome cominciava a circolare troppo e che erano previsti guai, si era affrettato a togliere le tende. Dopo aver lasciato la natia San Diego aveva girovagato senza una meta precisa, arrangiandosi con qualche rapina ai distributori di benzina e ai piccoli spacci di provincia. Infine si era stabilito a Miami, e qui era entrato nel giro giusto, da principio come spacciatore, poi come esattore.
In questo nuovo ruolo aveva dato ampie prove di sé. Era freddo, crudele e inflessibile; non accettava mai scuse e portava sempre a termine il compito che gli avevano affidato. I casi erano solamente due: o riscuoteva la somma dovuta oppure dava un primo avvertimento, spaccando le braccia. Se non fosse bastato, si sarebbe rifatto vivo con una pistola e le pistole servono per sparare. Il boss era molto soddisfatto di lui e tre anni più tardi lo aveva scelto come suo braccio destro.
José López ora si godeva la vita. Indossava abiti firmati, calzava scarpe italiane e cenava nei locali più esclusivi. C’era anche il lavoro, certo, ma era un lavoro che gli piaceva. Amava il rischio, la violenza, l’adrenalina.
Si trovava a Washington da due giorni. Doveva risolvere una questione: erano spariti dei soldi e il suo capo non gradiva troppo essere derubato. Mentre, dopo un giro di esplorazione, nell’oscurità del parco aspettava che i due bastardi si presentassero con il denaro rubato, secondo gli accordi presi il giorno precedente, udì una donna gridare.
Accese il visore notturno schermato e si guardò attorno. Quello che vide non gli piacque. José López non provava alcuna simpatia per la maggioranza degli uomini, ma con le donne il discorso era diverso. Innanzi tutto, sebbene mancasse da casa da un’eternità, senza aver mai scritto o telefonato, non aveva dimenticato sua madre, l’unica persona al mondo che avesse mai amato. In secondo luogo, le donne erano nate per essere corteggiate, portate nei ristoranti di lusso, gratificate con gioielli e profumi costosi. Sedurre una bella femmina era una soddisfazione immensa, pari a uccidere, terrorizzare, costringere la gente a inginocchiarsi per chiedere pietà nel lezzo della propria urina. Sedurre, in tutti i casi. Non violentare.
Consultò il Cartier d’oro. Mancavano ancora quaranta minuti all’appuntamento: arrivare in anticipo era una sua prerogativa. Bisognava studiare il terreno, occorreva accertarsi che non fosse stata preparata una trappola, era necessario prepararsi a ogni evenienza. José López era molto scrupoloso; nel suo mestiere era indispensabile esserlo.
Quindi, il tempo non gli mancava.
Più che gridare, adesso la donna emmetteva rauchi rantoli frammisti a singhiozzi. “Hola, hombre! Que pasa?”, urlò José.
E’ un linguaggio universale, ma per ironia della sorte Henry era spagnolo.
L’assassino balzò in piedi.
Se José López era la spalla di un potente boss della droga, Henry era un killer professionista. Estrasse la pistola, individuò l’uomo e fece fuoco. Una. Due. Tre volte. Tre colpi in rapida successione, che centrarono tutti il bersaglio.
Però l’assassino aveva commesso un errore.
Alcune ore prima Martin Yarbes, che si era eclissato in un anonimo ufficio di Langley, aveva avuto una lunga conversazione telefonica con Vladimir Putin.
Non erano mancati i momenti di attrito. I due si conoscevano dall’estate del 1991. Putin gli aveva salvato la vita e aveva finto di aiutarlo nel viaggio verso la dacia di Gorbaciov, in realtà intralciandolo, dato che, pur restando nell’ombra, a Dresda, preferiva che il golpe avesse successo. Questo per i suoi fini personali. In altre occasioni lo aveva effettivamente aiutato, premurandosi sempre di ribadire che desiderava che gli alti papaveri della CIA ne venissero informati. Sapeva che un giorno avrebbe avuto bisogno dei dollari degli americani.
L’argomento della conversazione verté su una soffiata che Yarbes aveva ricevuto da Brian Stevens, il direttore della CIA, con il quale era in ottimi rapporti. La National Security Agency aveva intercettato una telefonata dalla quale risultava che per la seconda volta i russi erano riusciti a scovare Ibrahim al-Ja’bari, mentre gli Stati Uniti continuavano a brancolare nel buio.
Se esiste una legge nel mondo dello spionaggio è che non bisogna mai svelare al nemico, o al potenziale nemico, i mezzi con cui si è entrati in possesso di informazioni riservate. Yarbes la conosceva bene e si mantenne sul vago, ma Putin comprese perfettamente cosa era successo e si irritò moltissimo: con la CIA ma soprattutto con l’FSB, l’organismo che aveva sostituito la seconda direzione centrale del KGB e che si occupa di controspionaggio e di repressione all’interno della Russia.
Alla fine Yarbes, che a sua volta aveva capito le intenzioni di Vladimir, la spuntò giurando che non lo avrebbe mai saputo nessuno, in particolare Monica.
“Io chiedo solo il diritto di uccidere.”, dichiarò.
Forse fu questa frase a convincere lo zar, e non certe assurde promesse, anche se Putin, non essendo a conoscenza della rottura tra marito e moglie, ignorava che tali promesse erano false come una banconota da tre dollari.
La telefonata giunse mentre Melnikov si apprestava a tornare a casa. Cinque minuti dopo fu lui a comporre un numero. Quando Volkov rispose, il primo vicecapo del SVR disse con calma: “Dovrete rinviare la partenza di un giorno. E’ in arrivo un ospite.”
“E chi sarebbe?”, domandò il maggiore.
“Lo conoscete già. Martin Yarbes. CIA. O meglio: ex CIA.”
Volkov non ne comprendeva la ragione, ma era abituato a eseguire gli ordini, non a discuterli.
Melnikov riagganciò e si soffermò a riflettere su quanto Putin gli aveva detto. Da tempo pensava che i colleghi del FSB fossero piuttosto lenti di comprendonio – “ottusi” era una definizione che probabilmente li inquadrava meglio -; ma ciò che aveva appreso era molto grave, sempre che la notizia fosse vera.
D’altra parte era sempre stato così. Ai tempi del KGB, gli uomini della prima direzione centrale rischiavano quotidianamente la vita nei vari teatri di guerra sparsi per il globo, Asia, Africa, Sudamerica, Stati Uniti, Gran Bretagna; nel frattempo, la seconda direzione centrale spadroneggiava con arroganza entro i confini dell’Unione Sovietica. Qui, intelligenza, intuito, meticolosa preparazione dei piani; lì violenza e brutalità, ma scarso acume.
Melnikov stimava di più gli inglesi del MI5, un po’ meno FBI e Central Intelligence Agency.
Telefonate intercettate! Era inaudito. Incapaci. Putin doveva fare piazza pulita.
Con un sospiro spense la luce e uscì dall’ufficio. Ci voleva una buona vodka. Magari due.
Qualche istante prima, Miloslav Pomarev era stato informato della novità. “Bene.”, disse a Volkov con aria cupa, e intanto pensava: forse, questa volta, regoleremo i vecchi conti in sospeso.
MOSCA 1991
Mentre, davanti al palazzo della Lubjanka, la folla smantellava la statua di Felix Edmundovich Dzerzhinsky, il fondatore della Ceka, accaddero due fatti.
Gli agenti della seconda direzione centrale che avevano seguito Pomarev furono richiamati freneticamente all’interno del Cremlino: un carro armato delle forze “lealiste” lo stava prendendo d’assalto.
Un momento dopo, risuonò uno sparo. Pomarev fu colpito a una spalla. Malgrado fosse stato colto di sorpresa, reagì con incredibile prontezza. Si gettò a terra, si girò e fece fuoco. William Weber barcollò e si accasciò al suolo. Morì pochi secondi più tardi.
Il maggiore del Gruppo Alpha si rialzò prontamente, puntando la pistola su Yarbes. “Anglichanin!”, disse con disprezzo. “Pessima mira: ho solo un graffio.”
Yarbes lo fissò. “Noi due non siamo diversi.”, affermò in tono pacato. “Tutti quelli che partecipano al grande gioco sono simili. Obbediscono agli ordini, quali che siano; non hanno il tempo per soffermarsi a riflettere su concetti vaghi quali pietà, umanità, leggi morali. Agiscono.”
Lanciò uno sguardo al corpo inanimato di Weber, quindi aggiunse: “Da parte mia, compagno maggiore, non ho esitato a uccidere un agente dell’FBI, né a mentire a un traditore dell’Office of Security. Si chiamava Dan Capshaw. Prima l’ho torturato, poi gli ho promesso che sarebbe finito in un carcere federale.” Scosse la testa. “Non ho mantenuto la promessa.”
“E’ la sua orazione funebre?”, gli chiese ironicamente Pomarev.
Yarbes ignorò la domanda. “Io non la giudico, maggiore. Come me, fa ciò che le è stato comandato di fare. Ma quello che voglio dirle è che il golpe è fallito. Tutti i suoi sforzi ormai sono vani. La biscia si è rivoltata al ciarlatano. Adesso l’Armata Rossa sta dalla parte di Eltsin. Voi siete finiti.”