Se io mi fossi innamorata di un ragazzo, e tu lo avessi voluto per te, te lo avrei ceduto senza esitare. E se per questo avessi sofferto le pene dell’inferno, me ne sarei fatta una ragione e sarei riuscita, almeno in parte, a godere della tua gioia. Per me sei sempre stata una sorella, e alle sorelle, specie se maggiori, tutto è dovuto. Ma non ci sarebbe stato alcun risentimento da parte mia, nello stesso modo in cui non ho mai invidiato i tuoi successi. Io andavo bene a scuola, ma tu eri la prima della classe. Io giocavo discretamente a tennis, ma tu eri la numero uno. Io piacevo a molti ragazzi, ma tu eri la regina.
Tutto nacque al nostro primo incontro, entrambe ancora ragazzine, che il destino volle fossero compagne di banco. Ti amai da subito e tu mi ricambiasti. Lungi dall’inorgoglirti per il tuo talento innato (eccellevi in qualsiasi cosa, come accade ai predestinati) mi hai sempre presa per mano, sorretta, aiutata. Grazie a te imparai la matematica, che prima del tuo intervento consideravo una materia sconcertante; con infinita pazienza mi insegnasti a usare il rovescio a due mani. E per stare con me rinunciasti alla compagnia delle ragazze più ricche, sebbene appartenessero alla tua stessa classe sociale. Loro mi snobbavano perché ero una borgatara, e tu non accettasti quella discriminazione. Le ignoravi, facendole soffrire, dato che tutte anelavano alla tua amicizia. Questo privilegio spettò sempre a me, ed era fra le tue braccia che piangevo quando la vita incominciò a mostrarmi il suo lato più crudele, e da te ricevetti carezze che riuscivano a toccarmi il cuore. All’ultimo anno di liceo, rischiasti di prenderle da una banda di teppisti che avevano osato mettermi le mani addosso. Ma tu li facesti scappare a gambe levate, grazie al tuo innato magnetismo, a una personalità non comune, direi eccezionale.
Era inevitabile che mi iscrivessi anch’io a medicina. E non è stato certo per caso che poi abbia preso la tua stessa specialità. Fui testimone alle tue nozze, e tu alle mie. E quando mio marito perse il lavoro, trovai una busta nascosta sotto a un cuscino del divano. La sera prima eri stata a casa nostra a vedere un film. Se non ricordo male, era di Verdone. Come al solito ti eri sfilata le scarpe: è sempre stato il tuo vezzo.
Ricordo che ridemmo fino alle lacrime, mentre il mio uomo esibiva un sorriso tirato pensando alle ultime rate del mutuo ancora da pagare, e il tuo era da qualche parte, nella notte di Roma. Io cercavo di distrarmi, di rimandare all’indomani le preoccupazioni, e il fatto di averti accanto mi dava una grande forza.
Sapevi che il giorno dopo non sarei andata in ospedale, e conoscevi il mio amore per l’ordine e per la pulizia. Quindi avrei trovato subito la busta.
La busta era bianca, priva di intestazione. La aprii chiedendomi oziosamente se conteneva una tua poesia. A volte ne scrivevi, e poi me le facevi leggere, e naturalmente erano bellissime: sapevano scandagliare l’animo umano, far vivere la natura, riempivano l’aria di colori, profumi; echeggiavano il suono del vento e disegnavano spiagge bianche e mari verdi e montagne incantate.
Ma non avevi scritto una poesia. Ti telefonai immediatamente, dicendo che non potevo accettare quei ventimila euro. Dissi che avrei stracciato l’assegno.
“Sorella.”, fu la tua risposta.
Quanto ti ho amato, Giulia! E’ difficile stilare classifiche dei sentimenti, e forse anche inutile; tuttavia, se mi trovassi costretta a farlo, metterei il tuo nome in cima alla lista. Prima di mio padre, di mia madre, di mio marito. Accanto al tuo ci sarebbe solo quello di Cristiano, che però a quell’epoca non era ancora nato.
Gli anni sono passati, a volte felici, in altri casi meno, perché così scorre il nastro dell’esistenza. Gli anni ci hanno visto sempre vicine.
Un giorno, all’improvviso, ho incominciato a scorgere i primi segni del tuo decadimento, che poi era anche il mio. Ho capito che non riuscivi ad accettarlo, e ho fatto tutto quello che potevo per alleviare l’amarezza che ti avvelenava. Mi rendevo conto fin troppo bene che non sopportavi un declino che è inevitabile, ma che se è accolto con saggezza può trasformarsi in un tramonto dolce, appena pervaso di malinconia, soprattutto quando si ha avuto in dono una sorte pari alla tua.
Avrei dato la mia vita per te, Giulia! E lo avrei fatto con il sorriso sulle labbra.
Ma non potrò mai perdonarti, e te lo scrivo con la morte nel cuore. Te lo scrivo piangendo, con una disperazione che prima di oggi non avevo mai conosciuto.
Avrei accettato tutto da te.
Ma non che cercassi la tua giovinezza perduta in un letto.
Non con mio figlio.
Vi ricordo il mio nuovo libro, “Alex Alliston”.