Ascoltavamo country-rock. Io avevo un buffo cappello da cowboy che non riusciva a trattenere i miei lunghi capelli biondi, alti stivali neri e minigonna. Non era l’abbigliamento di una signora, ma io non sono mai stata una signora. E poi a quei tempi ero giovane. Stefano diceva che ero molto bella, però sapevo che non era vero. Attraente. Una che non passa inosservata. Questo sì: ma non bella. La bellezza è un’altra cosa. E anche la classe, se è per questo. La mia famiglia era povera, perciò smisi di studiare dopo la terza media. Fui assunta in un negozio come commessa, ma una sera rubai dei soldi dalla cassa. Non era una grande somma: bastava appena per due dosi; in ogni caso, fui licenziata. Il proprietario non mi denunciò, però la voce si sparse e così l’unico impiego che riuscii a trovare fu quello di donna delle pulizie. Non esistevano le colf allora. Pulivo cessi pieni di merda, trattenendo a stento il vomito. Ma alla fine ci si abitua a tutto.
A me piaceva tanto Claudio Baglioni, ma Stefano mi fece conoscere la musica americana. Non conoscevo i nomi di quei complessi, ma quel suono finì per entrarmi nelle vene, sostituendo l’ero. Ricordo bene la copertina di un disco: c’era un vecchio divano con tre tipi seduti sopra. Il primo a sinistra stava sullo schienale, quello in mezzo aveva la chitarra fra le mani, il terzo a destra portava dei bei baffoni. C’era una canzone in particolare che mi piaceva moltissimo, di quella ricordo anche il titolo, “Guinnevere”. Stefano diceva che ero io Guinnevere. Forse perché, come la protagonista, anch’io ho gli occhi verdi. Un’altra canzone parlava del Marocco. Quanto mi sarebbe piaciuto andarci. “E un giorno io ti ci porterò.”, diceva Stefano. “Ci faremo tante canne, andremo a nuotare nell’oceano, visiteremo dei posti che neanche ti immagini, Monica!”
Stefano è morto in un incidente stradale. Stava venendo a casa mia a prendermi ed era già ubriaco. Si schiantò contro un muro.
Io ho continuato a vivere. Ma certi amori non si scordano. Stefano era strano, era “fuori”, ma era il ragazzo più fantastico di questo mondo. Stefano mi amava e non gliene fregava niente che io fossi una sguattera ignorante. Lui invece era ricco, e aveva girato tutta l’Europa. Aveva letto un sacco di libri e ogni tanto me ne parlava: ma io capivo ben poco di quelle storie complicate. Però stavo ad ascoltarlo, perché mi piaceva sentirlo parlare. Mi piaceva la sua voce, come muoveva le mani, la luce dei suoi occhi. E non ho mai più fatto l’amore con nessuno. Non mi andava. Sapevo già in partenza che non avrei provato quello che mi faceva provare lui. Ho continuato a sgobbare, risparmiando lira su lira; sono invecchiata prima del tempo, ma alla fine ce l’ho fatta: mi sono comprata una casetta fuori città, ai margini di un fiume. Era una specie di catapecchia, ma l’ho rimessa a nuovo. Ho cambiato le tende, l’ho riempita di fiori, e ho appeso a una parete una grande foto di Stefano. Proprio davanti al mio letto, così al mattino era la prima cosa che vedevo.
Gli anni sono passati, più o meno tutti uguali; mi sono venuti i reumatismi; mi sono spaccata la schiena a forza di spazzare pavimenti, pulire finestre, lavare cessi. Ma non mi sono mai lamentata. Questo era il mio destino. Un giorno sono stata da una chiromante, e lei ha detto che ero fortunata perché avevo un grande amore nel cuore. E ci ha proprio azzeccato. Ho sempre amato Stefano, lo amerò fino all’ultimo giorno della mia vita. Una volta venne a prendermi alle tre di notte. “Ma sei pazzo!”, gli dissi. “Se si sveglia mio padre, mi ammazza.” Lui sorrise. Quando sorrideva, mi scioglievo. “Vieni con me!”, disse. E io che ero “fuori” come lui mi vestii in fretta e furia, uscii di casa e salii sulla sua Mini. “Dove andiamo, Ste?”
“Tu non ti preoccupare.” Mi portò a Cannes, in Francia. Arrivammo alle sette del mattino. Scelse un albergo bellissimo, di quelli che si vedono nei film. Era proprio davanti al mare. Ordinò la colazione. Avevo fame e mangiai come un lupo: pane, burro, marmellata e dei croissant deliziosi. Poi facemmo l’amore. “Lo sai che ti sposerò, Monica?”
“Ma va!”, risposi. “Tu sposerai una ragazza ricca e istruita. Una del tuo ambiente.”
“Non dirlo neanche per scherzo, Guinnevere!”
A mezzogiorno uscimmo, visitammo la città, poi tornammo in albergo per fare di nuovo l’amore. Quella sera cenammo in un ristorante meraviglioso. Ste scelse anche per me. Io non capivo una parola di francese ed era inutile che guardassi il menu. Dopo andammo in spiaggia. Mi tolsi le scarpe ed entrai nel mare. L’acqua era tiepida, nel cielo c’erano tante stelle. Ste me ne indicò una. “Quella è tua, Guinnevere!” Io mi commossi, era come se mi avesse regalato un gioiello, non so se mi spiego. “Ti amo, Ste!” Ci abbracciammo e restammo lì a baciarci, ad accarezzarci, a sussurrarci parole che appartenevano soltanto a noi. E’ stato il giorno più felice della mia vita. Come avrei potuto amare un altro dopo Ste?
“Le ho fatto perdere tempo, vero? Mi scusi sa, ma quando si è vecchi si diventa noiosi, lo so. Ecco, ce l’ha quel cd con tre tipi seduti sul divano? Io il titolo non lo so. Però so che c’è una canzone che si chiama Guinnevere.”
Guinnevere had green eyes
Like yours, my lady like yours…
(David Crosby)