Alla fine glielo avrei detto.
“Ti aspettavo da una vita.” E’ una frase che può suonare banale; ma il mondo non appartiene ai filosofi o agli scienziati: è popolato da gente semplice, che cerca cose semplici. E la ricerca dell’amore credo che ci accomuni tutti. Non è necessario essere un poeta per amare.
Le avrei mostrato le mie stelle preferite, mentre scalze avremmo percorso il litorale. Davanti a noi, nero e insondabile, il mare; alle nostre spalle la città, le luci dei lampioni che avrebbero rinnovato il prodigio delle palme, da sempre presente nella mia memoria come il simbolo di una serenità che un tempo, un tempo ormai lontano, mi apparteneva. Ci saremmo rimesse le scarpe, Le Coq Sportif io, sandali Guess lei, e saremmo risalite sulla Croisette. Ci saremmo fermate in un bistrot a bere una birra.
Io le avrei sfiorato una mano. Lei mi avrebbe detto: “Anch’io ti aspettavo, Alessandra.” Un attimo di esitazione, quindi avrebbe aggiunto: “Solo che non avrei mai pensato di incontrarti.”
La ragazza venne a sedersi vicino a me. Io ero a un tavolo d’angolo; sull’altro lato del piccolo terrazzo alcuni vecchi bevevano vino scambiandosi quelle improbabili opinioni che nascono all’una di notte, liberate dall’alcool e destinate a svanire dal ricordo il mattino dopo.
Era alta. Più alta di me. Capelli castani di media lunghezza, occhi verdi che sfumavano nell’azzurro, un viso più espressivo che bello. Quando ordinò da bere la osservai cercando di non farmi notare. In realtà, il viso era molto bello. Uno di quei volti che acquistano spessore ad ogni nuovo sguardo, che possiedono una luminosità del tutto speciale, che rivelano intelligenza e forza, sensibilità e candore. Nessuna malizia, tranne quella riservata al gioco: una specie di ironia divertita, la stessa con cui di tanto in tanto guardava il tavolo dei vecchietti.
Poi i nostri sguardi si incrociarono. Penso che ci ponemmo entrambe la stessa domanda.
Ma talvolta le risposte sono talmente implicite da risultare inutili. Esistono argomenti che si possono tranquillamente rimandare, perché ci sono priorità maggiori. Io non mi sarei mai alzata da quel tavolo: mi sarei limitata a lasciare galoppare la fantasia, a costruire vaghi sogni o a perdermi in sensazioni ad un tempo seducenti e nebulose. Fu Elisabetta ad alzarsi. Con una sfrontatezza quasi maschile prese posto accanto a me. Fece un cenno al proprietario del locale per indicargli di portare altre due birre. Ci fu un lungo silenzio. I silenzi sono strani: possono nascere dall’imbarazzo, essere condivisi, racchiudere in sé il nulla, o formare punti interrogativi che si sommano ad altri punti interrogativi che a seconda dei casi possono diventare una trama di vita o un inutile momento che si perderà nella infinita successione degli atti senza sostanza né costrutto di cui è costellata l’esistenza di ciascuno.
“Non mi interessano le storie di sesso.”, dichiarò a bruciapelo. Non saprei mai spiegarmene la ragione, ma lo avevo capito fin dal primo momento in cui l’avevo vista. Come per un segreto accordo, ambedue dimenticammo quell’affermazione sincera fino alla brutalità. Parlammo d’altro. Nessuna delle due prevaricava: il discorso si sviluppava fluidamente, quasi fosse una musica scritta su un pentagramma immaginario, quando in realtà era il frutto del caso. Il caso regola la vita di ognuno. Il caso aveva voluto che in quella sera, per quei misteri insondabili cui non vale trovare una spiegazione, si fossero incontrate due persone dotate di un potere attrattivo reciproco e fortissimo. Le successive birre le ordinai io. E poi ci furono altre birre e molti discorsi. Storie di inganni, storie di felicità effimere, fiabe e letture, spazi di solitudini talmente grandi da destare sgomento. Stanze buie e occhi spalancati, angosce senza nome e brandelli di vita persi un po’ alla volta, simili alle foglie che il vento d’autunno cosparge sui sentieri dei boschi.
Elisabetta era del Cancro. Ignoro il grado di compatibilità dei nostri segni zodiacali. Non sono totalmente digiuna di astrologia; più semplicemente non ricordavo di aver frequentato una persona di questo segno. Ciò che contava, l’unica cosa che contava, era il fatto che stentavo a credere di aver incontrato, proprio in quella serata, quando per cercare un po’ di sollievo dal caldo mi ero avventurata in un paese che conoscevo poco, fermandomi casualmente in quel bar; che proprio in quella notte che non è esagerato definire magica avessi incontrato una persona con la quale sentivo di poter condividere la vita, che finalmente mi avrebbe resa felice, che avrebbe creato un sodalizio dove sesso e intelletto, cuore e attrazione fisica, avrebbero formato un’alchimia quasi prodigiosa. Nelle pause pensavo. Immaginavo risvegli luminosi perché il suo sorriso li avrebbe resi tali. Immaginavo scherzi, complicità, ardore dei sensi, tenerezza e stupore continuo. Per un istante ebbi la chiara visione di una vita totalmente appagante, e capii che avrei potuto ottenerla con una semplice parola, un semplice gesto. Non importa se a casa mia o a casa sua ma quella notte avremmo fatto l’amore, e il giorno dopo saremmo state insieme, e quello successivo ancora; c’era tempo per approfondire i nostri percorsi, c’era tempo per le domande e per le risposte: quello che contava era unicamente il fatto che ci fossimo incontrate.
Poi pensai alle valigie. Alle valigie che servono solo per partire. Mai per tornare. Agli addii e ai treni, alla disillusione resa ragione di vita. All’asprezza del dolore, ai ricordi che si sommano nel cuore e che possono fare solo male, un male così feroce e crudele che a volte, in certe sere, saresti pronta a vendere l’anima unicamente in cambio di un po’ d’oblio. Vidi due giovani donne che facevano l’amore sulla spiaggia di Cannes. Vidi serate da sogno e giorni indimenticabili.
Poi vidi il dolore.
Non saprò mai capire se quando presi la decisione mi sentivo più stupida o più vigliacca.
Misi venti euro sul tavolo, mi alzai e senza guardarla tornai alla macchina.
(Grazie per le 100.000 visite e ai 342 amici che hanno deciso di iscriversi al mio blog).
🙂