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UNA NOTTE CON SABRINA

SabrinaIl ristorante era affollato. Quel giorno non avevo voglia di mangiare il solito panino, perciò attesi pazientemente che si liberasse un tavolo. Dopo una decina di minuti un cameriere mi indicò un posto libero. Era accanto alla finestra, ma fuori c’era ben poco da guardare se non una strada uguale a tante altre, grigia come tutte le strade della nostra città.
Rivolsi la mia attenzione alla lista e ordinai una cotoletta alla milanese con contorno di patate saltate. Sorrisi fra me pensando che quello era il piatto preferito del nostro ex-premier. Probabilmente era l’unica cosa che ci accomunava. Mentre aspettavo che mi servissero, mi guardai intorno.
E la vidi. Era seduta proprio vicino a me, ma anche se fosse stata all’altro lato del locale non avrei potuto non accorgermi di lei: una donna bellissima, elegante, piena di fascino. La osservai cercando di non farmi notare. Rimasi colpito dal modo con cui portava il cibo alla bocca, dalla finezza dei gesti e dalla luce dei suoi occhi.
Io sono fedele per natura e fino a quel giorno non avevo mai tradito Nadia; però non avevo nemmeno mai visto una donna simile. Una combinazione irresistibile di classe e di avvenenza, un magnetismo che si sprigionava come per magia e che faceva scomparire tutte le altre persone.
Indugiai, combattuto fra il desiderio quasi incontrollabile di conoscerla e la mia naturale riservatezza. Ma si può resistere allo splendore delle stelle?
Mi sfilai la fede dal dito, mi alzai e mi avvicinai al suo tavolo. Lei alzò gli occhi, sorpresa. Non volevo apparire invadente, né fare la figura del classico pappagallo. “Mi chiamo Paolo Beretta.”, dissi. “Forse si sarà accorta che la stavo osservando. Non intendo importunarla e tornerò subito a mangiare la mia cotoletta. Volevo solo dirle che lei è una donna splendida.” Mi aspettavo una reazione brusca, invece lei sorrise. Mi azzardai a porgerle la mano; dopo un attimo di esitazione, lei tese la sua. La stretta di mano durò qualche secondo di troppo per essere un gesto solo formale.
Esitai per qualche attimo, mi rendevo conto che se avevo una possibilità andava colta in quel momento; se mi fossi allontanato, non ci saremmo più rivisti. La prospettiva mi parve intollerabile. “Sabrina Colombo.”, disse lei e al suono di quella voce mi persi in un mondo di sogni sfrenati. La desideravo, la desideravo con un’intensità quasi dolorosa. “Lavoro qui vicino.”, dissi. “E’ la prima volta che vengo in questo ristorante.”
“La cucina è molto buona. Anch’io lavoro qui vicino e ormai sono diventata una cliente abituale.”
Quelle parole significavano che avrei potuto rivederla. Ma non volevo aspettare. Mi buttai con una buona dose di incoscienza. “Le andrebbe di bere un drink con me, questa sera?”
Mi aspettavo un garbato rifiuto.
“Volentieri.”, rispose invece Sabrina.
Al ristorante era vestita in modo informale, quando la rividi era in abito da sera. La trovai ancora più bella. Ordinai due aperitivi e li sorseggiammo con calma, mentre incominciavamo a esplorare i nostri mondi. Capii subito che era intelligente, colta e profonda. Si dimostrò anche spiritosa e arguta. Avrei voluto che il tempo si fermasse per poter rimanere lì con lei in eterno. Mi disse che era invitata a una festa, poi mi sorprese chiedendomi se volevo accompagnarla. Non sono facile alle emozioni, ma per un istante il mio cuore smise di battere. L’attrazione era reciproca! E non soltanto perché mi aveva chiesto di andare con lei: il suo sguardo parlava, e il messaggio che trasmetteva era una promessa di felicità infinita.
“Dovrei passare da casa a cambiarmi.”, dissi cercando di trovare una scusa sensata per Nadia.
“Giacca blu e pantaloni grigi. Vai benissimo così.” Era passata con naturalezza al ‘tu’. Mi scusai e cercai il bagno. Chiamai Nadia con il cellulare e le raccontai una storia abbastanza improbabile; mia moglie si fida ciecamente di me e non fece domande. Tornai da Sabrina camminando sulle nuvole.
La festa era alquanto noiosa; ci servimmo al buffet, Sabrina salutò qualche amico, poi mi propose di fuggire alla chetichella. Acconsentii immediatamente. Uscimmo assaporando il profumo della notte, salimmo in macchina e lei mi guidò a casa sua. Abitava in un appartamento elegante, che denotava stile e buon gusto; alle pareti c’erano dei quadri molto belli, la finestra del soggiorno dava su un parco.
Sabrina accese delle candele. Si muoveva con grazia felina, sprigionava una sensualità irresistibile. Io ero al settimo cielo: mi sembrava di vivere un sogno, ma non era un sogno, bensì la stupenda realtà. Mi offrì da bere. Poi fu tra le mie braccia.
Ci baciammo appassionatamente. Sabrina mi prese per mano e mi condusse in camera da letto.
Sul comodino c’era un orsacchiotto di peluche.
Nadia ne possedeva uno simile.
All’improvviso l’eccitazione, l’aspettativa, la gioia scomparvero, sostituite da un senso di angoscia.
Sabrina si stava spogliando. Aveva un corpo superbo, ma io pensavo a mia moglie. Ai sorrisi, agli sguardi complici, alle nostre meravigliose chiacchierate, alla grande fiducia che lei riponeva in me.
Nadia è una donna attraente, sebbene non all’altezza di Sabrina; tuttavia non era questo che mi interessava. Mi rendevo conto che se fossi andato a letto con Sabrina, qualcosa si sarebbe rotto per sempre, l’incanto del nostro amore sarebbe stato irrimediabilmente rovinato, e anche se lei fosse rimasta all’oscuro di quello che era successo io non sarei stato più lo stesso. Ricordai il suo abbraccio, le serate trascorse insieme, i risvegli felici. A volte Nadia giocava a fare la bambina, e in quei momenti era di una dolcezza incredibile. Quando avevo avuto dei problemi sul lavoro mi aveva stretto forte a sé, sussurrandomi che tutto sarebbe andato bene.
Adesso ero sul punto di perderla. Un tradimento è per sempre, non è possibile tornare indietro, né fingere che non sia mai accaduto. E’ un’azione senza ritorno. E’ la fine dell’amore.
Guardai Sabrina negli occhi. “Mi dispiace.”, dissi. “Non posso.”
La notte mi accolse con un sorriso.
Non vedevo l’ora di tornare a casa.

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ElisaSgranai gli occhi per la sorpresa, ma mi ricomposi immediatamente.
Il “dottore” era Tony, mio zio.
Rivolse lo sguardo a Chiara ed esibì un sorriso compiaciuto; solo io notai quanto fosse freddo quello sguardo. “Perfetta!”, disse. Dovetti convenire con me stessa che era un ottimo attore: sembrava veramente intrigato dalla visione di quel giovane corpo efebico, che univa l’innocenza della pubertà al sex-appeal di una ragazza comunque prossima al passaggio da crisalide in farfalla. Non me ne intendo di queste cose, però credo che per un pervertito questo mix rappresenti il massimo della lussuria. Senza contare che Lucia sarebbe stata frustata a sangue da un’altra donna, e so che molti trovano irresistibili questi particolari giochi. Per appurarlo è sufficiente andare su “Google” e digitare alcune parole chiave.
“I soldi!”, lo sollecitò Giulio. Mio zio gli porse un assegno, un normale assegno bancario.
“Un milione di euro. Magnifico.”, disse Giulio. Poi lo colpì con un violento destro alla mascella. Mio zio finì contro la parete barcollando. “Pezzo di merda, nessuna banca al mondo pagherebbe una cifra simile. Un assegno, poi! Qual è il tuo gioco? Chi credi di prendere in giro?”
Lo colpì di nuovo, questa volta allo stomaco. Mio zio si piegò in due.
Volevo intervenire, ma Maria Luisa mi si parò davanti. Mi sovrastava in peso e in altezza; inoltre, aveva la frusta in mano. Mi rintanai in un angolo. Maria Luisa mi indicò. “Quei due sono d’accordo.”
Giulio annuì, scuro in volto. “E allora dovranno morire tutti e tre.” Nell’udire quelle parole, la donna sorrise. Fu in quel momento che compresi la differenza che li separava: Giulio era un uomo gelido, privo di sentimenti, attaccato soltanto al denaro; Maria Luisa, invece, era un misto di pazzia e di crudeltà. Le piaceva quello che faceva. Dopo una breve riflessione, Giulio fece un cenno alla sua complice. Maria Luisa sciolse i nodi che immobilizzavano Lucia. “Alzati.”, le ordinò. La ragazza obbedì. Tremava visibilmente. Giulio estrasse la pistola dalla giacca e la puntò su mio zio. “Andremo in un posto tranquillo, isolato, dove troveremo anche un adeguato luogo di sepoltura.”
“Bastardi!”, gridai, fuori di me.
Maria Luisa mi sferrò un pugno nello stomaco, strappandomi un gemito di dolore. Poi mi afferrò per un braccio e mi sospinse verso la porta.
Uscimmo dall’appartamento, dirigendoci verso l’ascensore: io per prima, seguita da mio zio, da Maria Luisa e da Chiara. Giulio chiudeva la fila.
Prima che io potessi pigiare il tasto luminoso, Tony mi diede uno spintone, si girò di scatto con una pistola fra le mani e prese di mira Giulio. “Sei un dilettante.”, disse con disprezzo. “Non mi hai neanche perquisito! E poi non hai il silenziatore.”
Giulio reagì con grande prontezza di riflessi, prendendomi per i capelli e infilandomi l’arma in bocca. “Questo piano è disabitato. E prima che tu possa spararmi io ucciderò lei.”
La risposta di mio zio mi sconcertò. “Non è un problema.”, disse con calma. Malgrado le botte che aveva subito, si esprimeva in modo chiaro e pacato. “Io sono suo zio, ma lei non è più mia nipote. E’ una depravata, la sua sorte mi è indifferente. Io voglio solo punire voi, e salvare la ragazza. Quando premerai il grilletto, sarai un uomo morto.”
Giulio per un attimo sembrò preso alla sprovvista, tuttavia si riprese subito. “Non ti credo.”, disse.
Mio zio aveva uno sguardo totalmente inespressivo. “Mettimi alla prova.”
Ci fu uno stallo che si protrasse per un tempo che mi parve infinito. Non sapevo se mio zio diceva il vero, provavo un terrore folle, ero scossa da brividi di freddo. Nessuno dei due si decideva ad abbassare la pistola. Era una situazione senza via di uscita. Pensai con angoscia che sarei morta, e il fatto che la stessa sorte sarebbe toccata a Giulio non mi era minimamente di conforto.
Fu mio zio a rompere quell’impasse. Prese accuratamente la mira, incominciò a premere il dito sul grilletto. Evidentemente Giulio non resse la tensione. Lasciò scivolare il braccio lungo il fianco. L’incubo era finito! Trassi un profondo sospiro di sollievo, mi divincolai dalla sua stretta . “Consegna la pistola a mia nipote.”, disse mio zio. Io non so sparare, ma almeno in questo modo Giulio sarebbe stato disarmato, e comunque avrei potuto fingere. Lui obbedì, porgendomi l’arma. Non ci restava che portarli alla più vicina caserma dei carabinieri. Non ci sarebbero stati problemi: avremmo testimoniato in tre contro di loro. Stavo per per prendere quell’odioso strumento di morte, quando Maria Luisa ci colse tutti di sorpresa. Il suo polso scattò all’improvviso. Il colpo di frusta fu violento e preciso, centrò in pieno la mano di mio zio. La sua pistola cadde a terra con un piccolo tonfo attutito dalla moquette. “Bastardo!”, sibilò la donna. Vibrò una seconda scudisciata, questa volta diretta al viso.
Giulio rise. “Brava, piccola!” Chiamò l’ascensore. “E adesso è finita.”, disse.
Mentre guardavo lampeggiare i numeri dei piani, mi resi conto di quanto la vita mi fosse preziosa. Ero una giovane donna normale, realizzata nel lavoro, contavo su buone amiche quali Patrizia, mi piaceva il sesso. Non volevo morire. Non mi sembrava giusto. Maledissi lo stravagante comportamento di mio zio, che a sessant’anni credeva di potersi trasformare in un “giustiziere della notte”. Forse aveva fatto davvero il contrabbandiere, ma ormai era vecchio e inadatto a situazioni di lotta e di violenza. Mi vergognai subito di quei pensieri: lui aveva cercato di salvarmi, e sarebbe morto a causa mia. Dovevo impedirlo! Ma era impossibile. Giulio aveva la pistola, Maria Luisa mi faceva paura. Come avrei potuto oppormi a loro? Non avevo né la forza né la freddezza sufficienti per farlo. Con un nodo allo stomaco, vidi che mancavano solo due piani, poi l’ascensore sarebbe arrivato, ci avrebbero portato in qualche bosco e lì saremmo stati giustiziati.
Mi tremavano le gambe, l’angoscia mi impediva perfino di piangere.
Ancora un piano.
Se fossi riuscita a strappare la frusta dalle mani di Maria Luisa…
Lei sembrò intuire i miei pensieri, perché mi afferrò per un polso, stringendolo con forza sorprendente. Lucia era bianca come uno straccio. Lei era la vittima più innocente. Mio zio non si lamentava per il dolore, ma aveva perso la sua energia: appariva abulico e distante. Giulio non manifestava emozioni. Gli occhi di Maria Luisa brillavano di piacere.
Io ero disperata.
L’ascensore arrivò al nostro piano.
Solo per il gusto di farmi male, Maria Luisa mi torse il braccio dietro alla schiena fino all’altezza delle scapole. Provai un dolore lancinante.
L’ascensore cominciò ad aprirsi.
In quegli istanti infinitesimali la mia mente fu attraversata da mille pensieri. Non voglio dire che rivissi tutta la mia vita in un solo secondo; queste cose si leggono sui libri ma non sono vere: certo è che fui raggiunta da ricordi, emozioni, gioie e dolori che appartenevano al mio passato. L’ultima sensazione fu quella del contatto meraviglioso del sole sulla mia pelle.
L’ascensore si aprì.
Non era vuoto.
C’erano quattro poliziotti con le armi spianate.
Uno di loro, forse il capo, apostrofò mio zio: “Perché é venuto in anticipo?”
Tony, perplesso, consultò l’orologio.
Poi scoppiò a ridere.
“Faccio sempre casino.”, borbottò.
Io mi voltai in direzione di Giulio. “Scacco al re!”, sibilai.
“Scacco matto.”, puntualizzò lo zio.

Quella stessa sera mio zio mi fece fumare la mia prima canna.
A me piace Vasco, ma lui voleva ascoltare questi “sconosciuti” Jefferson Starship.
Mi tolsi le ballerine, mi sdraiai sul divano e chiusi gli occhi.
Convenni con lui che era grande musica.

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ElisaNei giorni seguenti non ebbi tempo di pensare a mio zio e alla sua promessa di aiuto.
A prescindere dal fatto che era un uomo sbadato e che probabilmente si era già dimenticato della mia triste storia, un nuovo problema angustiava Giulio e di conseguenza me e Maria Luisa. In fondo, vivevamo di luce riflessa. Un cliente estremamente ricco ed eccentrico lo aveva avvicinato con delle richieste che Giulio reputava inaccettabili. Inizialmente si era limitato a chiedere una minorenne. Era disposto a pagare molto, e Giulio aveva preso in considerazione la proposta, sebbene fosse pericolosa e di difficile attuazione. In seguito, il cliente, che si faceva chiamare “il dottore”, aveva specificato che la ragazza doveva essere ancora vergine. Questo era già più complicato.
La terza richiesta del dottore era agghiacciante: voleva assistere a una scena di tortura. Prima Maria Luisa avrebbe dovuto frustarla, e poi Giulio consolarla possedendola. Al rifiuto di Giulio, il dottore aveva rilanciato: la sventurata doveva morire fra atroci sofferenze. Per Giulio era fuori questione anche la sola idea. Ma, a questo punto, il dottore aveva calato l’asso sul tavolo.
Un milione di euro.
Giulio era allibito. Aveva chiesto una pausa di riflessione, confidandosi con noi. Naturalmente mi ero opposta fermamente a quell’autentica abberrazione. Maria Luisa, invece, aveva dato parere positivo. Conosceva anche una ragazza che faceva al caso nostro, abbastanza ingenua da poter essere intrappolata. Era bella e aveva un’aria innocente che, secondo lei, avrebbe eccitato in modo indicibile il dottore. Per Giulio non si trattava di un problema etico. Semplicemente, aveva paura. Ma un milione di euro rappresentava una cifra immensa, da sogno, capace di addormentare molte coscienze, e tale da giustificare il tremendo rischio. Tuttavia quel laido essere esitava, combattuto fra ingordigia e timore. Maria Luisa premeva perché accettasse, io ero affranta e sbigottita.
Alla fine Giulio decise per il sì. Ma occorreva organizzare il tutto in modo perfetto, senza la possibilità di un minimo errore. Anche la più banale distrazione avrebbe potuto rovinarlo. Era necessaria una preparazione più che accurata, andava vagliata in maniera scientifica ogni possibile evenienza. Inoltre, voleva essere pagato in anticipo.
Il dottore ribatté dicendo che avrebbe consegnato i soldi non appena avesse visto la vittima. Ci fu un lungo braccio di ferro, che si concluse con la capitolazione di Giulio.
Per un milione di euro quell’uomo avrebbe venduto l’anima al diavolo.
Naturalmente ero decisa a impedire l’assassinio. Sarei andata alla polizia. Al diavolo le conseguenze! La vita di quella povera ragazza era più importante della mia reputazione. Forse Giulio mi lesse nel pensiero. Quando rincasai dal lavoro, trovai Maria Luisa che mi aspettava. L’esecuzione era prevista per quella sera, ma mancavano ancora tre ore e pensavo di avere tutto il tempo per fermare quella barbarie.
Purtroppo non andò così. Maria Luisa mi impedì di telefonare alla centrale e mi costrinse a raggiungere Giulio. Volevano che partecipassi anch’io: così sarei stata per sempre nelle loro mani.
La ragazza si chiamava Lucia. Non so come Maria Luisa fosse riuscita a convincerla. Adesso era sdraiata sul letto, nuda, legata ai polsi e alle caviglie, un bavaglio sulla bocca, gli occhi pieni di terrore.
Distolsi lo sguardo. Mi sentivo spregevole, ma per quanto mi sforzassi disperatamente di trovare un modo per salvarla, mi rendevo conto che non avrei potuto fare nulla per lei. Loro erano in due, e sapevo che Giulio aveva anche una pistola. Stavo per gridare che era pronta a prendere il suo posto, quando il suono del citofono mi fece trasalire.
Maria Luisa andò a rispondere. Nelle mani cingeva una frusta; aveva un’espressione eccitata e febbrile.
Maledetta stronza, pensai.
Pochi minuti dopo bussarono alla porta.
Giulio aprì.
Entrò il dottore.

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ElisaIl primo fu un uomo obeso di circa cinquant’anni. Era antipatico e arrogante, ma per fortuna scarsamente dotato e soprattutto sprovvisto di resistenza. Venne non appena Maria Luisa gli sfiorò il membro, e poi non ci fu verso di farglielo tornare duro. Per eccitarlo facemmo l’amore noi donne e, sebbene la detestassi, la mia “collega” riuscì a farmi impazzire come la prima volta in cui ci eravamo trovate nello stesso letto. Dovrei aggiungere che se Patty era la Monica Bellucci dei poveri, Maria Luisa la seguiva a ruota, anche se assomigliava piuttosto a Christina Hendricks, almeno vagamente. Una discreta station wagon, volendo proseguire il paragone con le macchine.
Al secondo appuntamento andai da sola. Quando tornai a casa mia mi sentivo sporca e infelice.
A volte facevo sesso con Giulio e Maria Luisa, però se qualche cliente non era rimasto soddisfatto della mia prestazione, mi costringevano a guardare senza permettermi di partecipare. Con il passare dei giorni il mio odio verso quella diabolica coppia cresceva a dismisura; ciò nonostante, questo non mi impediva di desiderare Giulio. Evidentemente amavo il degrado, anche se non me ne ero mai resa conto.
Una sera risposi male a un cliente. Non voglio raccontare come venni punita perché si trattò di un’esperienza troppo umiliante, di quelle che ti segnano per una vita. Guadagnavo molto, ma avrei rinunciato volentieri a quei soldi: il problema era che non potevo farlo, mi trovavo legata mani e piedi, e non ero in grado di ribellarmi se non al prezzo di uno scandalo che mi avrebbe travolta. Se Giulio avesse mostrato quelle foto, avrei perso il lavoro, le amicizie, la stima di tutti quelli che mi conoscevano.
E le foto aumentavano. Il passo successivo furono i filmini. Non avevo via di scampo. Mi sembrava di vivere in un incubo perenne, solo che non era un sogno ma la mia vita.
In linea di massima, lavoravo tre sere a settimana, a volte quattro. Quasi sempre erano uomini. In un paio di casi andai a letto con una donna, e forse quelle si dimostrarono le esperienze meno sgradevoli.
Poi arrivò il momento in cui compresi che non potevo continuare così, a nessun prezzo. Accadde una mattina, mentre rincasavo dopo aver trascorso la notte con un depravato. “Piuttosto mi ammazzo.”, pensai. Fu allora che mi venne in mente mio zio. Non avrebbe potuto aiutarmi, questo lo sapevo, ma almeno mi sarei sfogata con qualcuno, e forse avrei ricevuto un consiglio, un barlume d’idea, uno spiraglio, un minimo appiglio, anche degli insulti se necessario. Meglio del silenzio. Meglio di quelle serate disgustose, in cui perdevo brandelli di anima che non avrei mai più riavuto.
Da sempre adoro mio zio. E’ completamente diverso da mio padre, del quale è maggiore di due anni. Si chiama Antonio, ma tutti lo chiamano Tony. E’ un pittore di mediocre talento. Negli anni settanta aveva girato l’America in lungo e in largo, senza un soldo, suonando la chitarra agli angoli delle strade. Nel frattempo suo fratello conseguiva la maturità scientifica e si iscriveva a Economia e Commercio…
Ha fatto mille lavori. Addirittura si vociferava che per qualche tempo si fosse dedicato al contrabbando marittimo. Ma, probabilmente, questa era solo una leggenda metropolitana.
Mio zio è unico. Un hippy di sessant’anni. L’unica persona che, forse, mi sarebbe stata ad ascoltare.
Mi recai da lui con il cuore che batteva forte.
Lo trovai al telefono. Stava litigando con un amico per via di un certo Craig Chaquito. A detta di mio zio era un chitarrista bravissimo, e i Jefferson Starship rappresentavano la logica evoluzione dei Jefferson Airplane. Mentre snocciolava nomi di album e di canzoni, fumava una sigaretta dopo l’altra. Poi disse qualcosa a proposito dei Pink Floyd. Per me era arabo. Mi fece cenno di accomodarmi e io attesi pazientemente che la telefonata finisse. Intanto guardavo i suoi ultimi quadri, notando un certo miglioramento specie nell’uso del colore.
Quando riagganciò, gli raccontai tutto, senza tralasciare nemmeno un particolare e senza tentare di giustificarmi. Mi ascoltò in silenzio.
I suoi lunghi baffi sembravano vibrare per l’indignazione, gli occhi azzurri avevano assunto una luce strana. Si alzò, prese due lattine di birra dal frigo, me ne porse una, aprì la sua e mandò giù un’abbondante sorsata.
“Ci penso io.”, disse.

eBook2Ambientato in Inghilterra, questo romanzo ricco di suspance copre un periodo di tempo assai vasto: dalla fine dell’ottocento alla seconda guerra mondiale. Il protagonista, Alex Alliston, da misero orfano assurgerà al rango di lord e di magnate dell’editoria, attraverso una lunga serie di avvenimenti, intrighi e congiure, orditi da nemici spietati, fra cui risaltano le figure di Bellatrix Harrows, donna perfida e priva di scrupoli, e del malvagio Jacobus Van der Vaart. Al suo fianco, il geniale Carrick, investigatore bizzarro tuttavia dotato di straordinario acume, e la caparbia Joan. Ma molti sono i personaggi di spicco di questa appassionante vicenda; in particolare i tre grandi amori di Alex: Helen, Jane e Monica. Tre donne molto diverse ma accomunate dalla passione e da un destino drammatico. E poi l’avventuriero Sam Richards, la psicopatica Silvia e Nancy, figlia adottiva di Alliston, figura enigmatica e controversa, ma anche scrittrice provvista di grande talento. Nomi che resteranno a lungo impressi nella vostra memoria per l’efficace caratterizzazione con cui l’autrice è riuscita a “farli vivere sulla carta”.
Sullo sfondo, il conflitto anglo-boero e le due guerre mondiali, frutto di un’attenta ricostruzione storica. All’inizio del libro ampio spazio è dato anche a uno dei personaggi più terribili degli ultimi due secoli: Jack lo Squartatore contro il quale Carrick ingaggerà una lotta senza quartiere nelle cupe e nebbiose notti londinesi.
Scritto in modo scorrevole e avvincente, “Alex Alliston” vi terrà con il fiato sospeso fino all’ultima pagina… all’ultima riga, pervase di poesia e di sentimento.

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ElisaIl giorno dopo mi svegliai in preda al disgusto. Ero andata a letto con due sconosciuti, e quando era intervenuta Maria Luisa non mi ero opposta. Il fatto che quell’esperienza mi fosse piaciuta peggiorava sensibilmente la situazione. Non c’era stato nulla di romantico, di bello, di poetico: avevamo scopato come animali lascivi, senza alcun coinvolgimento emotivo. Giulio non provava un vero interesse per me, era solo un depravato che amava farsi il maggior numero di donne possibili, e che non si accontentava di averne soltanto una nel letto.
Ma io mi ero comportata male. Avrei dovuto ribellarmi, insultarli, uscire immediatamente da quella casa. Invece, avevo ceduto al richiamo dei sensi, non ero riuscita a far prevalere la ragione.
Nel corso di quella notte, avevo subito anche delle esperienze degradanti, e purtroppo mi erano piaciute. Non ci saremmo più rivisti, questo era certo; tuttavia la mia colpa era ugualmente grave, e quello che avevo fatto sarebbe rimasto per sempre nella mia memoria, una macchia che difficilmente sarei riuscita a lavare. Ero tentata di confidarmi con Patrizia, ma dopo una breve riflessione scartai quell’idea. Lei aveva un altro genere di opinione su di me: era possibile che poi mi disprezzasse. Non ero stata drogata, né costretta con la forza; semplicemente avevo accettato quel triangolo perché mi piaceva, perché volevo godere.
“Non mi cercherà più.”, pensai, ed era un pensiero che mi dava sollievo.
Mi sbagliavo. Due sere dopo tornò da “Max”. Io stavo aspettando Patty, seduta a un tavolino d’angolo. Lui diede vita al solito show con il barman, poi venne ad accomodarsi vicino a me. Io ero fredda e ostile. Giulio mi sorrise. Questa volta era solo un sorriso lupesco, non vi era traccia del falso candore che aveva esibito quando ci eravamo conosciuti.
Sorseggiò il cocktail, quindi si protese verso di me. “Sei un animale da letto.”, disse fissandomi negli occhi. Nei suoi c’era una luce fredda, che non gli conoscevo. Meditai di schiaffeggiarlo, ma non volevo fare scenate in un posto che frequentavo da anni. “Anche tu.”, ribattei con voce incolore, e con uno sguardo altrettanto gelido. “E anche Maria Luisa.”, disse lui portandosi una patatina alla bocca. “Vedi, cara Elisa, devi sapere che io conosco molte persone importanti: uomini influenti, donne ricche, giovani di buona famiglia. Sono sempre a caccia di nuove sensazioni. Al di là delle apparenze, la loro vita è spesso vuota, noiosa. Maria Luisa è una numero uno, ma tu, tu con quell’aria da personcina perbene, potresti risultare ancora più seducente, senza contare che insieme formate una coppia sensazionale. A te piace essere scopata, che siano maschi o femmine non importa; sei nata per il sesso, hai una capacità erotica che raramente avevo riscontrato prima d’ora. Inoltre, a parte il diletto, potresti guadagnare molti soldi. Le cose funzionano così: il cinquanta per cento a me…”
Scattai in piedi. Non avevo alcuna intenzione di lasciarlo proseguire. Stavo per girarmi e per raggiungere il più rapidamente possibile l’uscita, quando lui assunse un’espressione minacciosa. “Siediti! Non ho ancora finito.” Non saprei mai spiegare il motivo che mi indusse ad obbedirgli, forse era un presentimento, sesto senso o qualcosa del genere, chi lo sa. Fatto sta che mi lasciai cadere sulla sedia. Lui tirò fuori una busta da una tasca della giacca. Era una busta commerciale, voluminosa, a giudicare dallo spessore sembrava piena di fogli. Ma non conteneva lettere. Man mano che depositava quelle foto sul tavolo, una a una, quasi fossero carte da gioco, mi sentivo gelare. In alcune avevo il foulard sugli occhi, in altre ero a viso scoperto; in tutte avevo un’espressione eccitata, sconvolta o addirittura estatica.
“Sono venute bene, vero?”
Bevve un altro sorso. “Ti immagini la faccia di Patrizia, del tuo capo, dei tuoi colleghi, di tutte le persone che conosci? Guardando queste immagini scoprirebbero un’Elisa ben diversa da quella che credevano di conoscere. Non trovi, piccola?”
Io ero agghiacciata.
Lui rise.
“Scacco alla regina.”, disse, prima di finire con un unico sorso l’aperitivo.

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Dieter HallerIl piano di Dieter Haller era semplice.
Per la verità, non era nemmeno un piano. Avrebbe suonato il campanello e, se Hans Schweinsteiger si fosse trovato in casa, gli avrebbe aperto; in caso contrario, lo avrebbe aspettato davanti alla porta.
Aveva rintracciato il suo indirizzo già da alcuni giorni, ma aveva preferito attendere prima di agire. Erano trascorsi due anni da quando aveva appreso che Hans, o Marcus come adesso si faceva chiamare, si trovava a Londra, perciò una settimana in più non cambiava le cose.
Non c’era un motivo preciso alla base di quella decisione: piuttosto, molti motivi, alcuni dei quali erano probabilmente inconsci, dato che gli sfuggivano. Il sottile piacere che prova il cacciatore durante l’attesa. Il desiderio di conoscerlo, osservandolo da lontano, in modo da inquadrare la sua personalità. Scoprire come viveva, che gusti aveva. Gli piacevano le donne, i cibi sofisticati, lo champagne. Indossava capi eleganti e calzava scarpe italiane. Era di bell’aspetto, in perfetta forma fisica, sicuro di sé, e affascinante come può esserlo un serpente velenoso.
Disponeva di svariate maschere, che utilizzava a seconda delle circostanze. Nel pub che frequentava si poneva come uno sciocco, con le donne era crudele e nelle trattative con i clienti inflessibile. Era intelligente e privo di scrupoli; ma questo Dieter lo sapeva già dalla sera dell’incidente, quando un camionista ubriaco lo aveva investito. Lo aveva preso dal lato del passeggero, però nell’urto un tubo della benzina si era rotto e staccandosi aveva inondato il collettore di scarico surriscaldato. La Bmw aveva preso fuoco. Dieter era sceso dall’auto in tempo, frastornato tuttavia incolume.
Quella sera Elke Wolff era morta a causa di un’overdose. Dieter sarebbe stato pronto a scommettere la sua vita sul fatto che Elke aveva smesso di drogarsi. Purtroppo, quando aveva individuato in Marcus il colpevole, questi aveva già lasciato la Germania. Ma Dieter era molto paziente.
A Londra aveva scoperto che in qualche maniera strana frequentava una famosa cantante e la ragazza con cui la cantante era legata. Le aveva seguite, ma alla fine si era detto che non contavano nulla per Marcus. Egli amava soltanto se stesso.
Si tolse il cappotto e suonò il campanello per la seconda volta.
Marcus non si trovava in casa.
Comunque, prima o poi, sarebbe arrivato.
A un tratto, la sua mente fu attraversata dal pensiero di Elke Wolff. Rivide il suo viso grazioso, rammentò il suo sorriso, la sua dolcezza ma anche la fermezza di cui era provvista. Riassaporò i baci che si erano scambiati nel piccolo monolocale.
Provò una grande pena.
Poi, come una macchina, cancellò Elke dal cervello.
Per scrupolo, suonò ancora una volta, anche se era improbabile che lui fosse in casa.
La porta si aprì.
Marcus lo scrutò, perplesso. Non lo aveva mai visto prima di allora.
Dieter si rivolse a lui in tedesco. Era meglio non fingere di essere un inglese, perché il suo accento lo avrebbe tradito. “Buona sera.”, disse. “Mi chiamo Dieter Haller e un “amico” comune mi ha indirizzato da lei.”
Marcus socchiuse le palpebre. Quell’uomo alto, dalle spalle ampie e dal volto inespressivo, non poteva essere un tossico. “Quale amico comune?”, gli domandò in tono brusco.
“Il signor Peter Lodge.” Lodge era un avvocato, da anni dedito al vizio, e Dieter lo aveva rintracciato grazie al suo contatto di Scotland Yard.
“Bene.”, disse Marcus, senza invitarlo a entrare. “Cosa posso fare per lei?”
“Lodge mi ha garantito che lei è il migliore, forse caro ma assolutamente affidabile. Ho bisogno di una grossa partita di eroina.”
Marcus lo fissò. Quello sconosciuto non era un drogato, si ripeté… piuttosto, un poliziotto? Ma un poliziotto tedesco non poteva fare niente contro di lui. E allora a cosa era dovuta la sua presenza?
“Una grossa partita. Si può fare.”, dichiarò. “Ma perché le serve? Non mi dica per uso personale, perché non le crederei.”
“La venderò a Berlino.”, rispose Dieter. “Naturalmente a prezzo maggiorato. Ultimamente è diventato quasi impossibile mettere le mani su roba buona, di qualità.”
Questo poteva essere vero, pensò Marcus. Ma non era diventato ricco credendo al primo sconosciuto che incontrava. Inoltre il suo intuito raramente lo aveva ingannato, e più passavano i minuti più cresceva in lui la convinzione che Haller fosse un poliziotto.
Rifletté per qualche secondo, quindi prese una decisione. “Vediamoci qui.”, disse. “Fra una settimana a partire da oggi.” Avrebbe interrogato Lodge e svolto altre ricerche: se si fosse sbagliato sul conto di Haller, gli avrebbe venduto la droga; altrimenti… ci avrebbe pensato al momento.
Fece per chiudere la porta, ma Dieter allungò un piede impedendoglielo.
Marcus fu colto di sorpresa, però si riebbe subito. Dunque, aveva ragione: quello era un maledetto poliziotto! Lo guardò, fingendosi stupito.
“Devo parlarle.”, disse Dieter con calma.
“Mi ha già detto tutto, mi sembra, e io le ho risposto. Non si sta comportando in maniera educata.”
“No.”, disse Dieter e gli sferrò un pugno in pieno viso.
Marcus barcollò, e Dieter lo sospinse nell’appartamento.
Quando furono dentro, si chiuse la porta alle spalle e lo colpì allo stomaco. Marcus si chinò per il dolore, ma un attimo dopo tirò fuori la pistola. Dieter notò che ansimava, però aveva la mano del tutto salda; non tremava minimamente. Anche Dieter era armato, e avrebbe potuto sparargli prima che lo facesse lui, ma non era questo che voleva.
Con un balzo gli fu addosso, lo afferrò per il polso esercitando una forte pressione.
Marcus lasciò cadere l’arma.
Dieter la allontanò con un calcio.
Marcus si scagliò su di lui. Sebbene fosse più basso di statura, era altrettando vigoroso, più giovane e abituato a battersi. A Cannes aveva eliminato quattro persone senza problemi. Prese Dieter per le spalle e lo spinse contro il muro, poi cozzò la sua testa contro quella di Haller. Dieter provò un male atroce. Per un momento gli si offuscò la vista. Marcus gli rifilò una ginocchiata all’inguine. Dieter si piegò in due. Non vide partire il colpo successivo: capì soltanto che gli aveva rotto il naso.
Marcus lo lasciò per andare a recuperare la pistola.
La prese e si girò verso di lui.
Premette il grilletto.
Dieter si scansò con un guizzo disperato. La pallottola lo sfiorò.
Marcus sparò ancora, ma questa volta mancò in pieno il bersaglio.
Dieter si rese conto che non avrebbe sbagliato una terza volta. Si tuffò come un giocatore di rugby e lo trascinò con sé per terra.
La pistola rotolò lontano.
Dieter era tutto indolenzito, respirava a fatica, solamente con la bocca, e aveva la testa in fiamme. Gli passò per la mente il pensiero fugace che era fuori allenamento; da tempo non partecipava più a risse e ormai lavorava praticamente soltanto in ufficio.
Marcus aveva una forza impressionante.
Ebbe rapidamente la meglio nel corpo a corpo e si sistemò a cavalcioni sopra a Dieter, bloccandogli le braccia con le ginocchia. Poi incominciò a strangolarlo.
Intanto, lo fissava con i suoi freddi occhi gialli.
Dieter scorse in quello sguardo il piacere di uccidere.
Marcus si era divertito anche quando aveva costretto Elke a subire l’iniezione; forse si era addirittura eccitato, sebbene non fossero state rinvenute tracce di sperma. Dieter non escludeva che, una volta al sicuro, dopo si fosse masturbato.
Aveva la vista annebbiata e non era più in grado di reagire. Il pensiero di Elke gli diede rabbia, tuttavia non riuscì a trasferire quella rabbia al corpo. Stava per morire. Ciò gli era indifferente.
Però, doveva punire Marcus per quello che aveva fatto a Elke. Diede uno scossone e con uno sforzo inaudito liberò le braccia. Marcus continuava a stringere. Dieter non commise l’errore di cercare di impedirglielo: gli infilò due dita negli occhi. Marcus urlò e allentò la presa.
Dieter lo rovesciò, gli prese la testa e la sbatté contro il pavimento.
Una, due, tre, quattro volte.
Si alzò barcollando.
Provava l’impulso di vomitare, ma prima aveva un compito da svolgere.
Cercò il bagno, lo trovò e si lavò la faccia. Ispezionò i vari armadietti. C’erano spazzolino da denti, tubetto del dentifricio, rasoio, crema da barba, lozioni e profumi assortiti. Forbici, un pettine, lamette di riserva. Dieter si guardò intorno. Era un bagno lussuoso, dotato di ogni comodità. Vasca, box doccia, idromassaggio. In un angolo c’era un ampio armadio. Dieter lo aprì: era vuoto. Corrugò la fronte. Perché un armadio vuoto? Lo esaminò attentamente. Notò che un ripiano era leggermente diverso dagli altri, non perfettamente parallelo ma lievemente obliquo. Tastò con le mani il punto della parete su cui poggiava la parte terminale del ripiano, quindi spinse. C’era un ripostiglio. Conteneva, ordinatamente riposte, siringhe e buste di vario genere e forma. Prese una siringa, controllò il contenuto di alcune buste, che scartò, e infine trovò ciò che cercava. Eroina.
Preparò una dose da cavallo e tornò in soggiorno.
Marcus si stava riprendendo.
“Bene.”, disse Dieter sedendosi vicino a lui. “Adesso ti farò sognare.”
Gli srotolò una manica della camicia e gli iniettò la dose mortale.
Lo fissò e in quegli occhi gialli colse un terrore senza nome.
Bastardo, pensò. Ora sai cos’è la paura. Non si pose il problema di avere infranto la legge: individui come Marcus non meritavano alcuna pietà, e se la giustizia non riusciva a raggiungerli, ebbene esisteva un altro genere di giustizia. Lui, semplicemente, l’aveva applicata.
Poi sentì uno strano rumore, come un mugolio. Proveniva da un’altra stanza. Dieter andò a vedere. Per terra c’era una frusta. Una donna era stesa sul letto con la schiena martoriata; un’altra giaceva al suolo, legata e imbavagliata. Dieter le riconobbe. Non faticò a immaginare quanto era successo.
Liberò Sarah Taverner, quindi indicò Janine Leblanc. “Deve andare subito in ospedale! Anzi, forse sarebbe meglio una clinica privata, opportunamente discreta. Ne conosce qualcuna?”
Sarah lo fissò, perplessa. “Sì, ma perché? E lei chi è? E Marcus?”
“Per l’appunto.”, rispose Dieter. “Sarebbe meglio che nessuno venga a sapere quello che è accaduto qui. Io appartengo alla polizia tedesca. Coraggio: mi aiuti a trasportare quella poveretta. Necessita di cure urgenti.”

Il teatro è stracolmo, il pubblico entusiasta.
Il nuovo cd di Sarah Taverner ha raggiunto il primo posto in tutte le classifiche; è un disco stupendo, e lo merita. Vincerà sicuramente un Grammy Award, e forse più d’uno. Sarah è in forma smagliante: durante il concerto ha dato tutta se stessa, è riuscita a commuovere, a incantare, a sedurre.
Seduta in platea, Janine Leblanc la osserva rapita. Sarah è diventata ancora più brava, ha raggiunto vertici assoluti.
Dopo aver eseguito I love Janine, annuncia un ultimo brano. E’ la canzone che apre il nuovo disco. Sarah non ha mai composto nulla di così straordinario, si dice Janine, pensando a quanto sia bello amarla ed essere da lei riamata. Ormai ha dimenticato le frustate: davvero poca cosa rispetto a ciò che era successo a Berlino. Il suo rapporto con Sarah è tornato quello di un tempo, come quella giornata magica di Bellagio. Sarah si sta rivolgendo al pubblico. Janine la ascolta con attenzione.
“Questa è la storia di una ragazza buona e coraggiosa.” La voce di Sarah si incrina per un attimo. Poi il momento passa. “Si chiamava Elke. A lei è dedicato questo album.”

I LOVE JANINE
GRAZIE PER AVER LETTO QUESTA STORIA

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I LOVE JANINE 21

Elke6Per un momento Marcus parve non badare a ciò che aveva fatto Sarah.
Probabilmente stava eiaculando, pensò lei con una smorfia risentita. Era incredibile che un uomo potesse eccitarsi assistendo a una scena di violenza: in lui malvagità e perversione viaggiavano di pari passo. La cantante si rialzò, meditando di saltargli addosso, ma il pensiero della pistola la frenò.
Poi, però, Marcus si scosse. Si avvicinò alla donna e la colpì con un violento manrovescio. Sarah finì a terra.
In quell’attimo suonarono alla porta.
Marcus esitò. A quell’ora non aspettava nessuno, tuttavia non era affatto infrequente che un suo cliente si precipitasse da lui senza preavviso. In quei casi Marcus si comportava con arroganza, si faceva supplicare e intascava il doppio di quanto avrebbe guadagnato in circostanze normali.
Indeciso, valutò la situazione. Guardò Janine: gli sembrava svenuta. Se avesse legato e imbavagliato Taverner, avrebbe potuto andare ad aprire senza problemi. Sarebbe stato sciocco rinunciare alla possibilità di un lauto guadagno.
Ormai aveva goduto e il gioco era finito. Momentaneamente, si corresse. Quando si fosse sentito nuovamente eccitato, avrebbe violentato Sarah e quello sarebbe stato il culmine.
Aprì un cassetto e prese una corda. Ne aprì un secondo e ne trasse un paio di calze. Gliele ficcò in bocca, dopodiché si occupò dei polsi e delle caviglie.
Lanciò un’altra occhiata a Janine.
Poi uscì dalla camera.

Elke si girò e guardò impietrita Hans Schweinsteiger.
L’uomo le rivolse un sorriso crudele. “Non tollero che non si mantengano i patti. Noi avevamo un accordo preciso che tu non hai rispettato.”
Elke lo fissò senza ribattere. Gli aveva già spiegato le sue motivazioni: cosa poteva aggiungere? Il suo pensiero corse a Dieter. Se fosse stato lì, l’avrebbe protetta. Cercò di calcolare fra quanto sarebbe arrivato, ma non avevano un appuntamento preciso; dipendeva dai suoi impegni. Poteva essere fra un’ora o magari fra due o anche più tardi. Se fosse riuscita a tenere a bada Hans finché lui non fosse sopraggiunto, avrebbe potuto cavarsela. Sapeva, infatti, che Schweinsteiger non era venuto da lei per parlare – lo avevano già fatto in negozio -, ma per punirla e sospettava che avesse in mente qualcosa di atroce, anche se non immaginava di che genere di castigo si trattasse. L’avrebbe picchiata? Era disposta a subire. L’avrebbe sfregiata? Questo non sarebbe riuscita a sopportarlo. L’avrebbe uccisa? Forse no, si disse per farsi coraggio, però era letteralmente terrorizzata.
Doveva trovare un modo per guadagnare tempo. Se fosse riuscita a trattenerlo con qualche scusa fino a quando non fosse giunto Dieter…
Ma era paralizzata dal panico e non aveva il barlume di un’idea.
A un tratto ebbe un’intuizione.
Avrebbe potuto offrirsi a lui.
Non era un’idea intelligente. Hans la considerava ancora una prostituta, perciò non sarebbe stato particolarmente attratto da una notte di sesso con una delle tante puttane di Berlino. Avrebbe potuto averne a iosa. E non era solo quello; concedendosi a lui, avrebbe tradito Dieter. Non si sarebbe mai perdonata, avrebbe perso per sempre il rispetto di se stessa, non si sarebbe dimostrata migliore di Hans Schweinsteiger.
Avrebbe acquistato l’eroina. Ecco: quella era la soluzione migliore, forse l’unica.
Tuttavia, negli ultimi giorni aveva fatto fronte a molte spese e non pensava di avere il denaro sufficiente per pagarlo. Stabilì di bluffare. “D’accordo.”, dichiarò. “Mi sono comportata male, però ho deciso di rimediare: acquisterò la droga.”
Gli occhi gialli la fissavano, attenti. “Hai i soldi?”
“Sì.”, mentì Elke.
“Se sali in casa, te li darò.”
Entrarono nel monolocale e lei lo invitò ad accomodarsi. Hans rimase in piedi. “Vuoi bere qualcosa?”, gli domandò Elke.
“Voglio ciò che mi è dovuto.”, replicò lui.
Elke finse di frugare in un cassetto. Poi si voltò. L’abitazione era ben riscaldata, ma non era per quello che sudava. Si sforzò di assumere un’espressione convincente. Si batté una mano sulla fronte. “Che sciocca!”, esclamò. “Mi ero dimenticata di avergli prestati a Karin. Però siamo fortunati. Mi ha garantito che me li avrebbe resi proprio questa sera. Basterà pazientare un poco. Al massimo, un’ora.” Sarebbe stata sufficiente un’ora?
Hans mosse un passo verso di lei e la schiaffeggiò. “Mi credi un idiota? Non esiste nessuna Karin, e tu stai cercando di prenderti gioco di me.” La schiaffeggiò ancora, strappandole un grido di dolore. Scosse la testa. “Così non va bene, Elke!”
“Ti assicuro che Karin esiste e che sarà qui a momenti. Perché dovrei mentirti?”
Hans fece una risata priva di allegria. “Semplice: perché sei una troia, e le troie sono abituate a mentire.”
“Posso giurare che…”
“Non mi interessano i tuoi falsi giuramenti.” Rifletté per qualche istante, quindi disse: “Ma si dà il caso che questa sera io mi senta buono. Come sai, sto per lasciare la Germania, e ho deciso di perdonarti, dato che non ci vedremo mai più. Farò di meglio, anzi: ci sarà un dono d’addio per te. Talvolta anche Hans Schweinsteiger sa mostrarsi generoso. E’ la tua serata fortunata, Elke. Siediti.”
Lei obbedì, chiedendosi insospettita che cosa avesse in mente. Non credeva minimamente a quell’improvvisa generosità. Lo conosceva come un uomo duro e spietato, certamente non incline a perdonare né a elargire regali.
Lo scrutò, ansiosa.
Hans tirò fuori una siringa. “Sarà gratis per te.”, annunciò con un sorriso maligno.
Elke rabbrividì.
“Coraggio, dammi il braccio.”
“No.”
“Non avevi detto che l’avresti comprata? E allora perché rifiuti il mio dono?”
Elke trovò una risposta pronta. “La compro per non venir meno a un impegno, non per assumerla.”
Hans la osservò, divertito. “Hai molta fantasia. Però, io sono più intelligente di te. Come puoi illuderti di fregarmi giocando con le parole?”
Si avvicinò a lei. “Il braccio!”
Ti prego, Dieter, arriva!, pensò lei disperata.

Dieter Haller guidava rilassato, con calma. Era soddisfatto perché quel giorno aveva risolto un caso importante e si sentiva felice perché Elke lo stava aspettando. Aveva trovato il tempo per prenderle un piccolo gioiello, nulla di impegnativo, ma era certo che l’avrebbe resa contenta.
Pregustava la serata. Avrebbero parlato, forse ci sarebbe stata una torta da mangiare, le avrebbe consegnato il pacchettino elegantemente confezionato, si sarebbero baciati, poi avrebbero fatto l’amore.
Dieter era freddo, ma Elke era riuscita in parte a scalfire la sua corazza; lo aveva come scaldato, nello stesso modo in cui un camino una volta acceso diffonde il proprio calore in un’abitazione da tempo disabitata. E quell’abitazione all’improvviso cambia aspetto, diventando un luogo confortevole, un piacevole rifugio, e non più un luogo desolato.
Dieter riteneva di poter tranquillamente fare a meno dell’amore; questo, tuttavia, non significava che amare non fosse bello. E ormai era sicuro di amare Elke. A volte si poneva ancora delle domande su come avrebbero affrontato il futuro, ma poi le scacciava.
Quello che contava era il loro amore.
Benché lui l’avesse aiutata, Elke era riemersa dal baratro principalmente grazie al suo coraggio, alla fede nella vita, alla determinazione di cui aveva dato prova. Se lui non l’avesse stimata, non avrebbe potuto amarla. E comunque anche lei lo aveva aiutato. Da quando la conosceva si sentiva diverso. Se n’erano accorti perfino alla centrale: non che fosse diventato esattamente gioviale, però era meno cupo e intransigente.
Guardò l’orologio luminoso della Bmw. Era in anticipo. Lei lo avrebbe accolto con gioia.
Sorrise.
E in quel momento il camion gli piombò addosso.

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I love Janine 20“Tu sei pazzo!”, esclamò Sarah.
“E’ possibile.”, ammise Marcus con un sorriso divertito. “Ma questo non modifica affatto la situazione. I casi sono due: o farai strillare per bene Leblanc oppure lei morirà. E non sto scherzando, te lo assicuro. Ho già ammazzato molte persone e una in più non farà alcuna differenza.”
Sarah lo fissò attonita. Quell’uomo era veramente un malato di mente. Forse lei e Janine avrebbero potuto aggredirlo. In due contro uno avevano delle possibilità: entrambe erano giovani e in superba condizione fisica. A frenarla furono gli inquietanti occhi gialli… gli occhi di una belva feroce, pensò con un brivido. Comunque, non avrebbe mai frustato Janine: era fuori questione. Esitò per un attimo, quindi gli assestò una forte spinta. Non lo spostò di un centimetro.
“Ti spedirò in galera!”, gridò, poi si rivolse a Janine: “Andiamocene, tesoro.”
Marcus tirò fuori una pistola da una tasca della giacca e la puntò su Janine. “La ucciderò. Puoi scommetterci tutto quello che vuoi. Ma, se eseguirai i miei ordini, potrà uscire da questa casa illesa.” Rise. “Beh, non precisamente illesa, però viva. E’ questo che conta, no?”
A Sarah Marcus era parso un uomo infido, però intelligente. Possibile che non si rendesse conto che, non appena fossero uscite da lì, lo avrebbero denunciato? Evidentemente era afflitto da mania di onnipotenza o magari contava sul fatto che lei avrebbe lasciato perdere, a causa dei suoi trascorsi. Nel suo album trattava esplicitamente temi legati alla droga, ma un conto era il testo di una canzone, altro ammettere davanti a un poliziotto di averla assunta. Però, se questo era il suo ragionamento, era sbagliato.
Janine tremava. “Forse sarebbe meglio fare come dice.”
Sarah la guardò, incredula. D’altro canto, quali alternative avevano? Rimpianse di aver accettato l’invito di quel folle, ma come avrebbe potuto immaginare un simile delirio? Mitigò il tono della voce. “Sii ragionevole, ti prego.”
Marcus aggrottò la fronte. “Sto per perdere la pazienza.”
Dal soggiorno, assolutamente incongrue, provenivano le note di I love Janine. Sarah fece un sorriso amaro al pensiero che quel disco parlava d’amore.
A malincuore, disse: “E se la frustassi, dopo ci lasceresti andare?”
“Lo giuro.”
Sarah non era ancora convinta.
Poi vide che Marcus incominciava a premere il grilletto.
“D’accordo! D’accordo. Ma metti via quell’arma, per favore.”
Marcus fissò i suoi occhi gialli su di lei. “Stai molto attenta. Ora rimetto in tasca la pistola, ma mi bastano tre secondi per estrarla di nuovo e spararle.”
“Ma perché? Cosa ti ho fatto?” Janine era terrorizzata.
Lui la ignorò e guardò invece Sarah. “Sei una donna vigorosa.”, affermò esaminandola con attenzione. “Perciò da te mi aspetto delle scudisciate altrettanto vigorose. Non provare nemmeno a pensare di fare la furba, me ne accorgerei subito e le conseguenze sarebbero tragiche. Bene, signore: adesso seguitemi.”
Le guidò in una camera da letto arredata in modo moderno, in linea con il soggiorno. Marcus guardò Janine. “Spogliati.”, disse. “Puoi tenere reggiseno e slip. Tutto il resto via.”
Janine era pallida come uno straccio. Obbedì meccanicamente. Nonostante i suoi trascorsi sportivi il dolore fisico la spaventava; inoltre temeva che Marcus non mantenesse i patti. Mentre si toglieva gli indumenti, ripeté a se stessa la domanda che gli aveva posto inutilmente: cosa aveva fatto di male? Niente! E allora perché avrebbe dovuto subire quel supplizio? Non trovò una risposta.
Quando si fu svestita, Marcus le indicò il letto. Era a due piazze, posto in fondo alla stanza, di fronte a un armadio a muro. Le lenzuola dovevano essere state cambiate di recente: emanavano un profumo gradevole ed erano stirate perfettamente. “Stenditi.” Janine obbedì, mettendosi a pancia in giù. Marcus le legò i polsi alla testiera, quindi consegnò la frusta a Sarah. “Procedi.”
Sarah fissò lo scudiscio, angosciata. Sebbene sapesse di non avere scelta, tutto il suo essere si ribellava all’idea di fare del male a Janine. Era un corpo che amava, che in lei evocava piacere, passione, dolcezza: come avrebbe potuto straziarlo? E in seguito questo non avrebbe forse influito sui loro rapporti? Sarebbe stata come un’ombra cupa destinata ad aleggiare per sempre fra loro. Un ricordo disgustoso, impossibile da cancellare.
Marcus si portò vicino al letto. “Cinquanta frustate.”, specificò. “Le prime trenta sulla schiena, le altre sulle gambe.”
“Ma così morirà!”, protestò Sarah esterrefatta.
“Non credo.”, ribatté lui. “E una donna atletica. E comunque se le merita tutte! Ad ogni modo, l’alternativa è una morte certa. Forza, comincia!”
Sarah scosse la testa, stolidamente. “Non posso. Non ci riesco.” Lasciò cadere la frusta.
“Raccoglila immediatamente!”, sibilò Marcus.
“Ti prego, Sarie, fai quello che ti dice.” Janine capiva il suo conflitto interiore, ma non esistevano alternative: doveva frustarla.
Sarah si chinò e riprese lo scudiscio. Lo saggiò, flettendolo nell’aria, poi vibrò la prima frustata. Fu talmente debole che Janine non emise il minimo gemito.
Marcus parlò con voce gelida. “Ascoltami bene, Taverner: se la seconda frustata sarà simile a questa, interromperò il nostro gioco. A quel punto, sai bene cosa succederà.”
Sarah lo fissò con odio. “Sei una schifosa carogna!”.
L’uomo non si degnò di ribattere.
Sarah calò con forza la frusta.
Janine urlò.

Dieter Haller si era procurato una pistola a Soho. Era una vecchia Browning nove millimetri e l’aveva pagata il doppio di quanto valeva. In ogni caso, andava più che bene.
Raggiunse lo stabile a piedi. Imbruniva e si stavano accendendo le prime luci. Dieter si strinse nel cappotto; spirava un forte vento di tramontana.
Fece per aprire la porta, ma era chiusa.
Per entrare occorreva possedere la chiave oppure suonare al citofono.
Esaminò i nomi degli inquilini e provò con una certa signora Thompson. Nessuno rispose. Passò a Valance con lo stesso esito. Al terzo tentativo, il signor Graeves gli domandò cosa voleva. L’inglese di Dieter era buono, tuttavia l’accento era inconfondibilmente tedesco.
Graeves non aveva un buon carattere. Lo mandò al diavolo.
Dieter perse la pazienza.
Si guardò attorno e vide che in quel momento non c’era nessuno.
Forzò la serratura ed entrò.
Salì a piedi, fermandosi a ogni piano per controllare le targhette. Sapeva che non doveva cercare Hans Schweinsteiger, bensì Marcus Thomas. Sapeva molte altre cose. Quando Hans Schweinsteiger aveva lasciato la Germania, si era inizialmente recato in Austria, quindi in Italia e infine in Francia. Poi era sembrato svanire nel nulla, come un fantasma.
Se Dieter avesse potuto occuparsene a tempo pieno e in via uficiale non avrebbe avuto problemi a trovarlo. Ma era costretto a indagare durante le ore libere dal lavoro, che con il progredire della carriera erano sempre meno, e senza alcun aiuto da parte dei colleghi. Era una faccenda privata che riguardava lui solo. Per questo aveva perso le sue tracce a Cannes, dove Hans probabilmente aveva ucciso quattro balordi.
Due anni dopo, però, un vecchio amico che apparteneva a Scotland Yard lo aveva informato che Hans si era trasferito a Londra e che prosperava negli affari.
Dieter aveva atteso altri due anni, poi si era preso una vacanza.
E adesso era soltanto questione di minuti.

Alla quinta scudisciata Janine desiderò ardentemente di perdere i sensi. Si morse la lingua per non implorare pietà. Era una situazione grottesca e paradossale. Sarah la stava frustando contro la sua volontà e lei non poteva supplicarla di smettere perché, se ciò fosse avvenuto, sarebbe morta. Le due sferzate successive furono meno forti, ma Marcus se ne avvide e dichiarò che quello era il suo ultimo avvertimento.
L’ottava le sembrò di una violenza inaudita. Janine incominciò a pensare che, in un caso o nell’altro, non sarebbe sopravvissuta. Cinquanta frustate assestate con forza potevano uccidere una persona, e lei stava già impazzendo per il dolore.
Cercò invano di estraniarsi, di portare la mente altrove, lontana dal corpo. Stando a quanto affermava uno scrittore di cui non ricordava il nome, era un buon metodo per ignorare la sofferenza: peccato che funzionasse soltanto nei romanzi d’avventura. A ogni nuova frustata il dolore diventava sempre più devastante. Si sentì soffocare dal panico.
Alla dodicesima, non riuscì più a trattenersi. “Sarie, ti prego, basta! Non ce la faccio più. Preferisco morire.”
Sarah si fermò. La tentazione di gettare la frusta era fortissima, ma sarebbe stato un grave errore. Lanciò un’occhiata a Marcus e quello che vide la disgustò. Era visibilmente eccitato. Aveva una mano nei pantaloni, probabilmente si stava masturbando. Distolse lo sguardo e sfogò la sua rabbia imprimendo tutta la potenza fisica che aveva nella nuova scudisciata. Era come se in quel momento non ragionasse più.
L’urlo disperato di Janine le straziò il cuore.
Si accasciò sui talloni, incapace di proseguire.

Elke era uscita dal negozio ansiosa di incontrare Dieter. Da un lato, era ancora spaventata perché sapeva che l’uomo dagli occhi gialli era spietato, e lei aveva osato sfidarlo; da quell’altro, desiderava essere baciata, accarezzata, amata. Si sarebbero visti dopo cena. Aveva preparato una torta per lui. L’avrebbero mangiata, avrebbero chiacchierato allegramente, tenendosi per mano, e poi sarebbero andati a letto assieme. Non vedeva l’ora.
Mentre camminava, diretta a casa, decise di non parlargli dell’incontro di quella mattina. In fondo, era una sciocca a preoccuparsi. Dieter aveva già molti problemi, infiniti casi da risolvere, era inutile angustiarlo. Hans Schweinsteiger non le aveva forse detto che stava per lasciare la Germania? Sicuramente aveva già venduto quella partita di droga, perciò non avrebbe più pensato a lei.
Scacciò dalla mente Hans per riportare la sua attenzione su Dieter. Elke non aveva mai amato prima di allora e, malgrado fosse di indole fredda, anche lui la amava. Le piaceva fantasticare, immaginando stupendi scenari che contemplavano una graziosa casetta provvista di un bel giardino, lei, Dieter e due bambini, un maschietto e una femminuccia. E poco importava se sarebbero rimasti solo sogni; ciò che contava era il presente che la vedeva felice. E poi perché porre limiti ai propri desideri? Una sera Dieter aveva fatto vaghi accenni al loro futuro, pertanto era possibile che le sue aspettative si avverassero.
Non nevicava più e anche la pioggia aveva smesso di cadere, però le strade erano tutte bagnate. Elke camminava in fretta, dato che faceva molto freddo.
Arrivò davanti al portone e frugò nella borsetta per cercare la chiave.
La infilò nella serratura.
Entrò nell’atrio.
Una mano si posò sulle sue spalle.
Il viso di Elke si illuminò di gioia. Dieter le aveva fatto una sorpresa ed era arrivato in anticipo. Non c’era granché in frigorifero, si disse preoccupata. Beh, se la sarebbe cavata con un buon piatto di salsicce e patate. Senza contare la torta.
“Buona sera, fraulein.”
Ma quella voce non apparteneva a Dieter.

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I LOVE JANINE 19

Sarah e JanineNon c’era niente di male ad andare da Marcus per ascoltare quello che aveva da dire… beh, per la verità sì, ma Janine provava anche come un senso di pericolo, una strana premonizione; tuttavia, stupendola, Sarah aveva acconsentito a vederlo.
Janine pensava che fosse ingenua. In realtà, Sarah era mossa dalla curiosità. “Al massimo ci faremo quattro risate.”, disse, prima di sedersi al pianoforte. Da un paio di giorni stava lavorando con grande impegno; aveva già composto quattro nuove canzoni, che a giudizio di Janine erano superbe.
Ma a parte questo, i rapporti fra le due donne erano strani: si comportavano con cautela, erano eccessivamente gentili – mai l’ombra di un litigio, nemmeno un piccolo litigio -, le loro conversazioni si mantenevano sempre sul vago. E a letto c’era molto freddezza. Janine riteneva che fosse dovuta a lei, dato che non l’aveva ancora perdonata completamente e perciò faticava ad eccitarsi. Probabilmente Sarah lo avvertiva, sicché la freddezza era reciproca. Janine sperava che tutto tornasse come un tempo, però temeva che questo non sarebbe stato possibile. In tal caso, alla fine una delle due avrebbe lasciato l’altra. O, forse, avrebbero troncato la relazione di comune accordo.
Sarebbe stato molto triste.
Si vestirono elegantemente. Sarah Taverner indossava un abito di Oscar de la Renta e una preziosa collana Swarovski. Janine Leblanc un miniabito stretch, color rosa con la mezza manica e alcune decorazioni di applicazioni in tono.
Due pellicce ecologiche le proteggevano dal freddo.
Dopo l’incontro con Marcus, infatti, sarebbero andate a cenare alle Les Trois Garçons in Club Row. Era uno dei ristoranti più esclusivi di Londra, e valeva ampiamente i soldi che avrebbero speso. Era stata un’idea di Sarah.
Probabilmente per la cantante quella cena aveva un valore simbolico, rifletté Janine: un nuovo inizio o qualcosa di simile.
Marcus le accolse con un largo sorriso che Leblanc giudicò indisponente. Le invitò ad accomodarsi sul divano e inserì nel lettore I love Janine.
Offrì loro un drink, poi si scusò ed entrò in un’altra stanza.
Dopo pochi istanti ricomparve.
Fra le mani cingeva una frusta.
Le due donne lo guardarono allibite.
“Questo appartamento è insonorizzato.”, disse Marcus con aria soddisfatta. “Nessuno sentirà le urla di Leblanc.”
Sarah scattò in piedi, rossa in viso per la collera.
“Cosa credi di poter fare?!”
Lui rise. “Io? Io non farò proprio niente! Perché sarai a tu a frustare Janine.”

“Ho portato ciò che mi avevi chiesto.”, dichiarò l’uomo.
Elke lo fissò. Presa dall’entusiasmo per la sua nuova vita e dal pensiero di Dieter che costantemente la accompagnava, aveva finito per scordarsi di avergli fatto una consistente ordinazione. In quel periodo, a Berlino era molto difficile trovare roba buona, dato che la polizia vigilava con grande attenzione. Nell’ultimo mese molti spacciatori erano stati arrestati.
Per quello gli aveva domandato una partita più grossa del solito. In questo modo non avrebbe corso il rischio di trovarsi senza droga.
Ma adesso la situazione era cambiata.
Le era addirittura rimasta dell’eroina che peraltro era finita nel water.
“Non mi serve più.”, disse. “Ho deciso di smettere. Ho già smesso, in effetti.”
L’uomo non cambiò espressione. Con calma, replicò: “Ho corso parecchi rischi per accontentarti. Presto lascerò la Germania, perché qui non tira aria buona. Di conseguenza avrei potuto infischiarmene, però io mantengo sempre i miei impegni. Ti avevo garantito un buon rifornimento e ho tenuto fede alla promessa.”
Elke scosse il capo. “Ti ho già detto che non mi serve più.”
“Beh, le cose non sono così semplici: primo, devi pagarmi la fornitura; secondo, devi tenerti la roba. Per me è troppo pericoloso andare in giro con tutta questa eroina. Ho saputo dal mio contatto che sospettano di me. Ecco perché devo svignarmela al più presto, e a mani vuote.”
Elke si augurava che entrassero dei clienti, oppure il proprietario del negozio, in maniera da por fine a quello sgradevole colloquio; ma era una mattinata gelida, la pioggia si stava trasformando in neve e chi non era al lavoro preferiva starsene rintanato in casa. Sbirciò fuori della vetrina e difatti non scorse anima viva. L’uomo non aveva tutti i torti, però era anche vero che avrebbe potuto vendere quella partita senza troppe difficoltà. L’intuito le suggeriva che si divertiva a tormentarla. In questo era decisamente simile a Erna e a molti altri individui che agivano per soddisfare il proprio sadismo.
Disse: “Mi dispiace. Mi sento in colpa con te, tuttavia non cambierò decisione. Voglio diventare pulita, e restare tale.”
L’uomo sogghignò. “Lo dicono tutti e poi…” Si guardò attorno. “Bel posticino.”, commentò. “In ogni caso, tornando a noi, non so cosa farmene delle tue scuse. Ho qui la roba: devi pagarmi e prenderla. Fra l’altro, nel giro di pochi giorni rimpiangeresti amaramente di non averla, e per un bel po’ di tempo non troverai facilmente un altro fornitore.”
“Mi dispiace.”, ripeté Elke, cercando di mantenere un’aria impassibile, sebbene avesse paura. Aveva sentito dire che quell’uomo aveva ucciso una persona: era malvagio e privo di scrupoli. Ma Dieter, pensò, l’avrebbe protetta. Si sforzò di controllare il tremito della voce. “Il mio no è definitivo. Sono sicura che, viste le circostanze, troverai un altro cliente prima di sera.”
“Non intendo uscire da qui con l’eroina. Sarebbe troppo rischioso.”
“E’ il lavoro che ti sei scelto.”, disse Elke con una punta di irritazione per la sua insistenza. Lo temeva, ma non era disposta a cedere. Se avesse avuto fra le mani quella polvere magica, forse non sarebbe riuscita a trattenersi. E avrebbe perso Dieter. Lui non l’avrebbe perdonata, ne era certa. “E adesso ti prego di lasciarmi. Non cambierò idea.”
Sulle labbra dell’uomo riaffiorò il sorriso gelido. “Ma davvero?”, disse.
Quindi, uscì dal negozio, accostando piano la porta dietro di sé.

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I LOVE JANINE 18

Elke “Vedi”, continuò Marcus, “tutte le persone che acquistarono Sgt. Pepper ricordano perfettamente ancora oggi l’esatto momento in cui lo ascoltarono per la prima volta, e questo è un fatto veramente senza precedenti: non era mai accaduto prima e non è più successo dopo. Il disco, poi, è invecchiato male, tanto che adesso si tende a considerare Revolver il loro miglior album; ciò, tuttavia, non sminuisce quella magia che si impossessò di milioni di ragazzi sparsi in tutto il mondo. Questo perché le sonorità, gli arrangiamenti, le innovazioni presenti in quel disco erano incredibilmente nuovi, al punto da far apparire obsoleti tutti i lavori prodotti in precedenza.”
Janine lo fissava annoiata, chiedendosi dove intendesse andare a parare. Non vedeva alcun nesso fra lei, Sarah, Marcus e quella specie di reperto archeologico. Distolse lo sguardo per osservare una coppia che sedeva accanto a loro. Un modo, forse poco elegante, per fargli capire che non era minimamente interessata ai Beatles. Poi guardò ostentatamente l’orologio.
Marcus le lanciò un’occhiata velenosa. Quando Sarah l’avrebbe frustata, avrebbe perso quell’aria di superiorità. Si immaginò la scena, che non si discostava molto dall’idea iniziale: Janine avrebbe urlato, contorcendosi sul letto, avrebbe dimenato le lunghe gambe, invano avrebbe pianto e supplicato. Era il castigo che meritava, e forse era addirittura più eccitante dell’incontro sessuale a tre, anche perché Marcus si rendeva conto di aver ecceduto in ottimismo: non sarebbe stato facile persuadere le due donne a fare l’amore davanti ai suoi occhi, e successivamente con lui.
Però, sarebbe stato facilissimo costringere Sarah Taverner a far soffrire Janine Leblanc.
“Veniamo al dunque.”, disse, cercando di riconquistare l’attenzione della donna. “Sebbene i generi musicali siano assai differenti, analogamente a Sgt. Pepper, I love Janine presenta straordinarie innovazioni: apre nuove porte sul modo di concepire l’incontro fra il folk e il jazz, ma pochi lo hanno compreso. Io so come rilanciare quell’opera prodigiosa. E se Sarah mi darà ascolto, diventerà la numero uno e non soltanto dell’Inghilterra.”
Janine adesso era incuriosita. Marcus era un millantatore, pensò, però le sarebbe piaciuto sapere quali idee aveva escogitato, posto naturalmente che non si fosse inventato tutto per qualche oscuro motivo.
“Cosa hai in mente?”, gli chiese.
Marcus le rivolse un freddo sorriso. “Lo saprai se e quando convincerai Sarah a venire da me. Ovviamente in tua compagnia.”
Assunse un’espressione compiaciuta, da cui trapelavano arroganza e vanità.
“Riferiscile quanto ti ho detto.”, concluse. “Poi starà a lei decidere. In fondo, non le costerebbe nulla: solo un po’ di tempo perso, qualora io avessi torto; ma dato che invece ho ragione, grazie a me, raggiungerà vette talmente alte che nemmeno nei suoi sogni più sfrenati avrebbe osato immaginare.”
Si alzò per andare a pagare le consumazioni.
Janine lo scrutava perplessa.

Dieter non aveva riportato gravi danni.
La pugnalata non era stata inferta con particolare forza e il poliziotto era stato protetto anche dal pesante cappotto che indossava. Forse se lo avessero aggredito d’estate le cose sarebbero andate molto peggio.
Elke si prese cura di lui.
Era felice. Dieter aveva cambiato definitivamente la sua vita. Inoltre, ormai era sicura che lui la amasse.
Il particolare del preservativo, o meglio: del suo mancato uso, rappresentava già una prova estremamente significativa, ma non era l’unica. La maniera in cui la guardava, i sorrisi, benché rari, che le dedicava, le attenzioni che le riservava, il fatto che per lei avesse affrontato Dolf e soprattutto l’intuito femminile le davano tale certezza.
Quella notte non fecero l’amore. Rimasero abbracciati sul divano. Parlarono poco. Dieter per natura era un uomo piuttosto taciturno, Elke non voleva rompere quel silenzio condiviso che non scaturiva dalla difficoltà di rapportarsi: al contrario, era come se cementasse la loro unione. Elke riempiva quel silenzio. Sogni. Aspettative. Serenità. Forse era troppo audace, si disse: considerando il suo passato, difficilmente Dieter l’avrebbe sposata. Non perché gli mancasse la volontà per farlo, ma per via della sua posizione. Però, non era detto, e comunque a lei andava bene così. Si sentiva protetta, al riparo dalle brutture del mondo, brutture che conosceva fin troppo bene; al sicuro da uomini come Dolf.
Prima di scivolare nel sonno, un interrogativo si insinuò fra i suoi pensieri. Dieter pensava ancora a Sonngard? Era più che probabile. Ma il punto più importante era un altro: la rimpiangeva? Se un uomo viveva nel rimpianto, alla fine ne diventava schiavo, e questo non era in carattere con Dieter, pertanto lo escluse.
Si addormentò fra le sue braccia e, dopo molti anni, tornò a sognare suo padre.
Dieter rimase sveglio a lungo. Era sempre così dopo un’azione in cui aveva messo a repentaglio la propria vita: non per il timore, in lui pressoché inesistente, ma a causa dell’adrenalina.
Elke si era assopita con la luce accesa. Dieter la osservò. Aveva un’espressione serena; forse stava facendo un bel sogno. Il poliziotto si chiese cosa provava per lei. Dopo aver perso Sonngard aveva giurato a se stesso che non avrebbe più avuto un’altra donna, e infatti negli ultimi anni al massimo si era concesso qualche esperienza sessuale, senza alcun coinvolgimento emotivo.
Elke era una tossica e una prostituta.
Lo era stata, si corresse.
In ogni caso, avrebbe dovuto biasimarla e disprezzarla; invece, in un certo senso la ammirava: era forte e coraggiosa. Se aveva delle crisi di astinenza, e Dieter pensava di sì, non lo dava comunque a vedere. Rappresentava un caso più unico che raro: si sarebbe riabilitata. Anzi, era già su quella strada.
La amava?
Corrugò la fronte, mentre cercava di chiarire i suoi sentimenti. Provava una grande tenerezza per lei. Gli piaceva fisicamente. Le accarezzò piano i capelli; Elke si mosse nel sonno.
Sì. La amava.
Se l’avesse sposata, quasi sicuramente sarebbe stato costretto a dimettersi. Era una prospettiva inaccettabile. Però, avrebbe potuto continuare a frequentarla. E con il tempo, chissà, forse le cose sarebbero mutate. Un giorno il fascicolo che la riguardava magari sarebbe scomparso e allora…
Questo avrebbe significato infrangere la legge, ma al riguardo la posizione di Dieter era elastica: i suoi interrogatori non sempre si svolgevano in modo ortodosso, soprattutto se aveva a che fare con un assassino. D’altro canto, il suo dovere era quello di assicurare alla giustizia i delinquenti; alla fine, era l’unica cosa che contava. E i criminali non meritano pietà.
Chiuse gli occhi e aspettò che giungesse il sonno.
L’indomani Elke si svegliò sola. Dieter era andato al lavoro. Fece la doccia, consumò una colazione leggera e uscì per recarsi al negozio. Le piaceva molto quella nuova occupazione e si applicava con grande impegno. Era gentile con i clienti, abile nel consigliare gli indecisi, paziente con gli scorbutici, sempre pronta al sorriso. Non badava agli orari e, sebbene avesse appena cominciato, il proprietario sembrava soddisfatto di lei.
Quando entrò l’uomo, erano circa le undici e in quel momento il negozio era vuoto.
Nel vederlo, Elke impallidì.
Al pari di Dolf le ricordava il periodo più tenebroso della sua vita; ora se lo era lasciato alle spalle: tuttavia rabbrividiva ancora quando pensava che avrebbe potuto perdersi per sempre. Ne era già uscita una volta, ma in prigione Erna l’aveva costretta a ricominciare. Adesso, però, si sentiva molto più forte.
Ciononostante, la presenza di quell’uomo era sinistra, come il gelido sorriso che le rivolse.

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