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Archive for marzo 2013

I love Janine 20“Tu sei pazzo!”, esclamò Sarah.
“E’ possibile.”, ammise Marcus con un sorriso divertito. “Ma questo non modifica affatto la situazione. I casi sono due: o farai strillare per bene Leblanc oppure lei morirà. E non sto scherzando, te lo assicuro. Ho già ammazzato molte persone e una in più non farà alcuna differenza.”
Sarah lo fissò attonita. Quell’uomo era veramente un malato di mente. Forse lei e Janine avrebbero potuto aggredirlo. In due contro uno avevano delle possibilità: entrambe erano giovani e in superba condizione fisica. A frenarla furono gli inquietanti occhi gialli… gli occhi di una belva feroce, pensò con un brivido. Comunque, non avrebbe mai frustato Janine: era fuori questione. Esitò per un attimo, quindi gli assestò una forte spinta. Non lo spostò di un centimetro.
“Ti spedirò in galera!”, gridò, poi si rivolse a Janine: “Andiamocene, tesoro.”
Marcus tirò fuori una pistola da una tasca della giacca e la puntò su Janine. “La ucciderò. Puoi scommetterci tutto quello che vuoi. Ma, se eseguirai i miei ordini, potrà uscire da questa casa illesa.” Rise. “Beh, non precisamente illesa, però viva. E’ questo che conta, no?”
A Sarah Marcus era parso un uomo infido, però intelligente. Possibile che non si rendesse conto che, non appena fossero uscite da lì, lo avrebbero denunciato? Evidentemente era afflitto da mania di onnipotenza o magari contava sul fatto che lei avrebbe lasciato perdere, a causa dei suoi trascorsi. Nel suo album trattava esplicitamente temi legati alla droga, ma un conto era il testo di una canzone, altro ammettere davanti a un poliziotto di averla assunta. Però, se questo era il suo ragionamento, era sbagliato.
Janine tremava. “Forse sarebbe meglio fare come dice.”
Sarah la guardò, incredula. D’altro canto, quali alternative avevano? Rimpianse di aver accettato l’invito di quel folle, ma come avrebbe potuto immaginare un simile delirio? Mitigò il tono della voce. “Sii ragionevole, ti prego.”
Marcus aggrottò la fronte. “Sto per perdere la pazienza.”
Dal soggiorno, assolutamente incongrue, provenivano le note di I love Janine. Sarah fece un sorriso amaro al pensiero che quel disco parlava d’amore.
A malincuore, disse: “E se la frustassi, dopo ci lasceresti andare?”
“Lo giuro.”
Sarah non era ancora convinta.
Poi vide che Marcus incominciava a premere il grilletto.
“D’accordo! D’accordo. Ma metti via quell’arma, per favore.”
Marcus fissò i suoi occhi gialli su di lei. “Stai molto attenta. Ora rimetto in tasca la pistola, ma mi bastano tre secondi per estrarla di nuovo e spararle.”
“Ma perché? Cosa ti ho fatto?” Janine era terrorizzata.
Lui la ignorò e guardò invece Sarah. “Sei una donna vigorosa.”, affermò esaminandola con attenzione. “Perciò da te mi aspetto delle scudisciate altrettanto vigorose. Non provare nemmeno a pensare di fare la furba, me ne accorgerei subito e le conseguenze sarebbero tragiche. Bene, signore: adesso seguitemi.”
Le guidò in una camera da letto arredata in modo moderno, in linea con il soggiorno. Marcus guardò Janine. “Spogliati.”, disse. “Puoi tenere reggiseno e slip. Tutto il resto via.”
Janine era pallida come uno straccio. Obbedì meccanicamente. Nonostante i suoi trascorsi sportivi il dolore fisico la spaventava; inoltre temeva che Marcus non mantenesse i patti. Mentre si toglieva gli indumenti, ripeté a se stessa la domanda che gli aveva posto inutilmente: cosa aveva fatto di male? Niente! E allora perché avrebbe dovuto subire quel supplizio? Non trovò una risposta.
Quando si fu svestita, Marcus le indicò il letto. Era a due piazze, posto in fondo alla stanza, di fronte a un armadio a muro. Le lenzuola dovevano essere state cambiate di recente: emanavano un profumo gradevole ed erano stirate perfettamente. “Stenditi.” Janine obbedì, mettendosi a pancia in giù. Marcus le legò i polsi alla testiera, quindi consegnò la frusta a Sarah. “Procedi.”
Sarah fissò lo scudiscio, angosciata. Sebbene sapesse di non avere scelta, tutto il suo essere si ribellava all’idea di fare del male a Janine. Era un corpo che amava, che in lei evocava piacere, passione, dolcezza: come avrebbe potuto straziarlo? E in seguito questo non avrebbe forse influito sui loro rapporti? Sarebbe stata come un’ombra cupa destinata ad aleggiare per sempre fra loro. Un ricordo disgustoso, impossibile da cancellare.
Marcus si portò vicino al letto. “Cinquanta frustate.”, specificò. “Le prime trenta sulla schiena, le altre sulle gambe.”
“Ma così morirà!”, protestò Sarah esterrefatta.
“Non credo.”, ribatté lui. “E una donna atletica. E comunque se le merita tutte! Ad ogni modo, l’alternativa è una morte certa. Forza, comincia!”
Sarah scosse la testa, stolidamente. “Non posso. Non ci riesco.” Lasciò cadere la frusta.
“Raccoglila immediatamente!”, sibilò Marcus.
“Ti prego, Sarie, fai quello che ti dice.” Janine capiva il suo conflitto interiore, ma non esistevano alternative: doveva frustarla.
Sarah si chinò e riprese lo scudiscio. Lo saggiò, flettendolo nell’aria, poi vibrò la prima frustata. Fu talmente debole che Janine non emise il minimo gemito.
Marcus parlò con voce gelida. “Ascoltami bene, Taverner: se la seconda frustata sarà simile a questa, interromperò il nostro gioco. A quel punto, sai bene cosa succederà.”
Sarah lo fissò con odio. “Sei una schifosa carogna!”.
L’uomo non si degnò di ribattere.
Sarah calò con forza la frusta.
Janine urlò.

Dieter Haller si era procurato una pistola a Soho. Era una vecchia Browning nove millimetri e l’aveva pagata il doppio di quanto valeva. In ogni caso, andava più che bene.
Raggiunse lo stabile a piedi. Imbruniva e si stavano accendendo le prime luci. Dieter si strinse nel cappotto; spirava un forte vento di tramontana.
Fece per aprire la porta, ma era chiusa.
Per entrare occorreva possedere la chiave oppure suonare al citofono.
Esaminò i nomi degli inquilini e provò con una certa signora Thompson. Nessuno rispose. Passò a Valance con lo stesso esito. Al terzo tentativo, il signor Graeves gli domandò cosa voleva. L’inglese di Dieter era buono, tuttavia l’accento era inconfondibilmente tedesco.
Graeves non aveva un buon carattere. Lo mandò al diavolo.
Dieter perse la pazienza.
Si guardò attorno e vide che in quel momento non c’era nessuno.
Forzò la serratura ed entrò.
Salì a piedi, fermandosi a ogni piano per controllare le targhette. Sapeva che non doveva cercare Hans Schweinsteiger, bensì Marcus Thomas. Sapeva molte altre cose. Quando Hans Schweinsteiger aveva lasciato la Germania, si era inizialmente recato in Austria, quindi in Italia e infine in Francia. Poi era sembrato svanire nel nulla, come un fantasma.
Se Dieter avesse potuto occuparsene a tempo pieno e in via uficiale non avrebbe avuto problemi a trovarlo. Ma era costretto a indagare durante le ore libere dal lavoro, che con il progredire della carriera erano sempre meno, e senza alcun aiuto da parte dei colleghi. Era una faccenda privata che riguardava lui solo. Per questo aveva perso le sue tracce a Cannes, dove Hans probabilmente aveva ucciso quattro balordi.
Due anni dopo, però, un vecchio amico che apparteneva a Scotland Yard lo aveva informato che Hans si era trasferito a Londra e che prosperava negli affari.
Dieter aveva atteso altri due anni, poi si era preso una vacanza.
E adesso era soltanto questione di minuti.

Alla quinta scudisciata Janine desiderò ardentemente di perdere i sensi. Si morse la lingua per non implorare pietà. Era una situazione grottesca e paradossale. Sarah la stava frustando contro la sua volontà e lei non poteva supplicarla di smettere perché, se ciò fosse avvenuto, sarebbe morta. Le due sferzate successive furono meno forti, ma Marcus se ne avvide e dichiarò che quello era il suo ultimo avvertimento.
L’ottava le sembrò di una violenza inaudita. Janine incominciò a pensare che, in un caso o nell’altro, non sarebbe sopravvissuta. Cinquanta frustate assestate con forza potevano uccidere una persona, e lei stava già impazzendo per il dolore.
Cercò invano di estraniarsi, di portare la mente altrove, lontana dal corpo. Stando a quanto affermava uno scrittore di cui non ricordava il nome, era un buon metodo per ignorare la sofferenza: peccato che funzionasse soltanto nei romanzi d’avventura. A ogni nuova frustata il dolore diventava sempre più devastante. Si sentì soffocare dal panico.
Alla dodicesima, non riuscì più a trattenersi. “Sarie, ti prego, basta! Non ce la faccio più. Preferisco morire.”
Sarah si fermò. La tentazione di gettare la frusta era fortissima, ma sarebbe stato un grave errore. Lanciò un’occhiata a Marcus e quello che vide la disgustò. Era visibilmente eccitato. Aveva una mano nei pantaloni, probabilmente si stava masturbando. Distolse lo sguardo e sfogò la sua rabbia imprimendo tutta la potenza fisica che aveva nella nuova scudisciata. Era come se in quel momento non ragionasse più.
L’urlo disperato di Janine le straziò il cuore.
Si accasciò sui talloni, incapace di proseguire.

Elke era uscita dal negozio ansiosa di incontrare Dieter. Da un lato, era ancora spaventata perché sapeva che l’uomo dagli occhi gialli era spietato, e lei aveva osato sfidarlo; da quell’altro, desiderava essere baciata, accarezzata, amata. Si sarebbero visti dopo cena. Aveva preparato una torta per lui. L’avrebbero mangiata, avrebbero chiacchierato allegramente, tenendosi per mano, e poi sarebbero andati a letto assieme. Non vedeva l’ora.
Mentre camminava, diretta a casa, decise di non parlargli dell’incontro di quella mattina. In fondo, era una sciocca a preoccuparsi. Dieter aveva già molti problemi, infiniti casi da risolvere, era inutile angustiarlo. Hans Schweinsteiger non le aveva forse detto che stava per lasciare la Germania? Sicuramente aveva già venduto quella partita di droga, perciò non avrebbe più pensato a lei.
Scacciò dalla mente Hans per riportare la sua attenzione su Dieter. Elke non aveva mai amato prima di allora e, malgrado fosse di indole fredda, anche lui la amava. Le piaceva fantasticare, immaginando stupendi scenari che contemplavano una graziosa casetta provvista di un bel giardino, lei, Dieter e due bambini, un maschietto e una femminuccia. E poco importava se sarebbero rimasti solo sogni; ciò che contava era il presente che la vedeva felice. E poi perché porre limiti ai propri desideri? Una sera Dieter aveva fatto vaghi accenni al loro futuro, pertanto era possibile che le sue aspettative si avverassero.
Non nevicava più e anche la pioggia aveva smesso di cadere, però le strade erano tutte bagnate. Elke camminava in fretta, dato che faceva molto freddo.
Arrivò davanti al portone e frugò nella borsetta per cercare la chiave.
La infilò nella serratura.
Entrò nell’atrio.
Una mano si posò sulle sue spalle.
Il viso di Elke si illuminò di gioia. Dieter le aveva fatto una sorpresa ed era arrivato in anticipo. Non c’era granché in frigorifero, si disse preoccupata. Beh, se la sarebbe cavata con un buon piatto di salsicce e patate. Senza contare la torta.
“Buona sera, fraulein.”
Ma quella voce non apparteneva a Dieter.

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Maggiore Miloslav PomarevMiloslav Pomarev avrebbe ucciso lo starets con grande piacere.
Lo fermarono una serie di considerazioni, la più importante delle quali era legata a quello che sarebbe successo entro pochi giorni. Una consistente parte della popolazione russa amava Gorbaciov, e una parte altrettanto numerosa era attratta dal misticismo e dai dogmi della Chiesa ortodossa, di cui lo starets rappresentava un’icona. Non sarebbe stato saggio fomentare gli animi di quella vasta plebe proprio alla vigilia del cambiamento. Se fossero insorti disordini, Kryuchkov si sarebbe infuriato.
Si voltò per condurre le due donne alla Lubjanka e impallidì per la collera.
Nadiya e Monica Squire si erano volatilizzate.
Pomarev fulminò con lo sguardo il suo sottoposto. Era furibondo, ma riuscì a rimanere freddo e a reagire con lucidità. Inseguirle non sarebbe servito a niente. Potevano essere andate ovunque. Per un momento, pensò di utilizzare tutte le potenti risorse del Gruppo Alpha. Poi decise che non era necessario. Mentre lo starets Zosima improvvisava una breve predica, tornò alla Lubjanka, salì in macchina e si recò a Yazenevo, dove aveva buone conoscenze.
Consegnò i suoi documenti e attese con pazienza. Fu questione di pochi minuti.
Quando ebbe fra le mani il dossier che riguardava il tenente Nadiya Nicolajevna Drosdova, lo studiò a lungo, imprimendosi ogni particolare nella memoria. Andare a casa sua sarebbe stato inutile: Nadiya era una traditrice, ma non una sciocca. Però, esistevano altri due luoghi dove avrebbe potuto trovarla. Nel KGB i fascicoli relativi agli agenti – e agli uomini politici, e agli oppositori – erano molto esaustivi. Contenevano una quantità di informazioni, che avrebbero fatto la gioia di CIA e FBI. Venivano riportati, fra l’altro, stato di servizio, missioni portate a termine con successo, eventuali note di biasimo, profilo psicologico, studi fatti, password del computer con annesse tutte le e-mail inviate e ricevute nonché i siti più esplorati, altezza, peso, numero di scarpe, sport praticati.
Il quadro che emergeva era ampiamente positivo. Pomarev apprese che il tenente Drosdova aveva un elevato quoziente intellettivo, che era una comunista convinta e che le sue superbe condizioni fisiche ricordavano quelle di un’atleta olimpionica. Eccelleva soprattutto nello judo e nella scherma. Il dossier accennava al fatto che Nadiya amava infliggere dolore. Per la prima direzione centrale era un fattore irrilevante. Altri particolari riguardavano abitudini, letture, vizi, liquori preferiti, svaghi prediletti, frequentazioni.
Pomarev si soffermò su quest’ultima voce.
C’erano due nomi, entrambi con relativo indirizzo. Erano segnalati come “probabili amanti”.
Un uomo e una donna. Quindi, era bisessuale, e questo spiegava molte cose. In cuor suo, biasimò gli estensori del rapporto per non aver inserito tale perversione dove andava messa: nei vizi. Era tipico dei compagni della prima direzione centrale del KGB. Operando prevalentemente all’estero, erano stati contaminati dal decadentismo borghese.
Quale dei due?, si domandò Pomarev.
A rigore di logica, la donna andava esclusa. La presenza di Squire avrebbe potuto provocare tensione e scatenare scenate di gelosia.
Il maggiore del Gruppo Alpha restituì il voluminoso fascicolo.
Il suo istinto gli suggeriva di ignorare la logica.
E fu quello che fece.
Si mosse la sera successiva: prima aveva dovuto sbrigare una mole di lavoro immensa.
Altri ne sarebbero venuti fuori a pezzi. Non lui.

Il signor William Weber, di antiche origini tedesche ma cittadino britannico fino alla punta dei capelli, ricevette la strana telefonata proveniente da Londra, mentre si apprestava a uscire dall’ambasciata inglese per andare a cena.
Weber ascoltò attentamente, corrugò la fronte ed emise un lungo sospiro. Poi si chiese se la sua linea era veramente protetta e chiuse la comunicazione, promettendo che avrebbe fatto quanto era in suo potere, il che non era molto, pensò.
Un’ora più tardi, salì su un fuoristrada perfettamente attrezzato e lasciò l’imponente edificio che sorge sul lungofiume Sofiskaja. Come sempre, una Chaika lo seguì. Weber guidò con calma attraverso le strade pressoché deserte di Mosca, ma a un tratto frenò così bruscamente che la Chaika per un pelo non lo tamponò.
Weber scese dal fuoristrada e si avvicinò alla macchina. I due occupanti fingevano di non guardarlo, ciò nonostante non poterono ignorare la sua testa che si affacciò all’interno della vettura attraverso il finestrino dell’uomo che stava al volante. A causa dell’afa, naturalmente il vetro era abbassato.
Weber sapeva chi erano loro, e loro sapevano chi era Weber. Nei sei anni della sua permanenza nella capitale sovietica, lo avevano pedinato innumerevoli volte, e in qualche occasione si erano anche parlati, sebbene in teoria questo fosse proibito.
“Si dà il caso che io sia atteso da una donna fantastica.”, disse Weber esprimendosi in un russo impeccabile.” Notò che erano interessati e proseguì: “Lunghi capelli biondi, occhi blu come il mare, un viso d’angelo e il temperamento di una divoratrice di uomini. Tornate all’ambasciata, per cortesia.” Allungò una mano e lasciò cadere in grembo all’agente della seconda direzione centrale una busta rigonfia. Non conteneva valuta russa.
Seguì un momento di incertezza, poi l’uomo controllò il contenuto della busta. Con una luce avida nello sguardo, che Weber non poté vedere per via dell’oscurità ormai incombente, rifilò una gomitata al compare. Un attimo dopo, la Chaika fece manovra e tornò da dove era venuta.
William Weber, ufficialmente addetto culturale ma in realtà agente del MI6, chiamato in modo più corretto anche SIS (Secret Intelligence Service, il servizio segreto del Regno Unito destinato alle operazioni all’estero), risalì sul potente fuoristrada e si diresse verso Kharkiv. Era un viaggio che avrebbe evitato volentieri. Disponendo della copertura diplomatica, non correva alcun rischio, però, se lo avessero fermato, avrebbe dovuto spiegare il motivo che lo aveva allontanato da Mosca. Dato che non esistevano scuse plausibili, lo avrebbero scortato fino alla Lubjanka, dove gli avrebbero rivolto domande sgradevoli. Se le risposte fossero piaciute, sarebbe rimasto ancora in Unione Sovietica; in caso contrario, lo avrebbero rispedito in patria. E a Vauxhall Cross non lo avrebbero certo applaudito.
D’altro canto, se era vero ciò che per sommi capi gli era stato comunicato, si trattava di una questione estremamente seria.
Il Segretario di Stato americano, James Baker, aveva conferito personalmente con John Major, il quale si era messo subito in contatto con “C”, al secolo Sir Colin McColl (da sempre, i direttori del SIS sono chiamati con quella lettera dell’alfabeto, anche se Ian Fleming nei romanzi di James Bond l’aveva mutata in “M”. Entrambe le sigle derivano da Sir George Mansfield Smith-Cumming, il primo leggendario direttore che si firmava sempre con tale semplice consonante). Major aveva preso il posto della lady di ferro – soprannome coniato in Urss – e manteneva gli stessi ottimi rapporti con l’alleato d’oltre oceano.
Baker era stato informato dal capo della CIA, il quale a sua volta aveva appreso la notizia da Patrick Keynes, il responsabile del settore sovietico, che era stato contattato da una fonte sconosciuta a Weber. Considerato che il suo compito era principalmente quello di tenere gli occhi aperti per poi informare tempestivamente i vertici del MI6, Weber si sarebbe aspettato di essere redarguito; invece nulla di tutto questo era avvenuto: benché l’intelligence degli Stati Uniti, per una volta, si fosse dimostrata più abile del SIS, a William era stato chiesto solo di recarsi in Ucraina, dove un agente della CIA e un colonnello del KGB erano stati assaliti da alcuni delinquenti che si erano presi il loro fuoristrada
Dopodiché avrebbe dovuto portarli in Crimea.
Weber era abituato a obbedire agli ordini e a svolgere il proprio dovere, in qualsiasi circostanza e a dispetto di ogni pericolo. Non aveva frequentato scuole esclusive ed era venuto dalla gavetta, cioé dall’esercito. Era entrato a far parte del SIS nove anni prima, dopo aver partecipato alla guerra delle  Falkland, guadagnandosi una medaglia. Sua moglie, Jill, aveva manifestato il proprio disappunto chiedendo il divorzio. Era una donna di natura malinconica, non sopportava le lunghe assenze del marito e non capiva perché  non si fosse scelto un impiego più normale. Weber era andato avanti per la sua strada, anche se sognava Jill una notte su due.
Affrontò il lungo tragitto con scarso entusiasmo, ma determinato ad accompagnare la singolare coppia fino alla dacia di Foros.

Quando Sasha lo aveva chiamato, Vadimir Putin si era trovato di fronte a un dilemma. Sasha gli aveva riferito che nei pressi di Kharkiv erano incappati in un gruppo di banditi armati di AK-47. Non volevano denaro e non si erano dimostrati violenti; il loro unico interesse era costituito dalla UAZ 469b. Rimasti senza mezzo di trasporto, era seguito un diverbio. L’Amerikanskiy voleva proseguire. Sasha no. Era tornato a Mosca, sfruttando le sue conoscenze locali. Prima che se ne andasse, Yarbes gli aveva dato un numero di telefono, una parola d’ordine e un nome, raccomandandosi che usasse una linea sicura. Adesso Sasha non sapeva cosa fare.
“Niente.”, disse Putin, prendendo mentalmente nota delle tre informazioni. Poi riagganciò. Rifletté a lungo. Il suo piano era riuscito perfettamente, tuttavia non aveva previsto che Yarbes fosse così ostinato nel voler raggiungere la Crimea a ogni costo. Secondo i suoi calcoli, sarebbe dovuto tornare a Mosca con Sasha.
L’intransigenza dell’agente della CIA creava un problema, che poi era sempre lo stesso. Putin vedeva di buon occhio la caduta di Gorbaciov, ma un giorno, che si augurava non dovesse essere troppo lontano, avrebbe avuto un disperato bisogno dell’America. Quando finalmente fosse diventato il nuovo zar, avrebbe rilanciato l’economia, modernizzato il Paese, eliminata ogni forma di opposizione. Per conseguire tali risultati gli sarebbero occorsi saldi appoggi. E chi meglio degli Stati Uniti?
Gli americani erano strani, ma generosi. Prima distruggevano una nazione, radendone al suolo le città – Giappone, Germania, Italia -, poi sganciavano miliardi di dollari per favorire la ricostruzione… e per esportare sigarette, Coca-Cola, hamburger e tutto quello che la loro ricca industria produceva. Putin desiderava la loro amicizia. E soprattutto i loro soldi. Per questo, si ripeté, era importante che Yarbes facesse il suo nome nel rapporto che avrebbe presentato alle massime autorità di Langley. E per questo era necessario che tornasse in patria sano e salvo.
Di lì a breve, ci furono due telefonate.
La prima in Virginia. La seconda in Crimea.
Mancavano quattro giorni al golpe.

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