Out of the Blue
Into the Black
La nuova riunione era stata fissata per l’indomani sera (nel caso di Vale, per quella sera). L’unico che aveva notizie concrete da portare era Berisha: l’incontro con la “megera svizzera” e ciò che lei gli aveva rivelato. La prima a presentarsi al solito bar fu Paola. In lei convivevano due stati d’animo diversi e opposti. La paura dell’ignoto, degli abissi spettrali del Male, di Randall Flagg; e la gioia dovuta al fatto che stava per rivedere il cavaliere errante.
Nelle ultime notti non aveva sognato l’Uomo Nero o, forse, saggiamente il suo cervello si rifiutava di ricordarlo. Quando entrò nel locale erano le 20.00 precise, secondo l’orologio del campanile.
Cinque minuti dopo fu la volta di Berisha. Aveva pensato di arrivare in anticipo perché intendeva mangiare un sandwich con calma, ma lungo la strada era stato raggiunto da Neil Young e dall’eccidio di Travnik, la consueta doppia visione, tranne che in questa c’era qualcosa di diverso, di impalpabilmente diverso, come fumo trasparente. Una sfumatura, difficile da mettere a fuoco.
Aidan giunse in leggero ritardo, d’altronde veniva da Lecco e, sebbene fosse in moto, poteva essere incappato in qualche rallentamento. Camion, lavori in corso, un paio di idioti in posizione strategica. Qualsiasi fosse la ragione del ritardo, era comunque di umore cupo. Paola fu la prima ad accorgersene. Berisha meditava ancora su quella differenza, sentiva che era importante. Peccato che non potesse coglierla.
Quando, buon ultimo, Vale entrò tutto trafelato, Aidan aspettò che si sedesse prima di lanciargli un’occhiata severa. Si rivolse a Berisha. “Non voglio che vada a casa da solo. Poi, lo accompagni tu?”
“Non c’è problema.”
“Bene. Veniamo a noi.”
Berisha alzò una mano. “Ho delle novità da riferire.”, dichiarò.
“Ti ascolto.”
Li ragguagliò sul conto della vecchia, riportando per filo e per segno ogni parola che lei gli aveva detto, compresa l’ubicazione del rifugio di Flagg. Se pensava di sorprenderli, rimase deluso. Aidan lo sapeva già. Aveva aspettato solamente il momento più adatto per agire. Così disse.
“Non credo che sia una donna veramente cattiva.”, osservò il giovane. “Non del tutto, almeno: era angosciata e non fingeva, ne sono certo.”
“Quindi andrà in paradiso.”, commentò, asciutto, Aidan. Paola lo guardò con aria interrogativa. Le sembrava sarcastico. O magari il termine giusto era caustico? Era la prima volta che le faceva questa impressione.
“Questa notte morirà.” Aidan consultò l’orologio. “Sempre che non sia già accaduto. Il Nemico è pronto, più di quanto lo sia mai stato. I suoi servi sono in movimento. Le tenebre gli appartengono, ma poi torneranno sole e luce. Ora, Lui dispone di vasti poteri, poteri grazie ai quali può dominare uomini e animali, corvi, lupi, cani selvatici; può entrare nei sogni; forse può addirittura comandare gli elementi della natura, scatenare tempeste: può tutto questo; ma non è invincibile.”
Si interruppe mentre la cameriera raccoglieva le ordinazioni.
In realtà, Aidan era furibondo con se stesso.
La Visione inviatagli dall’Uomo Nero lo aveva sconvolto a tal punto da farlo precipitare in uno stato di assoluta abulia. Aveva trascorso ore e ore seduto sulla stessa panchina del lungolago di Lecco, incapace di reagire, mentre il ricordo di Giulia ingigantiva dentro di lui come una nube che si allarga fino a occupare tutto il cielo. Se si fosse mosso, anziché crogiolarsi nel dolore, avrebbe potuto salvare la vecchia svizzera. Ciò lo fece infuriare ancora di più.
Contrariamente a quanto all’inizio aveva pensato, ora si rendeva conto che la diminuzione dei suoi poteri non era dovuta a loro, bensì al torpore da cui era stato imprigionato, alla mancanza di una reazione, all’atteggiamento da perdente. Era facile che adesso il suo mentore lo disprezzasse. Oh, sapeva ancora predicare bene, lo aveva appena dimostrato; però i fatti erano più importanti dei sermoni pomposi. In sostanza, una vittoria di Randall Flagg sarebbe equivalsa a una triste ammissione: che la sua fede nel Male superava quella di Aidan nel Bene.
Richiamato dal rumore, indirizzò uno sguardo torvo a una compagnia di ragazzi, maschi e femmine. Erano accampati a un tavolo vicino, chiassosi e scomposti, convinti che quello fosse un modo normale di comportarsi. Paola prese nota anche di questo, chiedendosi cosa gli passasse per la testa. Niente di buono, concluse fra sé. Le sarebbe tanto piaciuto abbracciarlo e confortarlo. Vaste programme! La cameriera tornò con un assortimento di bevande e un caffè per Aidan; pretese di essere pagata subito. Richiesta comprensibile, considerata la clientela.
Aidan mise mano al portafoglio. Intanto, i suoi occhi guardavano lontano.
Dall’altra parte delle montagne, a Consonno, Flagg aveva cambiato dimora, installandosi nella casa più alta del paese fantasma. Da lì poteva spaziare con lo sguardo su tutto il territorio circostante. Stava nell’ultima camera, in cima a una torretta, e in quella stanza due giorni prima aveva convocato Stradilasi.
Benché fosse investito da un gelido terrore ogni qualvolta lo vedeva, l’ex maestro elementare non si sarebbe mai sognato di ignorare tali inviti. Sapeva fin troppo bene cosa era successo a Luca Barbenni, il tutto a causa di una semplice disobbedienza. Si presentò, trepidante, in attesa di ordini. Al di là dell’unica, ampia, finestra, ardevano dei fuochi; effetto di suggestione o reali, lo ignorava. Era ancora pomeriggio, ma il sole aveva un aspetto irreale. Emanava una luce pallida, malsana. Da fuori giungeva un odore fortemente sgradevole, lezzo di cadaveri, di corpi decomposti, di morte. La fantasia distorta dal panico che gli suscitava Flagg gli mostrò dei grandi uccelli neri, cavalcati da demoni ghignanti. In alto, chissà dove, celato alla vista, un corvo gracchiava.
Stradilasi formulò due pensieri. Il primo si riferiva a quando era bambino e annusava il profumo del fieno tagliato, del fuoco di legna, della verde campagna rivestita dai mille colori dell’estate. La fragranza dei compagni di scuola che ancora sapevano di latte. All’epoca, un po’ li desiderava, un po’ non capiva quello che provava. Aveva cominciato tardi a masturbarsi, e sempre con le idee un po’ confuse; in una proporzione approssimativa su quattro “sedute” una era riservata alle femminucce, tre ai maschietti.
Il secondo, più propriamente, era un rimpianto. Non rimorso, certo. Però, il rimpianto sì. Se non avesse tentato di sedurre il piccolo Paolo, adesso la sua vita sarebbe stata diversa. Soprattutto, non sarebbe stato costretto a incontrare quell’Essere terribile. Gli aveva salvato la pelle in due distinte occasioni, questo era vero. Solo che entrambe le circostanze erano il frutto del suo peccato originale, Paolo, marmocchio schifoso! Sgombrò la mente da quei ragionamenti nel timore che venissero colti. Non osava ipotizzare le conseguenze. Meglio soprassedere e limitarsi ad ascoltare, da devoto seguace.
In un angolo della lugubre camera, accanto al camino spento, una bambola lo fissava con occhi vacui; era priva di gambe. Poi Stradilasi si accorse che era soltanto un occhio che lo scrutava, poiché l’altro giaceva sul pavimento, simile a una biglia giunta a fine corsa. Distolse lo sguardo, sentendosi sempre più a disagio, un disagio che confinava con il più abietto terrore.
Flagg irradiava una tetra soddisfazione. Non lo invitò a sedersi e gli disse ciò che avrebbe dovuto fare. Il compito poteva anche essere gradevole – anzi, di sicuro lo era -; quello che, però, alimentava ancor più la sua paura era il convincimento che dal giorno in cui lo aveva conosciuto i poteri dell’Uomo Nero erano cresciuti in maniera esponenziale: avrebbe potuto allungare le mani e prendersi Lurago, Anzano, Montorfano, giù, giù, fino a Como, e poi oltre… il lago, i monti della Valtellina. Ma per qualche misteriosa ragione, al momento sembrava accontentarsi di Inverigo.
Non per la prima volta gli palesò l’idea che Randall Flagg lo considerasse un povero imbecille, al pari dell’altro imbecille dato in pasto a un corvo. Poco male. Gli bastava essere il suo discepolo. In mancanza di meglio – un’esistenza magari squallida, però normale, scuola, lezioni, mamme credulone – era pur sempre un punto d’arrivo. Per lui aveva ucciso una donna, d’accordo un’inutile mentecatta… rappresentava comunque un punto di partenza. Obbedire, ecco la parola magica. Cieca, fedele obbedienza, la ricetta per non essere completamente atterrito. Negli ultimi tempi una forma strisciante di paranoia aveva preso possesso del suo cervello, se ne rendeva vagamente conto, benché questo non mutasse la sostanza delle cose.
Accolse con sollievo il congedo del Padrone e scivolò fuori, predisponendo piani e tranelli.
Mentre si allontanava, un’altra persona lo sostituì al cospetto di Flagg. Si chiamava Bob (non Roberto, Bob e basta), era alto un metro e novanta per circa novantacinque chili di peso; indossava pantaloni sformati, stretti alla caviglia, una maglietta verde acido, recante la scritta “Succhialo, golosona!”, e portava un cappello nero, reduce da tempi migliori. Faceva il buttafuori in un equivoco night della zona e amava il suo lavoro.
Era pazzo da legare.
Lucia Forni arrivò a Consonno due ore più tardi, quando Bob se n’era già andato da almeno venti minuti.
Era una follia, se ne rendeva perfettamente conto, ma era felice per aver trovato il coraggio di compierla, superando così la linea di demarcazione che intercorre tra un sogno destinato a restare tale, nella valle delle occasioni perdute, una valle più frequentata di quanto si creda, e la volontà di correre un rischio che avrebbe potuto significare, in caso positivo, il coronamento di un desiderio finora inappagato.
Quale rischio, poi? Non riuscire a rintracciarlo? Possibile. Il risultato sarebbe stato un viaggio a vuoto, sai che tragedia! Che lui si mostrasse infastidito? Plausibile. Ma valeva lo stesso ragionamento. Era consapevole di non essere esattamente una bellezza, però non era nemmeno brutta, e piaceva a molti ragazzi. Purtroppo affogavano tutti nella più vuota banalità. Mentre l’uomo che cercava era… era un uomo, anche se un uomo alquanto strano. Forse anche questo l’aveva colpita. Era stata la mattina di ieri, in un bar di Olginate. Lui era entrato con un grosso blocco per appunti sottobraccio, si era seduto a un tavolino libero e aveva ordinato un caffè doppio (che non aveva bevuto). Con i jeans sdruciti, un giubbotto estivo e gli stivali scalcagnati ricordava il protagonista di una serie tv ambientata nel Texas. Senza essere Tom Cruise, era indubbiamente un tipo attraente. Nel senso di affascinante, piuttosto che a livello fisico. Ammaliava.
Aveva cominciato a scrivere. Solo che era privo di una penna, di una matita, di un pennarello. Sconcertata, Lucia si era accorta che il suo modo di scrivere assomigliava a ciò che aveva visto Mosè, in occasione della trasmissione delle tavole della legge; mancavano soltanto le lingue di fuoco (ricordava bene la scena del film). Lui pensava e le parole apparivano nitide sulla carta, con una grafia quasi elegante, benché non mancassero vari errori di grammatica e di sintassi. Disegnava bene, invece. Dal suo posto lievemente rialzato (lui le dava le spalle) notò i volti di tre persone, una ragazza carina e due uomini, uno piuttosto giovane. Stava stilando una sorta di programma: ogni viso era seguito da frasi che sembravano riguardarlo. Lei preferì non sbirciare oltre.
A un tratto si era girato e i loro sguardi si erano incrociati. Quegli occhi l’avevano fulminata. Pochi attimi, poi era tornato al suo lavoro.
Le era mancata la presenza di spirito per attaccare discorso; in genere non era timida, però nemmeno abituata a prendere l’iniziativa.
Quando era uscito dal bar, lo aveva seguito da lontano, badando a non farsi notare. Lui procedeva a piedi, Lucia era salita sulla vecchia Panda scassata, standogli dietro a distanza di sicurezza. Non era semplice. Avvicinarsi troppo voleva dire rischiare di venire notata. Se si teneva lontana, poteva perderlo di vista. Fu aiutata dalle innumerevoli pellicole di spionaggio che si era sorbita nei sei mesi passati con un certo Danilo, sei mesi gettati al vento. Andava a Consonno. Un fatto singolare, dato che Consonno era diventato un paese morto, il cimitero di un paese. Il villaggio dei mostri, lo chiamava Stefania, amica tanto simpatica quanto paurosa.
Al momento, aveva deciso di lasciar perdere, liquidando la faccenda come un incontro intrigante, destinato a non avere sbocchi; pedinarlo era stato un gioco, forse un modo per ravvivare una giornata altrimenti uguale a tante altre. “Chi convinse Adamo a mangiare la mela?”, amava sostenere suo padre al terzo bicchiere di vino. “Lui non lo avrebbe mai fatto di propria sponte! Curiosità, il tuo nome è femmina.” Ah-ah e la curiosità uccise il gatto, latrò lei in un moto d’ilarità.
Ma quella notte lo aveva sognato. La decisione era nata sotto la doccia, alle sette di mattina. Durante il giorno non era cambiata. Aveva servito i clienti della boutique con la consueta gentilezza; intanto pensava a lui. I francesi avrebbero parlato di coupe de foudre, Lucia non conosceva il francese e non era interessata a trovare una definizione appropriata. Innamoramento, comunque, poteva starci. Aveva rimosso inconsciamente l’inquietante maniera di scrivere dello sconosciuto – tale per adesso era. Pensarci non sarebbe stato di alcuna utilità.
Ciò che ignorava era il fatto di essere l’unica persona al mondo a non avere paura di lui. Lasciò in anticipo il negozio, previa autorizzazione del titolare, e partì, eccitata e ansiosa, a bordo della Panda. L’aspetto di Consonno, di quel luogo desolato, suscitava pensieri sinistri. Stefania avrebbe ululato di paura. Mette i brividi, pensò Lucia, avvertendo un principio di pelle d’oca.
Girò per le strade deserte, guardandosi continuamente attorno. Il crepuscolo ormai aveva ceduto il passo alla notte. Lucia accese i fari. Lì al bar di Olginate aveva fatto scena muta, rifletté in un soprassalto di ottimismo. Se la fortuna l’avesse assistita, ora avrebbe rimediato. Nel frattempo, seguitava a osservare ambo i lati delle vie. Un grosso gatto scomparve dietro a un portone, presumibilmente a caccia di cibo. Infine, in alto, scorse una luce. Proveniva dalla finestra di una torretta. Non le era sembrato di vedere altre luci. Posteggiò l’auto, incamminandosi verso la porta d’ingresso. Pigiò il dito sul campanello, senza alcun risultato: evidentemente non funzionava oppure in paese mancava la corrente elettrica. Allora bussò, dapprima piano, poi con forza. Nel mentre, aguzzava le orecchie.
Dopo un tempo che le parve interminabile, la porta si aprì.