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Deejay Rapper sfogava la sua collera.
Era indirizzata a un palo della luce, colpevole di non rispondere quando gli veniva fatta una domanda. Naturalmente, Rapper era ubriaco fradicio. Il resto del gruppo no. Bevevano fuori del bar, situato quasi al confine con Lurago, ma, almeno per il momento, si erano limitati a due o tre birre. Perciò risultavano sobri, al massimo un po’ allegri.
Quando Rapper si stancò di prendere a calci il palo riattraversò la strada ondeggiando mentre camminava. Indossava un paio di jeans e una maglietta su cui era scritto “All you need is slow”, da non confondere con la canzone dei Beatles. Portava i capelli lunghi, aveva un accenno di barba e gli occhi socchiusi. Fu l’ultimo a vedere, e forse l’unico a non spaventarsi. Anzi: trovò il tutto divertente. Psichedelico. In un fioco barlume di lucidità pensò – a torto – che quello che sembrava apparire nel cielo fosse un’illusione provocata dall’alcool che aveva ingerito. Comunque fosse, era forte.
Gli altri erano sgomenti. Contemplavano sconcertati e impauriti il fascio di luce rossa che tracciava una linea sinistra sulla superficie nera della notte. Loro non potevano imputare tale visione alle birre. Era qualcosa di reale, seppure inverosimile; qualcosa di… di malvagio? “E’ una nave spaziale degli americani!”, disse Marcello, il più giovane della banda e probabilmente il più istruito. Nel tono della voce si avvertiva un tremito. “Oppure un disco volante.”, osservò Gigio, il campione di basket. Di recente avevano dato in televisione un film che trattava proprio quell’argomento, con vasta profusione di effetti speciali (e l’immancabile scorta di pop-corn). “Psichedelico.”, ribatté Rapper, portando alla bocca la lattina di Bavaria e finendola con un ultimo sorso. Quindi, la spedì a far compagnia agli altri barattoli, ai piedi della scalinata che portava al bar. Da lì si affacciò un cameriere per redarguirlo. Deejay Rapper gli mostrò il dito medio.
Allorché l’apparizione scomparve, provarono un senso di sollievo. Non durò a lungo. Il tempo di prendere nota del fallimento di Stradilasi. Poi si mise in azione Bob e la luce rossa tornò, arrivando più in alto di prima. Restò ferma nel cielo, incutendo terrore in tutti quelli che la notarono (e che il mattino dopo l’avrebbero scordata, attribuendola al variegato mondo dei sogni).
Era il segno del trionfo, il simbolo del Potere di Randall Flagg. Il suo occhio era fisso su Inverigo.
E tutto vedeva.

Nel frattempo accaddero quasi simultaneamente due fatti.
Stradilasi, ripresosi, inseguì Vale. Il ragazzino correva veloce come il vento e aveva già guadagnato un certo vantaggio. Inoltre, il buio lo proteggeva. Dal canto suo, l’ex maestro pedofilo era mosso da una rabbiosa determinazione. Non ignorava la punizione che l’Uomo Nero gli avrebbe inflitto in caso di fallimento. Scorse la sagoma di Vale e aumentò la frequenza dei passi. Vale si voltò, solo un attimo per controllare la distanza che lo separava dal pervertito, e inciampò: finì a terra, ma si riprese subito e riprese a correre, però più piano di prima. Ciò diede le ali ai piedi di Stradilasi. Con un moto di gioia si accorse di guadagnare terreno. Forse era la paura a frenare il bambino oppure si era storto una caviglia quando era caduto. Qualsiasi fosse la ragione di quel rallentamento, ormai erano vicinissimi. Si tuffò in avanti per afferrarlo.
Non molto lontano da lì, Aidan balzò giù dalla moto praticamente nello stesso istante in cui la fermava. Non si diede la pena di alzare il cavalletto. Davanti a lui si palesava la visione di una specie di colosso intento a lottare con Paola. Benché la donna combattesse furiosamente, la disparità di forza era eccessiva, e l’energumeno stava prendendo il sopravvento. Ad Aidan parve che si divertisse, come un gatto alle prese con un topo.
Nonostante fosse impegnato nella lotta, Bob si accorse subito della sua presenza. Gli rivolse un ghigno maligno. Non temeva il nuovo venuto, così come non temeva nessuno, Randall Flagg a parte. In qualità di buttafuori aveva picchiato diverse persone, non sempre per dovere, più spesso perché gli piaceva farlo; gli dava un senso di soddisfazione, acuito dal fatto che veniva pagato per questo. Fin da bambino aveva manifestato una natura violenta e con il passare del tempo i suoi impulsi erano cresciuti proporzionalmente al fisico imponente. Era pazzo e, dopo aver conosciuto Flagg, lo era diventato ancora di più. Lasciò andare Paola per avventarsi sullo sconosciuto.
Giunto a meno di un metro di distanza sferrò un potente diretto destro. Aidan si spostò di lato, schivandolo. All’improvviso, come per magia, nelle sue mani comparve il bastone. Bob provò un sinistro che avrebbe demolito un toro. Aidan schivò anche quel pugno. Poi si abbassò, bilanciandosi sulle gambe, e colpì con il bastone. Bob barcollò.
Paola osservava la scena con gli occhi spalancati e il cuore in tumulto. Il “cavaliere errante” l’aveva salvata! Non dubitava che avrebbe abbattuto il gigante. Vide che Aidan attaccava di nuovo e che l’altro non sembrava più in grado di difendersi.
Fu allora che udì un corvo gracchiare.
Alzò lo sguardo al cielo.
Il corvo calò su Aidan come un messaggero di morte.

Non era gioia quello che Lucia provava.
Non era l’estasi dell’amore, né il semplice godimento del sesso. Era una sensazione strana, del tutto inedita, inquietante come il gracchiare del corvo che udiva giungere da lontano. Era come immergere una mano in un secchio di acqua bollente e l’altra in un catino colmo di acqua gelida.
Lo sentiva pulsare dentro di sé, un martello di fuoco e di ghiaccio, un martello inesauribile, quasi fosse azionato da una forza gigantesca, fuori dal tempo e dallo spazio. Avrebbe continuato a colmarla all’infinito, pensava, non avrebbe mai smesso se non quando Lui non fosse stato sazio. Si sentiva trasportata in un mondo di follia e di perdizione, un mondo avulso dalle cose terrene, spettrale e irraggiungibile per tutti, tranne che per lei. Una spirale che portava in alto e in basso, un giro di giostra di quelli che fanno veramente urlare per il terrore.
E non era solo questo. C’era di più, molto di più.
Non era andata a letto con molti ragazzi, quattro era il numero esatto. A volte le era piaciuto, in due occasioni aveva finito per annoiarsi; ma in tutti e quattro quei casi aveva sperimentato sensazioni normali, rassicurata in ciò dalle reciproche confidenze scambiate con le amiche, alla sera in un bar o durante la pausa di mezzogiorno, sotto alla doccia della palestra. Adesso la “normalità” non esisteva proprio. No, davvero. All’inizio le era sembrato di sperimentare qualcosa di molto simile a un felice delirio; soltanto all’inizio, però. Poi aveva assistito a un cambiamento – non avrebbe saputo descrivere meglio quanto era avvenuto. Il volto di Flagg aveva mutato aspetto, più precisamente si era trasformato in una grottesca maschera fluttuante, avvolta da una nebbia verdognola. Lui stava sempre sopra di lei, ne avvertiva il respiro, ma il viso si era come dissolto, infine scomparendo completamente alla vista per riapparire in un altro punto della camera. Staccato dal corpo. Sebbene non ne fosse sicura (di norma, non credeva ai marziani), aveva immaginato di scorgerlo mentre la scrutava beffardo dal soffitto. Si era ricongiunto al corpo e il verso del corvo si era levato stridulo. Le parve che fosse molto vicino, lì, a pochi metri dal letto, all’interno della stanza, nonostante la finestra chiusa.
Quando Randall Flagg si sollevò e iniziò a rivestirsi, Lucia fu raggiunta da una certezza evidente come il sole: lui non era venuto. In quanto a lei, non avrebbe saputo dire se aveva avuto un orgasmo, e in tal caso in che momento. Un fatto singolare, ma così era. Quello che sentiva era da un lato una sensazione di sollievo, di liberazione; dall’altro, una specie di rimorso per non essere riuscita a infiammarlo a sufficienza. In compenso percepiva l’amore germogliare in fondo al cuore, simile a un delizioso sottofondo musicale.
Con un brivido di apprensione si chiese se lui fosse rimasto deluso.
Flagg dissipò i suoi dubbi, rivolgendole un sorriso radioso.
Le accarezzò il viso – il contatto con la sua mano le trasmise una vampata di calore e di freddo, nello stesso tempo. Quindi, le scompaginò i capelli. Il gesto affettuoso, forse inatteso, di sicuro gradito, ebbe il potere di toglierle di dosso definitivamente ansia, ripensamenti e ricordi. Soprattutto questi ultimi. Dimenticò le parole che si formavano sulla carta del blocco per appunti senza che lui le scrivesse, scordò ciò che era passato nella sua mente durante il loro amplesso: le stranezze, la paura, quel viaggio in remote terre oscure. Lo stridulo richiamo del corvo si perse, scivolò via, uscendo dai suoi pensieri.
Poi Flagg estrasse da una tasca del giubbotto un mazzo di chiavi, ne sganciò la più grossa e gliela porse. Lucia lo guardò, incerta. Lui annuì, tornando a sorridere. “La prossima volta ceneremo insieme.”, disse. “Sono un ottimo cuoco, te ne accorgerai. Intanto prendi questa: serve per entrare in questa casa. Ora è tua, come tutto ciò che mi appartiene.” Lucia protese una mano. Tremava, ma lievemente. Al tatto, la chiave era gelida come una lastra di ghiaccio.
“Solo una cosa.”, aggiunse l’Uomo Nero. “Puoi andare dove vuoi, niente ti è precluso. Però, non devi mai entrare in quel corridoio nascosto. E’ la mia unica condizione. Come vedi, nulla di speciale.

A Vale veniva da vomitare.
Dibattersi era inutile. L’uomo che stava abusando di lui era molto più forte. Ugualmente tentava di farlo con risultati assai scarsi. Il maniaco – cos’altro poteva essere? – ansimava eccitato. Naturalmente, il membro del ragazzino rimaneva inerte, floscio come un pallone sgonfio. All’uomo sembrava non importare, considerati i mugolii che accompagnavano i suoi gesti. L’alito sapeva d’aglio, di cibo rancido ingurgitato avidamente. Anche il corpo emanava un odore sgradevole, il fetore di chi non è abituato a lavarsi troppo. I vestiti erano impregnati del medesimo pessimo odore.
In lontananza un cane abbaiava; Vale avrebbe preferito di gran lunga udire la voce di Berisha. Non essendo stupido, non implorava pietà sapendo che sarebbe stato perfettamente inutile. Si era imposto di non strillare. Qualche gemito subito soffocato, niente di più. La luna, lassù in alto, assisteva indifferente; un corvo appollaiato da qualche parte osservava la scena gracchiando.
Quando si ritrovò con i pantaloni abbassati e il sedere esposto all’aria, capì con agghiacciante certezza dove lo sconosciuto voleva arrivare. E reagì, seguendo un impulso atavico. Lo stesso dei suoi lontanissimi antenati.
Lungo i fuochi dei bivacchi, i primi uomini pensanti avevano imparato a difendersi. Il Male esisteva già, benché sotto forme diverse da quelle attuali, ma, almeno al momento, non era quello il nemico. Il vero nemico, in agguato nell’oscurità della notte, era un predatore. Erano animali dotati della sottile perfidia di chi ha fame, belve in attesa di balzare addosso a prede indifese. Forse. Perché alcune di tali prede si erano date un’organizzazione, per quanto approssimativa potesse essere. Erano consapevoli della propria debolezza, e di essa si facevano scudo, avevano appreso che era possibile salvarsi la vita utilizzando ogni più piccola risorsa.
Attraverso i secoli, lo spirito di quella gente primitiva era perdurato… e Vale, protendendo un braccio all’indietro, inarcandosi, contorcendosi, afferrò i testicoli di Stradilasi e strinse. Strinse con tutta la forza che aveva. L’urlo di dolore dell’uomo echeggiò, salendo fino al cielo come un disperato latrato.

Nel frattempo, Randall Flagg colpiva su un altro fronte. Era la notte da lui scelta per una prima resa dei conti. Aveva dispiegato le sue pedine, dando loro tutte le indicazioni necessarie, mentre aspettava la visita di Lucia Forni, due giorni addietro. Di Aidan si sarebbe occupato personalmente. Questo in seguito. Dopo aver riso per il suo sgomento.

Paola uscì dall’abitazione di Milena, dove si era fermata a scambiare quattro chiacchiere con l’amica, e lanciò un’occhiata al cielo stellato. E’ una notte stupenda, pensò. Adoro l’estate per questo. Parlare con Milena l’aveva rasserenata, sottraendola all’angoscia causata dalle ultime novità, la morte della povera vecchia e lo sguardo preoccupato con cui Aidan aveva chiesto a Berisha di “scortare” Vale. Se Van Gogh utilizzava i suoi meravigliosi colori per combattere i propri fantasmi, Paola si avvaleva di metodi più prosaici. A ciascuno il suo.
Con passo tranquillo si avviò verso casa. Alla seconda svolta vide la sagoma di un uomo grande e grosso che veniva avanti nella sua direzione. In quel punto sulla destra c’era una tabaccheria, sul lato sinistro della strada un piccolo supermercato. Ovviamente entrambi erano chiusi. Entro breve tempo, questione di un mese, al massimo due, il supermercato sarebbe rimasto chiuso in via definitiva. Il proprietario aveva lottato per anni contro i grandi centri commerciali decidendo alla fine di gettare la spugna. Dopo trent’anni di attività (all’inizio, l’esercizio si chiamava “consorzio alimentare”), avrebbe trascorso le sue giornate dedicandosi alla caccia e alla pesca, a seconda delle stagioni. Essendo un tipo corpulento (nonché un amico di suo padre), a Paola sembrò di ravvisarlo nella figura massiccia che adesso stava a una trentina di metri da lei. L’illuminazione era scarsa, in quella e in altre zone del paese; inoltre una nuvola aveva momentaneamente oscurato la luna, perciò era difficile distinguere con chiarezza le fisionomie degli eventuali passanti. Nel caso specifico, del passante che le veniva incontro.
Quando si trovò a circa dieci metri da lei, corresse l’impressione iniziale: non era il signor Proserpio, che di lì a breve avrebbe sfoltito la fauna dei boschi circostanti. Si trattava di uno sconosciuto. In base alle esperienze passate, Paola si era fatta la convinzione che le persone provviste di un fisico esuberante avessero in comune un carattere gioviale. Questo valeva per il signor Proserpio, per Salvatore il lattaio, per l’amica Milena. L’elenco era lungo.
Ma non comprendeva Bob.
Ognuno di loro veniva chiamato dagli amici con un soprannome o un diminutivo. Così Milena era Milli, Salvatore Salvo. Persino il signor Proserpio ne possedeva uno, benché riservato agli intimissimi.
Bob era Bob, non Roberto. Semplicemente, Bob.
E non aveva amici.

Alla massima velocità consentita dal mezzo (e ben al di sopra di quanto consentito dalle norme vigenti), Aidan correva nella notte. Passò come un turbine Valmadrera, imboccò la superstrada Lecco-Milano, divorò i chilometri e, presa la deviazione per Arosio, giunse a Inverigo. La moto rombava, come se approvasse quella cavalcata mozzafiato attraverso le colline della Brianza. Sembrava dire: accetto la sfida. In fondo, era stata programmata per questo, sebbene poi i troppi divieti le avessero in un certo senso tarpato le ali. Coraggio, campione! Fai vedere di che pasta sei fatto.
Aidan aveva guidato al limite del possibile, sfiorando l’asfalto ad ogni curva, concentrato unicamente sul percorso da compiere. Le difficoltà maggiori erano dovute agli abbaglianti azionati dagli automobilisti più stupidi. Soprattutto se erano a bordo di mezzi di grossa cilindrata. (Un faro uguale aggravante). Sciabolate di luce che rappresentavano un’estensione del pene, meno inconscia di quanto si potrebbe presumere. Gli stessi automobilisti concedevano la replica anche nelle mattine soleggiate, operazione giustificata dall’esigenza di andare all’edicola distante soltanto duecento metri da casa. Per fortuna, la moto aveva tenuto splendidamente.
Era incappato in un ingorgo sulla vecchia statale dei Giovi, nel tratto che dall’uscita della superstrada torna indietro in direzione di Inverigo, situato più a nord. Avrebbe potuto evitarlo, scegliendo un itinerario diverso. Costeggiare le montagne sulla Lecco-Como e poi tagliare verso ovest; ma quella stessa sera era stato rallentato da un incidente proprio in riva al laghetto di Pusiano, nel centro dell’abitato. La terza alternativa – uscire dalla superstrada a uno svincolo precedente – non sarebbe stata malvagia, a patto di conoscerla. Esistevano pure dei sentieri nascosti che una moto avrebbe agevolmente percorso, noti solamente a chi abitava nei paraggi. In circostanze differenti, con uno stato d’animo sereno, al “cavaliere errante” sarebbe piaciuto esplorare quei luoghi perché erano quanto di più simile ci fosse alla Contea degli hobbit. Una cappella votiva, immersa nella vegetazione, sembrava voler proteggere i viandanti. Dal crocicchio dov’era stata edificata si dipanavano quattro piste che scomparivano nel bosco. Un’altra volta magari Aidan si sarebbe recato lì: da bambino ci sguazzava, nei boschi. Un qualunque portatile gli avrebbe suggerito la rotta migliore. E se non è possibile cercare ciò che non si conosce, è altrettanto vero che questa regola non si applica ai depositari della magia. Allo stato presente, comunque, aveva la mente occupata da altri problemi. Non c’era spazio neppure per il dolore alla gamba, nonostante l’ottusa pervicacia con la quale riaffiorava nei momenti meno indicati.
Il motivo dell’assembramento, proprio a un passo dal traguardo, era la presenza di due ragazze slave in abiti succinti (in realtà erano due uomini) che attiravano sfaccendati e viziosi. Aidan aveva frenato l’impazienza e finalmente si era sganciato.
Se c’era una sola possibilità di salvare Vale, l’avrebbe colta. Tuttavia, quando transitò di fronte al municipio, davanti ai suoi occhi l’immagine di Paola subentrò a quella del ragazzino, come in un singolare gioco di ruoli.
Vale si era tirato fuori dai guai, ma Paola era in pericolo. Un energumeno stava per violentarla, dopodiché l’avrebbe uccisa.
Aidan doveva impedirlo.

AQUALUNG

Per questo post vale lo stesso discorso già fatto per Il Pupazzo di Neve, con un’unica differenza: che Aqualung è stato da me riproposto varie volte, dato che lo considero uno dei miei migliori racconti – o uno dei meno peggiori, se preferite. Con molta franchezza aggiungerò solo che, soprattutto sulla piattaforma Splinder, venne anche aspramente criticato, a causa del tema e del contenuto assai scabrosi.
Dunque, eccolo qui di nuovo, esattamente come era stato scritto in origine. Era un pomeriggio soleggiato e ventoso; ma questa è un’altra storia…

Seduto su una panchina del parco osservavo delle ragazzine con cattive intenzioni.
Il campo di pallavolo era distante pochi metri, non a caso avevo scelto proprio quella panchina. Aguzzavo lo sguardo per visionare le cosce, i glutei, i polpacci. Mentalmente, stilavo delle classifiche. Le mie preferite erano due e stranamente non si assomigliavano: ciò che le accomunava, e le distingueva dalle altre, era l’indubbia avvenenza, ma per il resto erano molto dissimili. Alessia era bionda, alta, slanciata; i capelli raccolti a coda di cavallo erano il tratto che più mi affascinava, assieme agli occhi di un azzurro profondo. Laura aveva un fisico più muscoloso, i capelli neri trattenuti da una fascetta e lo sguardo di una gatta malvagia. Dopo aver riflettuto per qualche minuto, stabilii che, se avessi potuto, avrei fatto con lei le mie porcherie. Giocavano nelle squadre opposte ed erano anche le più brave; le compagne le incitavano a gran voce, e non era stato difficile memorizzare i loro nomi. La mia mano si infilò sotto il vecchio cappotto, le dita slacciarono i pantaloni.
Aqualung amico mio
Non allontanarti a disagio
Ma non ci pensavo proprio. Quelle erano solo le parole di una vecchia canzone, una delle più belle della mia vita.

FLASHBACK 1
Ricordo bene quando comprai quell’album. Ero un grande appassionato di musica rock e, nei limiti del possibile, non mi perdevo un concerto. Avevo visto i Jethro Tull al palasport di Varese, credo che fosse il 1972. Allora mi ero appena sposato con Elena, avevo trent’anni, un buon lavoro, e un intero futuro da conquistare. Ricordo che al venerdì sera uscivamo con gli amici; io ero assolutamente orgoglioso di lei, perché era bella e intelligente. Speciale. Il primo “ti amo” me lo aveva detto in riva al mare, l’estate precedente. Eravamo in spiaggia con due lattine di birra e guardavamo le stelle. “Quella è la tua!”, dissi io individuandola fra mille altre. Elena aveva sorriso. “Ora ne scegliamo una per te.” Quando la trovò, me la indicò. “Ti accompagnerà per tutta la vita. Ti porterà tanta fortuna, amore mio.”
Poi la notte si rivestì d’incanto; non andammo a dormire: sarebbe stato stupido farlo. Volevamo assaporare ogni singolo momento di quella magia. Non fu sesso. Non potrei mai chiamarlo sesso. Era semplicemente il trionfo della vita, e se questa frase vi sembra banale sono fatti vostri.
Elena è morta nel 1980 per un male incurabile che degli stupidi dottori non hanno saputo diagnosticare in tempo.
La mano trovò quello che cercava. A dispetto dell’età, era duro come una roccia. Incominciai a masturbarmi, guardando le gambe di Laura. Ogni tanto osservavo anche la coda di cavallo di Alessia, ma era l’altra che mi attizzava. Gatta malvagia. Gatta randagia. Quanti ragazzi ti sei già scopata? E quanti hai fatto piangere? Ti porterei in mezzo alle siepi, piccola sgualdrinella. Sei sudata, non avverti il freddo e io invece a causa tua sto gelando. Se non fosse per te (e in parte per coda di cavallo) me ne tornerei alla vecchia baracca dove abitualmente trascorro le notti. Non c’è il riscaldamento, non c’è la luce, non c’è niente, però è comunque casa mia. E sulla branda, con quattro coperte addosso, si sta quasi bene, malgrado gli spifferi e l’acqua che scende dal tetto quando piove.
Aqualung amico mio ti ricordi ancora
Il gelo nebbioso di dicembre
Quando il ghiaccio che
Pende dalla tua barba
E’ agonia urlante?
Certo che me lo ricordo. Penso che sia proprio difficile dimenticarlo, così come tutto il resto.

FLASHBACK 2
Quando morì Elena, cessai di vivere. (Dov’era Dio quando ne avevo bisogno?) Forse fu una reazione esagerata. Forse se avessi incontrato un’altra donna in grado di capirmi, la mia vita sarebbe stata diversa. Ma le cose sono andate come dovevano andare. Ho fatto alcune scoperte, la più interessante delle quali era che preferivo passare le giornate a bere piuttosto che recarmi al lavoro. Quando mi licenziarono, non mi presi nemmeno la briga di comprare uno straccio di giornale per vedere se cercavano un buon esperto di informatica. Era meglio bere. Poi finirono i soldi. Il problema principale che mi trovai ad affrontare non fu quello di rimediare un posto dove andare a dormire, visto che mi avevano portato via la casa. In qualche modo mi arrangiavo. Per il cibo, dai frati c’era sempre una scodella di minestra calda; perciò, sotto quel profilo, tutto era a posto. Però, non avevo il denaro per comprare il bourbon. E questo era molto grave. Lo risolsi, mettendomi a mendicare. Il più delle volte, entro sera, ero riuscito a raggranellare una somma sufficiente per una bottiglia della peggior marca. Andava bene così.
Ti accompagnerà per tutta la vita. Ti porterà tanta fortuna, amore mio.
E finché c’è stata lei era vero. Come tutte le coppie di questo mondo anche noi litigavamo; a volte Elena si chiudeva in bagno rifiutandosi di parlare. Ma i momenti belli sono stati così tanti che è impossibile sceglierne uno per collocarlo in uno scrigno immaginario. Al mattino ero felice per il solo fatto di vederla, di chiacchierare con lei. Alla sera era sufficiente aprire la porta del nostro appartamento. Mi bastava il suo sguardo. E quando sorrideva, quel sorriso mi riempiva l’anima. Se non avete provato queste emozioni, non potrete mai comprendere.
La schiacciata di Laura è vincente. Gridolini di giubilo. Natiche nude al vento. Ultimi colpi furiosi, e finalmente vengo nei pantaloni. Gatta malvagia. Gatta randagia. Ti porterei in qualche posto oscuro. Vorrei accarezzare quelle tue tette sode, infilarti l’uccello dentro come non lo ha mai fatto nessuno prima di me. Godresti. Riusciresti a ignorare la puzza che emano, la barba incolta, il viso quasi ripugnante. Vivresti una vera esperienza da gatta, che poi ovviamente non racconteresti certo in giro, ma dentro di te, in quella specie di valvola difettosa che è il tuo cuore, ne saresti segretamente compiaciuta.
Ve ne andate? Pazienza. Tornerete domani, e se non sarà domani, sarà domani l’altro o un altro giorno ancora.
In ogni caso, io ci sarò.
Seduto su una panchina del parco a osservare delle ragazzine con cattive intenzioni.

Quando Lucia Forni entrò nella casa, non vide anima viva.
Sconcertata, si domandò se lo sconosciuto era in grado di aprire le porte con il pensiero. Le tornarono alla mente le parole che comparivano nitide sulla carta, senza che lui le scrivesse; un ricordo che avrebbe voluto rimuovere, ma che adesso si presentava più chiaro che mai.
Si trovava all’inizio di un corridoio, scarsamente illuminato da un’unica candela posta su un ripiano. In fondo, a cinque o sei metri di distanza, vide una scala interna. Portava ai piani superiori, al locale di cui aveva notato la luce. Non sarebbe mai salita, decise, se l’uomo non fosse apparso. D’altro canto, lì non c’era, dato che non esistevano possibili nascondigli: solo le nudi pareti del corridoio. E poi, perché nascondersi? Infine, sapeva che era lei la visitatrice, e in tal caso ricordava di averla incontrata al bar di Olginate? Forse, pensò, non si rammentava dello sguardo che si erano scambiati, in effetti era stato piuttosto breve, benché intenso, almeno secondo il suo punto di vista. Comunque, che l’avesse riconosciuta o meno, questo non spiegava il suo comportamento, decisamente strano.
Tutto e’ strano in lui.
L’aria era fredda, come se spirasse un vento gelido, e c’era uno sgradevole odore di stantio; dall’alto gocciolava lentamente. La tentazione di andarsene era molto forte; altrettanto forte, però, era il desiderio di vederlo, di parlare con lui, andasse come andasse. Indugiò, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra. Il corridoio le sembrava assai lugubre, simile a un tunnel che conducesse a qualche luogo malvagio, popolato da creature perfide e ghignanti, pronte ad afferrarla per trascinarla… dove? Avrebbe dovuto smettere di leggere certi romanzi horror. Non erano una fonte di cultura, nemmeno una ricerca di spiritualità. Servivano agli autori per guadagnare una quantità di soldi, ai lettori regalavano soltanto paure, risvegliando fantasmi inconsci, quelli che entrano nei sogni dei bambini.
Io non sono una bambina!
Riluttante, avanzò di un passo. Poi di due. Incespicò a causa di una cassa posata per terra – nella tetra semioscurità di quel budello non l’aveva notata – e appoggiò una mano al muro. Come per incanto, all’improvviso si aprì una larga fessura, svelando un secondo tunnel, più piccolo e stretto. Lì il buio era totale. Lucia si affrettò a tornare indietro, decisa questa volta a lasciar perdere. Quello era il castello delle streghe! Era già arrivata alla porta, quando udì una voce.
Proveniva dalla scala.
“Ci sono dei luoghi che è meglio evitare.”, disse Randall Flagg. “Benvenuta nella mia modesta magione, cara Lucia.”

Berisha e Vale uscirono per ultimi dal bar.
Erano rimasti a chiacchierare, dopo che Aidan e Paola se n’erano già andati da una decina di minuti. La notte era calma e silenziosa, rischiarata parzialmente dalle stelle.
Si diressero verso la casa del ragazzino, camminando con calma. Anche se era ancora estate, l’autunno si stava avvicinando, recando con sé la sua dote di colori, di profumi, di nuove suggestioni. Ciò nonostante, l’aria era tiepida, tale da incoraggiare una passeggiata notturna. Svoltarono, imboccando la strada che li avrebbe portati alla via dov’era situata l’abitazione di Vale. Sebbene l’apprensione di Aidan si fosse dimostrata un po’ eccessiva, a Berisha non dispiaceva girare per Inverigo, mentre tutto attorno regnavano quiete e silenzio. I due amici erano immersi nei propri pensieri, per entrambi piuttosto vaghi, resi in parte confusi dal sonno in arrivo.
Fu Vale ad avvertire per primo il rumore di passi.
Giungevano da dietro: rapidi, furtivi; in circostanze diverse probabilmente non li avrebbe sentiti. Li colse pure Berisha. Si voltò per individuare chi si avvicinava alle loro spalle. In effetti, poteva essere chiunque: una guardia giurata, un nottambulo, un giovane reduce da una visita alla fidanzata. Scorse una spirale di nebbia che lentamente scaturiva dal suolo. Perplesso, guardò con maggiore attenzione. Nessuno. Ma il suono adesso era più vicino. Molto più vicino. Un attimo dopo, finì a terra, colpito alla testa da un bastone. Vale lanciò uno strillo, e in quel mentre fu ghermito da una mano.
Venne trascinato al di là di un’aiuola.
Aveva un coltello puntato alla gola.
L’aggressore cominciò a spogliarlo.
Una voce resa roca dall’eccitazione gli sussurrava parole sconce all’orecchio.

Le luci di Lecco, ormai ben visibili dall’ultimo tratto in discesa, annunciavano una notte di sonno, forse – su questo non ci avrebbe giurato – di bei sogni. L’indomani, si ripromise Aidan, si sarebbe rimesso in moto. Tanto per iniziare, avrebbe scacciato abulia e rassegnazione; in seguito, si sarebbe dedicato al compito per il quale era stato addestrato. Non era sua intenzione deludere loro, né il suo mentore. Se lo aveva già fatto, avrebbe rimediato. Si trovava sul primo dei tre ponti che immettono nella città, allorché vide quanto stava accadendo a Inverigo. Fermò la moto e accostò, pervaso dallo sgomento. Non si sarebbe dovuto limitare a chiedere a Berisha di accompagnare a casa Vale: avrebbe dovuto pensarci lui!
Era stato forgiato come un’arma per questo e, superata la ritrosia iniziale, aveva acconsentito ad abbracciare il Bene, a lottare per esso.
E ora?

IL GUARDIANO DEL CIELO 3
Flavio impiegò quasi due ore per rintracciare 3C.
Il suo pensierino lo aveva sconvolto; di più: lo aveva letteralmente terrorizzato. Erano ulteriori foto, tranne che non ritraevano perfetti sconosciuti, verso i quali è giusto e doveroso provare un sentimento di pietà. No. In questo caso – indubbiamente un artificio, un frutto di magia, ma ugualmente una visione terribile – erano raffigurati i suoi genitori. Il modo in cui giacevano, le ferite devastanti subite dai loro corpi, l’urlo silenzioso trattenuto prima che fuoriuscisse dalla bocca, gli occhi aperti su un mondo di cui non facevano più parte, tutto l’insieme rappresentava un vero e proprio viaggio all’inferno. C’era un altro aspetto da considerare. Posto, e assodato, che si trattava di un inganno, di una malizia escogitata da 3C – papà e mamma erano vivi e vegeti, e se pure fossero morti, non era possibile fotografare una cosa che sarebbe avvenuta dopo gli scatti del fotografo – stabilito questo dato di fatto, il pensiero correva a chi era veramente deceduto in quella maniera orribile, e il sentimento di pietà diventava un moto d’ira. Se tali erano le fattezze del Male, da lui accolte con un certo grado di superficialità – era disposto ad ammetterlo – occorreva scendere in campo. Ignorava il motivo che aveva spinto 3C e altri ignoti servitori delle forze del Bene a scegliere proprio lui. A stabilire che fosse la persona adatta a combattere al loro fianco.
Ricordava bene cosa aveva risposto quando era stato sollecitato: “Credevo che lei fosse pazzo con quelle storie sul Signore degli Anelli e via dicendo. Adesso non lo credo più. Ciò nonostante, la mia risposta è no. Desidero studiare, laurearmi, trovare un buon lavoro, sposarmi quando giungerà il momento.”
Erano motivi validi per rifiutare la proposta?
Per una certa parte, sì. Chiunque ha il diritto di indirizzare il proprio cammino come meglio crede, soprattutto se le sue ambizioni sono normali. Quindi, trovare un buon lavoro, una buona moglie.
Però, se lui, Flavio Toffol, per uno scherzo del destino, era un essere diverso, un eletto che dir si voglia, non aveva forse un obbligo morale? Era un interrogativo difficile, e difficile sarebbe stato scavare dentro se stesso alla ricerca di una risposta, quale che fosse. Qualora avesse accettato, lo attendevano prove durissime; non era così sciocco da non immaginarlo. Ma era un fattore irrilevante. Ciò che contava era il libero arbitrio. Stava a lui la scelta, solo a lui. Da 3C voleva maggiori ragguagli. Alla fine, comunque, la decisione sarebbe stata sua. Una scintilla che si spegne oppure che diventa un grande fuoco.
Lanciò uno sguardo alla finestra. Indifferente al suo turbamento interiore, il sole splendeva radioso nel cielo perfettamente azzurro. Guardò le amate montagne, con la neve che scintillava ancora su in alto. Uno spettacolo da mozzare il fiato. Eppure… il Male esisteva.
Poi 3C rispose al telefono.

Out of the Blue
Into the Black

La nuova riunione era stata fissata per l’indomani sera (nel caso di Vale, per quella sera). L’unico che aveva notizie concrete da portare era Berisha: l’incontro con la “megera svizzera” e ciò che lei gli aveva rivelato. La prima a presentarsi al solito bar fu Paola. In lei convivevano due stati d’animo diversi e opposti. La paura dell’ignoto, degli abissi spettrali del Male, di Randall Flagg; e la gioia dovuta al fatto che stava per rivedere il cavaliere errante.
Nelle ultime notti non aveva sognato l’Uomo Nero o, forse, saggiamente il suo cervello si rifiutava di ricordarlo. Quando entrò nel locale erano le 20.00 precise, secondo l’orologio del campanile.
Cinque minuti dopo fu la volta di Berisha. Aveva pensato di arrivare in anticipo perché intendeva mangiare un sandwich con calma, ma lungo la strada era stato raggiunto da Neil Young e dall’eccidio di Travnik, la consueta doppia visione, tranne che in questa c’era qualcosa di diverso, di impalpabilmente diverso, come fumo trasparente. Una sfumatura, difficile da mettere a fuoco.
Aidan giunse in leggero ritardo, d’altronde veniva da Lecco e, sebbene fosse in moto, poteva essere incappato in qualche rallentamento. Camion, lavori in corso, un paio di idioti in posizione strategica. Qualsiasi fosse la ragione del ritardo, era comunque di umore cupo. Paola fu la prima ad accorgersene. Berisha meditava ancora su quella differenza, sentiva che era importante. Peccato che non potesse coglierla.
Quando, buon ultimo, Vale entrò tutto trafelato, Aidan aspettò che si sedesse prima di lanciargli un’occhiata severa. Si rivolse a Berisha. “Non voglio che vada a casa da solo. Poi, lo accompagni tu?”
“Non c’è problema.”
“Bene. Veniamo a noi.”
Berisha alzò una mano. “Ho delle novità da riferire.”, dichiarò.
“Ti ascolto.”
Li ragguagliò sul conto della vecchia, riportando per filo e per segno ogni parola che lei gli aveva detto, compresa l’ubicazione del rifugio di Flagg. Se pensava di sorprenderli, rimase deluso. Aidan lo sapeva già. Aveva aspettato solamente il momento più adatto per agire. Così disse.
“Non credo che sia una donna veramente cattiva.”, osservò il giovane. “Non del tutto, almeno: era angosciata e non fingeva, ne sono certo.”
“Quindi andrà in paradiso.”, commentò, asciutto, Aidan. Paola lo guardò con aria interrogativa. Le sembrava sarcastico. O magari il termine giusto era caustico? Era la prima volta che le faceva questa impressione.
“Questa notte morirà.” Aidan consultò l’orologio. “Sempre che non sia già accaduto. Il Nemico è pronto, più di quanto lo sia mai stato. I suoi servi sono in movimento. Le tenebre gli appartengono, ma poi torneranno sole e luce. Ora, Lui dispone di vasti poteri, poteri grazie ai quali può dominare uomini e animali, corvi, lupi, cani selvatici; può entrare nei sogni; forse può addirittura comandare gli elementi della natura, scatenare tempeste: può tutto questo; ma non è invincibile.”
Si interruppe mentre la cameriera raccoglieva le ordinazioni.
In realtà, Aidan era furibondo con se stesso.
La Visione inviatagli dall’Uomo Nero lo aveva sconvolto a tal punto da farlo precipitare in uno stato di assoluta abulia. Aveva trascorso ore e ore seduto sulla stessa panchina del lungolago di Lecco, incapace di reagire, mentre il ricordo di Giulia ingigantiva dentro di lui come una nube che si allarga fino a occupare tutto il cielo. Se si fosse mosso, anziché crogiolarsi nel dolore, avrebbe potuto salvare la vecchia svizzera. Ciò lo fece infuriare ancora di più.
Contrariamente a quanto all’inizio aveva pensato, ora si rendeva conto che la diminuzione dei suoi poteri non era dovuta a loro, bensì al torpore da cui era stato imprigionato, alla mancanza di una reazione, all’atteggiamento da perdente. Era facile che adesso il suo mentore lo disprezzasse. Oh, sapeva ancora predicare bene, lo aveva appena dimostrato; però i fatti erano più importanti dei sermoni pomposi. In sostanza, una vittoria di Randall Flagg sarebbe equivalsa a una triste ammissione: che la sua fede nel Male superava quella di Aidan nel Bene.
Richiamato dal rumore, indirizzò uno sguardo torvo a una compagnia di ragazzi, maschi e femmine. Erano accampati a un tavolo vicino, chiassosi e scomposti, convinti che quello fosse un modo normale di comportarsi. Paola prese nota anche di questo, chiedendosi cosa gli passasse per la testa. Niente di buono, concluse fra sé. Le sarebbe tanto piaciuto abbracciarlo e confortarlo. Vaste programme! La cameriera tornò con un assortimento di bevande e un caffè per Aidan; pretese di essere pagata subito. Richiesta comprensibile, considerata la clientela.
Aidan mise mano al portafoglio. Intanto, i suoi occhi guardavano lontano.

Dall’altra parte delle montagne, a Consonno, Flagg aveva cambiato dimora, installandosi nella casa più alta del paese fantasma. Da lì poteva spaziare con lo sguardo su tutto il territorio circostante. Stava nell’ultima camera, in cima a una torretta, e in quella stanza due giorni prima aveva convocato Stradilasi.
Benché fosse investito da un gelido terrore ogni qualvolta lo vedeva, l’ex maestro elementare non si sarebbe mai sognato di ignorare tali inviti. Sapeva fin troppo bene cosa era successo a Luca Barbenni, il tutto a causa di una semplice disobbedienza. Si presentò, trepidante, in attesa di ordini. Al di là dell’unica, ampia, finestra, ardevano dei fuochi; effetto di suggestione o reali, lo ignorava. Era ancora pomeriggio, ma il sole aveva un aspetto irreale. Emanava una luce pallida, malsana. Da fuori giungeva un odore fortemente sgradevole, lezzo di cadaveri, di corpi decomposti, di morte. La fantasia distorta dal panico che gli suscitava Flagg gli mostrò dei grandi uccelli neri, cavalcati da demoni ghignanti. In alto, chissà dove, celato alla vista, un corvo gracchiava.
Stradilasi formulò due pensieri. Il primo si riferiva a quando era bambino e annusava il profumo del fieno tagliato, del fuoco di legna, della verde campagna rivestita dai mille colori dell’estate. La fragranza dei compagni di scuola che ancora sapevano di latte. All’epoca, un po’ li desiderava, un po’ non capiva quello che provava. Aveva cominciato tardi a masturbarsi, e sempre con le idee un po’ confuse; in una proporzione approssimativa su quattro “sedute” una era riservata alle femminucce, tre ai maschietti.
Il secondo, più propriamente, era un rimpianto. Non rimorso, certo. Però, il rimpianto sì. Se non avesse tentato di sedurre il piccolo Paolo, adesso la sua vita sarebbe stata diversa. Soprattutto, non sarebbe stato costretto a incontrare quell’Essere terribile. Gli aveva salvato la pelle in due distinte occasioni, questo era vero. Solo che entrambe le circostanze erano il frutto del suo peccato originale, Paolo, marmocchio schifoso! Sgombrò la mente da quei ragionamenti nel timore che venissero colti. Non osava ipotizzare le conseguenze. Meglio soprassedere e limitarsi ad ascoltare, da devoto seguace.
In un angolo della lugubre camera, accanto al camino spento, una bambola lo fissava con occhi vacui; era priva di gambe. Poi Stradilasi si accorse che era soltanto un occhio che lo scrutava, poiché l’altro giaceva sul pavimento, simile a una biglia giunta a fine corsa. Distolse lo sguardo, sentendosi sempre più a disagio, un disagio che confinava con il più abietto terrore.
Flagg irradiava una tetra soddisfazione. Non lo invitò a sedersi e gli disse ciò che avrebbe dovuto fare. Il compito poteva anche essere gradevole – anzi, di sicuro lo era -; quello che, però, alimentava ancor più la sua paura era il convincimento che dal giorno in cui lo aveva conosciuto i poteri dell’Uomo Nero erano cresciuti in maniera esponenziale: avrebbe potuto allungare le mani e prendersi Lurago, Anzano, Montorfano, giù, giù, fino a Como, e poi oltre… il lago, i monti della Valtellina. Ma per qualche misteriosa ragione, al momento sembrava accontentarsi di Inverigo.
Non per la prima volta gli palesò l’idea che Randall Flagg lo considerasse un povero imbecille, al pari dell’altro imbecille dato in pasto a un corvo. Poco male. Gli bastava essere il suo discepolo. In mancanza di meglio – un’esistenza magari squallida, però normale, scuola, lezioni, mamme credulone – era pur sempre un punto d’arrivo. Per lui aveva ucciso una donna, d’accordo un’inutile mentecatta… rappresentava comunque un punto di partenza. Obbedire, ecco la parola magica. Cieca, fedele obbedienza, la ricetta per non essere completamente atterrito. Negli ultimi tempi una forma strisciante di paranoia aveva preso possesso del suo cervello, se ne rendeva vagamente conto, benché questo non mutasse la sostanza delle cose.
Accolse con sollievo il congedo del Padrone e scivolò fuori, predisponendo piani e tranelli.
Mentre si allontanava, un’altra persona lo sostituì al cospetto di Flagg. Si chiamava Bob (non Roberto, Bob e basta), era alto un metro e novanta per circa novantacinque chili di peso; indossava pantaloni sformati, stretti alla caviglia, una maglietta verde acido, recante la scritta “Succhialo, golosona!”, e portava un cappello nero, reduce da tempi migliori. Faceva il buttafuori in un equivoco night della zona e amava il suo lavoro.
Era pazzo da legare.

Lucia Forni arrivò a Consonno due ore più tardi, quando Bob se n’era già andato da almeno venti minuti.
Era una follia, se ne rendeva perfettamente conto, ma era felice per aver trovato il coraggio di compierla, superando così la linea di demarcazione che intercorre tra un sogno destinato a restare tale, nella valle delle occasioni perdute, una valle più frequentata di quanto si creda, e la volontà di correre un rischio che avrebbe potuto significare, in caso positivo, il coronamento di un desiderio finora inappagato.
Quale rischio, poi? Non riuscire a rintracciarlo? Possibile. Il risultato sarebbe stato un viaggio a vuoto, sai che tragedia! Che lui si mostrasse infastidito? Plausibile. Ma valeva lo stesso ragionamento. Era consapevole di non essere esattamente una bellezza, però non era nemmeno brutta, e piaceva a molti ragazzi. Purtroppo affogavano tutti nella più vuota banalità. Mentre l’uomo che cercava era… era un uomo, anche se un uomo alquanto strano. Forse anche questo l’aveva colpita. Era stata la mattina di ieri, in un bar di Olginate. Lui era entrato con un grosso blocco per appunti sottobraccio, si era seduto a un tavolino libero e aveva ordinato un caffè doppio (che non aveva bevuto). Con i jeans sdruciti, un giubbotto estivo e gli stivali scalcagnati ricordava il protagonista di una serie tv ambientata nel Texas. Senza essere Tom Cruise, era indubbiamente un tipo attraente. Nel senso di affascinante, piuttosto che a livello fisico. Ammaliava.
Aveva cominciato a scrivere. Solo che era privo di una penna, di una matita, di un pennarello. Sconcertata, Lucia si era accorta che il suo modo di scrivere assomigliava a ciò che aveva visto Mosè, in occasione della trasmissione delle tavole della legge; mancavano soltanto le lingue di fuoco (ricordava bene la scena del film). Lui pensava e le parole apparivano nitide sulla carta, con una grafia quasi elegante, benché non mancassero vari errori di grammatica e di sintassi. Disegnava bene, invece. Dal suo posto lievemente rialzato (lui le dava le spalle) notò i volti di tre persone, una ragazza carina e due uomini, uno piuttosto giovane. Stava stilando una sorta di programma: ogni viso era seguito da frasi che sembravano riguardarlo. Lei preferì non sbirciare oltre.
A un tratto si era girato e i loro sguardi si erano incrociati. Quegli occhi l’avevano fulminata. Pochi attimi, poi era tornato al suo lavoro.
Le era mancata la presenza di spirito per attaccare discorso; in genere non era timida, però nemmeno abituata a prendere l’iniziativa.
Quando era uscito dal bar, lo aveva seguito da lontano, badando a non farsi notare. Lui procedeva a piedi, Lucia era salita sulla vecchia Panda scassata, standogli dietro a distanza di sicurezza. Non era semplice. Avvicinarsi troppo voleva dire rischiare di venire notata. Se si teneva lontana, poteva perderlo di vista. Fu aiutata dalle innumerevoli pellicole di spionaggio che si era sorbita nei sei mesi passati con un certo Danilo, sei mesi gettati al vento. Andava a Consonno. Un fatto singolare, dato che Consonno era diventato un paese morto, il cimitero di un paese. Il villaggio dei mostri, lo chiamava Stefania, amica tanto simpatica quanto paurosa.
Al momento, aveva deciso di lasciar perdere, liquidando la faccenda come un incontro intrigante, destinato a non avere sbocchi; pedinarlo era stato un gioco, forse un modo per ravvivare una giornata altrimenti uguale a tante altre. “Chi convinse Adamo a mangiare la mela?”, amava sostenere suo padre al terzo bicchiere di vino. “Lui non lo avrebbe mai fatto di propria sponte! Curiosità, il tuo nome è femmina.” Ah-ah e la curiosità uccise il gatto, latrò lei in un moto d’ilarità.
Ma quella notte lo aveva sognato. La decisione era nata sotto la doccia, alle sette di mattina. Durante il giorno non era cambiata. Aveva servito i clienti della boutique con la consueta gentilezza; intanto pensava a lui. I francesi avrebbero parlato di coupe de foudre, Lucia non conosceva il francese e non era interessata a trovare una definizione appropriata. Innamoramento, comunque, poteva starci. Aveva rimosso inconsciamente l’inquietante maniera di scrivere dello sconosciuto – tale per adesso era. Pensarci non sarebbe stato di alcuna utilità.
Ciò che ignorava era il fatto di essere l’unica persona al mondo a non avere paura di lui. Lasciò in anticipo il negozio, previa autorizzazione del titolare, e partì, eccitata e ansiosa, a bordo della Panda. L’aspetto di Consonno, di quel luogo desolato, suscitava pensieri sinistri. Stefania avrebbe ululato di paura. Mette i brividi, pensò Lucia, avvertendo un principio di pelle d’oca.
Girò per le strade deserte, guardandosi continuamente attorno. Il crepuscolo ormai aveva ceduto il passo alla notte. Lucia accese i fari. Lì al bar di Olginate aveva fatto scena muta, rifletté in un soprassalto di ottimismo. Se la fortuna l’avesse assistita, ora avrebbe rimediato. Nel frattempo, seguitava a osservare ambo i lati delle vie. Un grosso gatto scomparve dietro a un portone, presumibilmente a caccia di cibo. Infine, in alto, scorse una luce. Proveniva dalla finestra di una torretta. Non le era sembrato di vedere altre luci. Posteggiò l’auto, incamminandosi verso la porta d’ingresso. Pigiò il dito sul campanello, senza alcun risultato: evidentemente non funzionava oppure in paese mancava la corrente elettrica. Allora bussò, dapprima piano, poi con forza. Nel mentre, aguzzava le orecchie.
Dopo un tempo che le parve interminabile, la porta si aprì.

Questo racconto non è nuovo e non gli ho apportato alcuna modifica. Così fu scritto e postato cinque anni fa, ma cinque anni su WP sono un periodo di tempo paragonabile alla distanza tra la Terra e la Luna, quindi per molti sarà una novità. L’ho ritrovato casualmente nella “classifica articoli e pagine” e dopo averlo riletto ho deciso di riproporlo. Il perché è presto detto: al di là del fatto che mi sia piaciuto – tanto o poco non fa differenza – ricordo ancora benissimo che quando lo scrissi avevo chiara in mente una persona. Adesso quella persona ne è uscita alla grande e con gioia glielo dedico.
Vai che il mondo è tuo!

La neve scendeva, ammantando il grande parco di bianco. Era una notte fredda. Spirava il vento di settentrione, che trascinava i fiocchi ricoprendo gli alberi dai grandi fusti, le panchine consumate dal tempo, il prato che, con il suo verde brillante, d’estate rappresentava la meraviglia di quel luogo. A tratti la luna faceva capolino; ma le stelle brillavano lontane, di una luce spettrale, simili a gioielli gelidi e irraggiungibili. Un cane si aggirava infreddolito, in cerca di un riparo che peraltro non esisteva.
Era la notte di Natale, ma questo non importava assolutamente a Katia. La giovane si era addentrata nel bosco, situato oltre al parco, protetta dai vestiti pesanti e dagli stivali felpati. Non aveva freddo, né fame, sebbene avesse saltato la cena. Non era la prima volta che succedeva; negli ultimi mesi non aveva mai voglia di mangiare, e neppure di scrivere. C’era stato un tempo in cui il suo vasto talento era emerso prepotentemente: aveva incominciato a pubblicare un romanzo fantasy su WordPress, riscuotendo un immediato successo. Fin da bambina possedeva il dono della scrittura. Quando pigiava i tasti del pc non aveva bisogno di pensare: le parole uscivano da sole, trasformandosi in frasi, e le frasi diventavano un racconto. Lo stile era superbo, e la storia da lei narrata avvincente. Fu fatale che un editore la contattasse. Il libro sarebbe diventato un best seller, l’aveva incoraggiata, e la sua originalità, quella di unire una vicenda magica all’introspezione dei personaggi, avrebbe rappresentato la chiave della sua affermazione letteraria.
Katia firmò il contratto.
Ma poi… smise di scrivere.
Era un’ottima giocatrice di tennis, ma rinunciò al campionato societario che avrebbe agevolmente vinto. Aveva la media del ventisette, tuttavia non si presentò più agli esami universitari. Frequentava senza particolare entusiasmo un giovane che si chiamava Dario; però lo lasciò comunicandogli freddamente la sua decisione in un grigio pomeriggio di ottobre.
Dato che non riceveva nuovo materiale, l’editore la sollecitò. Katia ignorò le sue missive.
Ma tutto questo era successo prima, in un tempo che ormai le sembrava remoto, benché fosse trascorso soltanto un mese da quando il contratto di edizione era stato rescisso.
Katia si addentrò nel folto del bosco. Era agile e procedeva spedita, malgrado lo spesso strato di neve che si accumulava con il passare dei minuti.
Non si era interrogata sui motivi del suo comportamento, poiché non era necessario. Conosceva già la risposta, e le andava bene così.
Raggiunse uno spiazzo circolare e si sedette per terra. Fu raggiunta da un senso di pace. Tutto era silenzioso; il vento era cessato, ma la neve continuava a scendere. I fiocchi si depositavano uno sull’altro, creando uno scenario di incomparabile suggestione. Era bello il bosco di notte; era bella la neve che, quasi danzando, la accarezzava.
Da bambina aveva costruito uno splendido pupazzo, e per qualche ragione pensava che quello fosse stato l’atto più importante della sua vita. Un culmine mai più raggiunto, né tanto meno superato. Distolse lo sguardo dal passato per rivolgerlo al presente.
Il futuro non esisteva.
Quel senso di tranquillità interiore, di serena accettazione di se stessa, riusciva perfino a non farla pensare a lei. L’aveva conosciuta in un bar. Non era stato Dario a parlargliene, ma un certo Francesco, un giovane spavaldo e attraente che la sapeva lunga. All’inizio non le piacque. Tuttavia, dopo la seconda volta, capì che lei era più importante del libro, degli studi, del tennis. Non avrebbe mai conosciuto un ragazzo così affascinante; nessuno sarebbe riuscito a coinvolgerla in un modo tanto intenso. Lei era decisamente al di sopra di tutte le persone che aveva frequentato, uomini o donne che fossero. Certo, costava molto. Non si concedeva gratuitamente. Ma Katia sarebbe stata disposta a pagare qualsiasi cifra pur di averla sempre con sé. Era una nuova vita, estremamente eccitante. Niente a che vedere con la sua passata esistenza. Era il coinvolgimento totale, assoluto. L’amore?
Sì, era l’amore. Katia viveva per lei, malgrado a volte l’attesa fosse insopportabile. Ma quando, finalmente, poteva entrare nella calda e accogliente stanza da bagno della sua casa e, dopo essersi chiusa dentro a chiave, osservare quella meravigliosa striscia bianca, raggiungeva l’unica estasi che avesse mai sperimentato.
Seduta nella neve, alzò gli occhi al cielo. Le parve di sentire il rumore di un aereo che volava molto in alto. Forse ne scorse anche le luci, sebbene non ne fosse certa.
Portami lontano, pensò.
Portami in un nuovo mondo.
Fu colta da una profonda irritazione: quei pensieri non le appartenevano; si erano presentati all’improvviso, contro il suo volere.
A lei andava bene così.
Ma essi tornarono, avvolgendola in una spirale.
Portami al mare. Voglio camminare scalza sulla sabbia, entrare nell’acqua limpida, avvertire il calore del sole sulla pelle. Voglio addentrarmi fra le onde, nuotare, spingermi al largo fino alla barriera corallina. Giocare con i delfini. Guardare un cielo diverso, e provare emozioni più sincere.
Portami lontano, in terre calde e sconosciute.
Ora nevicava più forte. Katia rinunciò a lottare. Lasciò che il nuovo flusso di pensieri entrasse in lei.
Portami lontano.
Regalami solo un minuto di serenità.
Si accoccolò per terra e chiuse gli occhi. Non aveva freddo; piuttosto avvertiva come una sensazione di torpore. La sua mente vagava, e lei ignorava se ciò che vedeva esisteva veramente, oppure se si trattava soltanto di un sogno.
Portami lontano.
Tanto lontano.
Poi, con gli occhi delle fate, rivide se stessa bambina.
Stava costruendo un magnifico pupazzo di neve.
Per la prima volta dopo molto tempo Katia sorrise.
Al resto avrebbe provveduto il freddo, trasformando le sue lacrime in cristalli.

La madre di Paola non era molto colta, anzi, a dirla tutta, non lo era affatto. Ciò nonostante, possedeva un notevole acume.
Quando Paola tornò dalla sua “missione” – recuperare il vestito a fiori dalla lavanderia della simpatica Sabrina – e, scherzando, o fingendo di farlo, la ragguagliò sugli strampalati discorsi di Guido, la donna non fece commenti, limitandosi a rivolgerle uno sguardo diffidente. Affrontò l’argomento più tardi. L’oggetto di tale conversazione era Attilio. Lo vedeva bene nei panni di fidanzato della figlia, e di futuro marito ma a tempo debito, e anche se nutriva qualche dubbio sul tenore dei loro rendez-vous non aveva mai manifestato quei timori per ragioni che le sfuggivano. Forse, tutto sommato, si fidava di Paola, o forse non del tutto; in ogni caso, aveva sempre preferito non indagare.
Adesso avvertiva qualcosa di strano. Non che ne fosse sicura al cento per cento, ma l’intuizione c’era, simile a una luce lontana eppure visibile.
A differenza della famiglia di Vale, quella casa era esente da troppi litigi; talvolta un po’ di freddezza, però nulla di più. Mamma portava avanti le cose con robusto buon senso. Se fosse nata in America, avrebbe votato per i democratici… a patto di vivere nel Sud, in caso contrario si sarebbe indirizzata verso i repubblicani. In Italia, da anni, rinnovava la propria fiducia a Silvio Berlusconi. Difficilmente cambiava idea, in questa e in altre questioni. Esordì in modo cauto, guardingo. “Attilio è proprio un bravo ragazzo.” Un’affermazione che in teoria non prevedeva risposta. Paola annuì, chiedendosi dove sarebbe andata a parare. Come osservazione le sembrava superflua, inutile, a meno che si trattasse della punta di un iceberg. Sua madre non si esprimeva mai per perifrasi, peraltro conosceva le circonvoluzioni e quella semplice, innocua (e inutile) affermazione aveva tutta l’aria di essere un preambolo, un primo passo cui ne sarebbero seguiti altri.
Dalla cucina proveniva il suono della radio. Loretta Goggi cantava un vecchio successo: “Che fretta c’era, maledetta primavera.” Mamma andò alla finestra, anche se ormai il buio ricopriva l’intero paese, fatta eccezione per qualche lampione e per i fari di poche macchine. Quando si girò, arrivò la domanda che Paola in fondo si aspettava. “Tutto bene tra voi?”
Non credo, mammina. Sai, un certo Uomo Nero entra nei miei sogni. E’ una specie di mago, provvisto di poteri magici. Così ho conosciuto Aidan, il cavaliere errante. Oh. Oh.
C’erano almeno tre buone strutture in zona, tutte nel raggio di venti, venticinque chilometri, e tutte pronte ad accoglierla. “Abbastanza.”, rispose, fissando lo sguardo sulla riproduzione di un Van Gogh, all’epoca costata 200.000 lire.
Abbastanza non significa niente.”, ribatté sua madre. “O forse troppo.”, aggiunse scaltramente.
Ora i Camaleonti eseguivano Applausi.
Paola meditò una risposta appropriata. “Gli voglio bene.”, disse a voce bassa.
“Ma?”
Paola sospirò. “E’ buono d’animo, un gran lavoratore, non si ubriaca e non si sognerebbe mai di tradirmi.”
“Ma?” Era come un martello pneumatico con i suoi “ma”.
“Ma non lo amo.”
Punto e a capo. Era inutile tergiversare, fornendo risposte evasive; si poteva andare al dunque senza tirare in ballo Flagg e il cavaliere errante. Dopotutto era libera di gestirsi la vita come meglio credeva.
Seguì un silenzio. La madre valutava ciò che aveva appena udito. Non si sarebbe strappata i capelli per la fine annunciata di un rapporto nel quale aveva creduto. Attilio – detto Attila dagli amici più sciocchi – si sarebbe rassegnato; era il tipo di ragazzo capace di farlo. Quello che in realtà la turbava era l’idea che Paola rimanesse sola. Il paese non pullulava di giovani in gamba. C’era quel Berisha ma, non per essere razzista, era slavo, perdipiù non apparteneva a una famiglia agiata – per carità, era brava gente -, né, per quanto ne sapeva, guadagnava a sufficienza. Si trasferì in cucina, scontenta, benché non fosse nel suo carattere lasciarsi abbattere. Nella vita esisteva di peggio. Con un minimo di impegno avrebbe potuto stilare una lista infinita di cose brutte, brutte davvero. Che Paola non amasse Attilio era un fatto assolutamente marginale, paragonato alle sciagure quotidiane che si apprendevano dalla televisione o che si leggevano sui giornali.
Spense la radio per dedicarsi alla cena. Aveva cominciato a piovere e si era levato il vento. Mentre l’acqua bolliva, fu colta da un’ispirazione, quei pensieri non richiesti che a volte emergono come folletti dispettosi. Si fermò, il barattolo dei pelati in mano, e questa nuova intuizione che assumeva forma e spessore. Posto che ci fosse del vero, naturalmente. Forse Paola non era sola. In tal caso, chi era il fortunato?
Gettò il barattolo nella pattumiera, selezionò la quantità giusta di pasta, mise mezzo cucchiaio di zucchero nella salsa e si ripromise di svolgere una piccola indagine. Con questo, non si considerava un’impicciona. Giusto un doveroso controllo. Solo quello e nient’altro. Compito dei genitori è vegliare sulla felicità dei figli.
Le piaceva sentire la pioggia tamburellare contro i vetri; era un suono rassicurante che la riportava al tempo in cui era bambina, una bambina sveglia e curiosa, sebbene poco interessata agli studi. In compenso conosceva bene le piante: il cembro grigio-argento, il salice bianco, il frassino.
Aggiunse un altro po’ di sale e scolò la pasta. Poi rincasò il marito e padre, al solito puntuale come un orologio, e lei portò in tavola gli spaghetti fumanti, il formaggio grattugiato e un’insalata di pollo. Il meteo della tv locale prevedeva bel tempo per l’indomani. Paola bevve un sorso di Sprite fantasticando. Immaginava una spiaggia assolata, il mare verde e limpido, un bungalow circondato da palme e Aidan che la stringeva fra le braccia. In sottofondo, niente Goggi o Camaleonti. Born to run e il Boss.
Quando l’immaginazione diventa sfrenata è capace di superare ogni ostacolo. Se il mare, le palme e tutto il resto erano chimere, per un uomo solo – e il cavaliere errante era un uomo solo – una ragazza di media intelligenza e bellezza può rappresentare un approdo sicuro. Questo senza dare troppo gas all’autostima. Ma una parte di lei pigiava con decisione sull’acceleratore. Magari non era proprio irresistibile, però intelligenza e bellezza meritavano qualche punto in più.
“Ti vedo bene.”, disse suo padre, portandosi alla bocca una forchettata di spaghetti. Sebbene non fosse esattamente una persona espansiva, aveva sempre badato con i fatti alla famiglia, delegando alla moglie le incombenze domestiche, fra le quali rientrava l’educazione della figlia. Passare troppo tempo a raccontare fiabe esulava dalla sua indole, dato che era cresciuto lavorando sodo a scapito di giochi e divertimenti.
Paola si strinse nelle spalle, sorridendogli. Voleva bene a entrambi, ignorando l’ipotetica bilancia di pregi e difetti. D’altro canto, non aveva dimenticato che quando a sei anni aveva vomitato in macchina era stato suo padre a consolarla, benché la nausea fosse dovuta a precedenti capricci.
Adesso io ti vedo fin troppo bene, pensò mamma, notandone l’espressione sognante. Qui gatta ci cova. Sì. Sì.

IL GUARDIANO DEL CIELO 2
Ai primi di giugno 3C tornò. Questa volta scese all’hotel Miramonti. A seguito dell’atteggiamento di Flavio Toffol – lo aveva praticamente mandato al diavolo, seppure in maniera educata – per lui la faccenda era chiusa; ma i Superiori lo avevano invitato a insistere. Sapeva che Flavio era in procinto di partire: due settimane in Spagna insieme a un amico. Perciò il tempo stringeva. Ora o mai più, si disse.
La sua personale valutazione nei riguardi del ragazzo era senza dubbio positiva, non così positiva però da giustificare un interesse esagerato. Era dotato, forse molto dotato, tuttavia non sarebbe stato disposto a scommettere sulla sua capacità di estraniarsi dalle futilità comuni alla maggior parte degli esseri umani. Nel suo rapporto, evidentemente accolto male, aveva evidenziato il pericolo maggiore: che in un futuro più o meno prossimo si innamorasse. A questo punto, buona notte suonatori. Non che innamorarsi fosse un fatto grave in sé, lo erano le possibili conseguenze. Perdita di concentrazione, perdita di poteri. Eccesso di emotività.
Al diavolo! Se volevano Flavio Toffol, avrebbe fatto del suo meglio per darglielo. In genere risultava convincente, ma con Flavio aveva già fallito una volta.
Il ragazzo lo accolse con freddezza. Riluttante al massimo grado, accettò comunque l’offerta di una cioccolata al bar del Posta. 3C prese un caffè. Poi, senza dire una parola, tirò fuori da una borsa da avvocato una cartella tenuta chiusa da un semplice elastico. Ne estrasse una ventina di fotografie, formato dieci per quindici, e le posò sul tavolo, davanti a Flavio. Toffol gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Guardale.”, lo invitò 3C.
Flavio le guardò.
Una. Due. Tre. Sbiancò leggermente in viso, mentre 3C lo osservava con attenzione.
Deglutì e passò alla quarta. La quinta. Quando arrivò alla sesta, si soffermò a fissarla a lungo. Dopo la settima restituì le foto.
“Cosa significano?”, chiese, ignorando la cioccolata.
“Le hai viste.”
Sì, le aveva viste. Erano immagini raccapriccianti. La prima ritraeva il volto scarnificato di una giovane nera. Gli occhi spalancati sul nulla, la bocca contratta in una specie di sogghigno che naturalmente tale non era. Nella seconda, una donna di mezza età stringeva tra le labbra il proprio naso. La sesta era terribile, posto che le altre non lo fossero. Una bimba il cui corpo era stato fatto a pezzi: assomigliava a una bambola seviziata per il divertimento di qualche ragazzina viziata. Solo che non era una bambola. Era carne e sangue e la speranza di una vita felice. Era stata tutto ciò.
“Non capisco.”, mormorò Flavio.
3C annuì tristemente. “Neppure io. Questa rappresenta soltanto una piccola selezione, potrei mostrartene molte altre, ma la sostanza non cambierebbe. Ecco il Male, figliolo! Noi vogliamo fermarlo. Io… noi cerchiamo un guardiano del cielo. Qualcuno che si opponga alla malvagità, qualcuno che sorvegli le porte da cui provengono i demoni, i nemici del Bene, porte che stanno lassù.” E con un dito indicò il soffitto, significando il cielo, che quella mattina era azzurro e luminoso. “Qualcuno che aiuti chi vive nella paura.”
“Ma io…”
“Sicuro: tu ti senti inadeguato. Mi sembra ovvio. Se accetti, verrai addestrato. Affronterai prove, camminerai lungo sentieri pericolosi. La ricompensa sarà grande. Non in termini di denaro o gloria, ma dentro di te.” Scosse la testa e aggiunse: “Non sono i governi che possono intervenire, in quanto alla stampa da sempre è asservita. Ricordi come misero in ridicolo il movimento peace and love negli anni Sessanta? La risposta, l’unica concreta risposta, risiede nella magia.”
“E se rifiutassi?”
“Te lo porteresti addosso per tutta la vita.”
Flavio rifletté, 3C attese senza mettergli fretta. Aveva giocato le sue carte, scegliendo le foto anziché i discorsi: ora toccava al ragazzo decidere.
“Voglio essere sincero.”, disse Flavio. “Credevo che lei fosse pazzo con quelle storie sul Signore degli Anelli e via dicendo. Adesso non lo credo più. Ciò nonostante, la mia risposta è no. Desidero studiare, laurearmi, trovare un buon lavoro, sposarmi quando giungerà il momento.”
“D’accordo.”, fece 3C, secco. Raccolse le foto, si alzò, depositò alcune monete vicino alla tazzina del caffè e si diresse verso l’uscita.
Poi, come per un ripensamento, tornò indietro. Porse al giovane una busta del tipo commerciale, dichiarando: “Questo è un pensierino per te.”
Quindi, lasciò il locale.

Vale si svegliò di soprassalto.
Era notte fonda.
Prima di addormentarsi, riponendo sul comodino il romanzo che stava leggendo, aveva pensato che in un libro l’intero è sempre maggiore della somma delle sue parti. E quello era un buon libro. L’intero sopperiva a certe manchevolezze. Soprattutto non apparteneva al genere horror. Eppure il sogno (l’incubo) sembrava partorito dalla mente di Wes Craven. Per quello si era svegliato.
Era iniziato in modo innocuo. La pioggia scrosciava, simile a una cascata, e lui sognava scogliere a picco sul mare; poi il quadro era cambiato: ed era apparso Flagg. Lo aveva guardato fissamente. Vale aveva visto un orribile uomo che abusava di lui, e dopo un primissimo piano del membro, e dopo… si era svegliato, forse urlando. Un nanosecondo prima di riemergere allo stato di veglia ebbe la fugace visione di una schiera di corvi appollaiati sopra un cavo della corrente, sullo sfondo di un cielo rosso cupo.
Accese la luce e prese il bicchiere dell’acqua. Quando era andato a coricarsi i suoi stavano litigando aspramente. L’incubo non dipendeva certo da questo, neppure da ciò che aveva mangiato – un’insipida minestrina, pomodori e mozzarella, dieta per reclusi. Alla tele trasmettevano una farsa travestita da dibattito e su un altro canale un film strappalacrime. Niente di sconvolgente. E il libro non era un horror. No. Il sogno era stato evocato. Volendo cavillare poteva trattarsi della replica di qualcosa sognato in precedenza e poi saggiamente scordato, due regalini al prezzo di uno. Venite, signori, c’è anche in omaggio un biglietto della lotteria. Ma Vale ne dubitava.
Bevve un po’ d’acqua, cercando di analizzare l’incubo. A differenza di quanto era accaduto varie volte in passato, la sensazione predominante non era stata di terrore, bensì di disgusto. Uno strano intuito gli suggeriva che Flagg aveva inteso mostrargli uno spicchio di futuro. Un futuro davvero repellente.
Con un sospiro spense la luce e si infilò di nuovo sotto le lenzuola. L’Uomo Nero aveva eliminato il buon professore, poco ma sicuro: c’era modo di fermarlo? In caso affermativo, chi poteva riuscirci? Passò in rassegna le fisionomie degli amici. Berisha. Paola. Aidan.
Aidan!
Su quel pensiero si riaddormentò.

Quando arrivò la visione, Aidan, seduto su una panchina, stava contemplando il lago. Mangiucchiava un cheesburger acquistato nel malconcio McDonalds di Lecco, posto alle sue spalle, sull’altro lato della strada diretta a Colico.
La visione giunse all’improvviso, come un lampo in una notte estiva.
Arrivò, subentrando all’immagine dell’acqua increspata dalla breva.
Era come se un film dell’orrore avesse sostituito su uno schermo una bella pellicola dedicata alla natura. Il sole era tramontato, ma c’era ancora abbastanza luce per distinguere la riva opposta, dove cadeva una lieve pioggerella che diventava più intensa lontano dal molo, al largo. Dal suo punto di osservazione Aidan poteva scorgere una barca a vela, una “stella”, che bordeggiando si dirigeva da Malgrate – il paese situato di fronte a lui – verso Mandello; sullo scafo c’erano due giovani, protetti da tele cerate di un giallo acceso.
La visione cancellò tutto, ogni cosa, lasciando l’immagine di una donna.
Aidan trasalì.
Ciò che vide era chiaro.
Era il viso di Giulia.
Giaceva supina con gli occhi spalancati, però privi di qualsiasi espressione. Questo ci poteva anche stare, pensò Aidan; tuttavia molti altri particolari indicavano senza possibilità di errore che era morta. Non ultimo fra questi, l’uomo che usciva in modo furtivo dalla stanza, tenendo una siringa in mano.
Con un disperato sforzo di volontà scacciò da sé quella tremenda immagine. Rimase immobile sulla panchina, mentre la sua mente correva. I pensieri si trasformarono in un turbine di emozioni. Dapprima venne il dolore: forte, brutale, devastante. La logica diceva che Giulia era ormai un’anima persa; in ogni caso era comunque un’anima, e lui l’aveva amata, e l’amava, sebbene non ci fossero speranze di guarigione. Poi, la consapevolezza che questa era opera di Flagg. Esattamente come la visione, e ciò significava che mentre l’Uomo Nero aveva accresciuto i propri poteri, Aidan li aveva mantenuti al livello di prima, senza un’evoluzione. I loro piani erano avvolti in una coltre di mistero e non sempre riusciva a capirli. Lo avevano punito a causa di Giulia? Ma allora perché quel giorno lo avevano mandato a salvarla o quantomeno a tentare di farlo?
Una riflessione ne portava a un’altra, alcune vaghe e confuse, altre nitide come una giornata di sole. La sua mente spaziò, tornando indietro nel tempo, fino a un lontano passato.
Il guardiano del cielo

IL GUARDIANO DEL CIELO 1
Il ragazzo concluse la discesa con una derapata, quindi lanciò un’occhiata al tabellone. Primo! “Bravo, Flavio.”, si congratulò con lui Paolo Rotondo. Paolo era il miglior amico di Flavio Toffol. Tutto intorno, la neve scintillava al sole. Si sentirono degli applausi, una ragazza stava strillando entusiasta, le guance rosse per l’eccitazione. Toffol si tolse i vecchi Spalding – erano appartenuti a suo padre – e sorrise all’amico. “Bravo anche tu.”, disse. “Ti sei piazzato terzo.” L’altro scosse il capo. “A parità di sci, nessuno potrebbe competere con te.”
“Beviamo una cioccolata.”
I due si diressero verso il bar. Presero posto a un tavolino d’angolo e ordinarono cioccolata con panna e pasticcini. Mentre la cameriera li serviva, nel locale entrò un uomo. Era alto, con folti capelli ricci striati di bianco; si sedette vicino a una finestra e sembrò ignorare i due giovani. Chiese una birra e la bevve a piccoli sorsi. Dopo qualche minuto ci fu la premiazione, poi Flavio salutò Paolo dandogli appuntamento per l’indomani presso la pista di pattinaggio. Mezz’ora più tardi raggiungeva la pensione dei genitori. Era situata alla periferia di Cortina: una costruzione del tipo austriaco, piccola e graziosa; vantava un’ottima cucina. Le camere, disposte su due piani, erano poche, non particolarmente spaziose ma linde e provviste di una bella vista sulle montagne. La mamma cucinava, il padre teneva i conti e si occupava degli acquisti. Inoltre, controllava che le cameriere non trascurassero i clienti.
Flavio si cambiò e andò ad aiutare in sala. Era quasi ora di cena. Il tempo stava cambiando. Grossi nuvoloni scuri anticipavano il tramonto, un vento freddo calava dai monti. Flavio uscì per dare da mangiare al cane, un vecchio lupo spelacchiato che lui, quando era ancora bambino, aveva trovato in un campo, solo e affamato. Si accertò che le finestre fossero ben chiuse – il vento aumentava sempre più – e fece per rientrare. Dalla cucina proveniva un buon profumo di cibo: aveva l’acquolina in bocca, anche se avrebbe dovuto aspettare che l’ultimo dei clienti finisse di mangiare prima di potersi accomodare in cucina per cenare a sua volta. Sapeva che la mamma aveva preparato una delle sue specialità, la gulasch süppe, e questo gli bastava. Era a un passo dalla porta che dava sul retro, la mano già sulla maniglia, quando si sentì toccare una spalla. Una cosa che non sopportava.
Si voltò.
Era un fisionomista nato, riconobbe il tipo che aveva preso una birra al bar. Nonostante il fastidio dovuto al contatto fisico, lo salutò educatamente. “Buona sera.”
“Buona sera.”, replicò lo sconosciuto. Due sole parole, sufficienti però per rivelare una voce dura, autoritaria, abituata, pensò Flavio, a comandare.
“Anche a obbedire, se è del caso.” Era come se gli avesse letto dentro. Flavio era sbigottito. Lo fissò, incapace di parlare. Se l’uomo aveva notato il suo stupore, non lo diede comunque a vedere. Alzò gli occhi al cielo scuro. “Non è bene affrontare determinati argomenti con il buio.”
“Quali argomenti, signore?”
La risposta pervenne mediante un gesto vago. “Avete una camera libera?”, chiese invece.
“Credo di sì.”
“Mi hanno detto che qui si mangia bene.”
Flavio annuì.
“Allora mi concederò una buona cena. Fammi strada, per favore.”
In attesa di gustare l’appetitosa gulasch süppe, il giovane sbarazzò i tavoli, sbirciando di tanto in tanto lo strano individuo. Si domandava continuamente come avesse fatto a leggere i suoi pensieri. Poiché quella sera non si parlarono più, dovette rimandare la curiosità all’indomani.
Il sole sorse illuminando la ridente conca. Era piena stagione, Cortina era invasa dai turisti, italiani, francesi, austriaci, tedeschi. Flavio stava spalando la neve davanti all’ingresso della pensione, quando l’uomo si fece vivo, scivolandogli alle spalle senza fare il minimo rumore. Durante la notte si era formato del ghiaccio, perciò in teoria si sarebbero dovuti udire i suoi passi, ma si muoveva silenzioso come un gatto. Indossava dei pantaloni di velluto a coste, un pesante maglione di lana e in testa portava un cappello simile a quello che metteva il papà di Flavio. “Mi chiamo 3C”, dichiarò.
Flavio lo osservò, sconcertato. Che fosse un pazzo? Eppure non dava l’aria di esserlo.
“Per l’esattezza CCC, ma 3C è più pratico. “Vieni che ti offro un caffè.”
Dieci minuti dopo erano seduti all’unico tavolo libero del bar dell’hotel Posta, uno degli alberghi più rinomati di Cortina d’Ampezzo. C’erano molte belle donne vestite elegantemente, le pellicce si sprecavano. 3C le ignorò. Flavio prese una cioccolata. Una ragazza sui diciotto anni gli rivolse un sorriso civettuolo. Era un giovane attraente e suscitava l’interesse di villeggianti e valligiane; qualcuna si spingeva oltre, immaginando le sue mani sui propri seni.
3C si protese verso di lui. “Ieri sera (a proposito: si mangia veramente bene da voi) ho accennato ad argomenti che è preferibile evitare nelle ore di oscurità; adesso c’è il sole, dunque possiamo parlarne.”
Flavio fece un cenno di assenso, intrigato e perplesso allo stesso tempo.
Quali argomenti?
3C sorseggiò il caffè. “Hai letto Il Signore degli Anelli?”
“Sì. L’ho letto. Molto bello.”
“Benissimo. Naturalmente è un’opera di fantasia, ciò nonostante riflette una certa realtà. Come uno specchio. Vedi, non tutti gli specchi sono uguali: la maggior parte di essi si limita a mostrare quello che tutti riuscirebbero a vedere, semplicemente girandosi. Alcuni, però, una esigua minoranza, vanno oltre… indicano fatti e circostanze che sono al di fuori della comprensione umana, dato che l’uomo di oggi è privo di una visione spirituale del mondo.”
Era un discorso complicato. Flavio era tutto fuorché uno stupido, aveva completato gli studi al liceo scientifico ottenendo voti brillanti, addirittura eccellenti in fisica e filosofia, e si era preso un anno libero in attesa di iscriversi all’università, anno che trascorreva aiutando i suoi (non un vero e proprio anno sabbatico, quindi); leggeva e si interessava di politica, non era superficiale come molti suoi coetanei: ma gli sfuggiva il senso delle parole di 3C. Rimase in silenzio.
“La gente”, riprese questi, “si è scordata della magia. Peggio ancora: la considera uno sciocco passatempo per bambini, però le cose non stanno così. Sai perché mi chiamo CCC?”
Ovviamente la risposta era negativa.
“E’ un acronimo.
C Colui
C Che
C Cerca.”
“E lei cosa o chi sta cercando?”
L’uomo sorrise.
“Forse:
A Ascoltare
I Intervenire
D Difendere
A Aiutare
N Notare.”
“E?” Flavio non capiva.
“Potresti essere tu.”
“Io?” Flavio sgranò gli occhi.
“Sei stato notato dai miei superiori, ciò che rientrerà nei tuoi compiti se accetterai di unirti a noi. Solo che tu dovrai notare persone bisognose d’aiuto. Prima ho citato il libro di Tolkien. Come nel Signore degli Anelli, pure qui, nel mondo reale, il Male risorge sempre dopo una sconfitta; possono passare dieci, venti o cinquant’anni – un’inezia nel disegno dell’universo – comunque, alla fine, Esso si trasforma, assume nuove vesti e torna. E ora è tornato.”
“Una replica di Sauron?”
3C fece “no” con il dito.
“Tanti Sauron. E noi cerchiamo un Gandalf. Se questo non fosse possibile, almeno un Sam.”
Erano personaggi del Signore degli Anelli.
Flavio Toffol meditò su tali parole.
Pura follia!, dedusse.

Berisha si scostò di qualche passo. In apparenza il discorso della vecchia era ridicolo, ma non ignorava che contenesse anche del vero. L’Uomo Nero non era ridicolo! Non comprendeva il motivo per cui la megera svizzera era venuta a cercarlo, né perché si fosse confidata con lui, quasi si trovasse davanti a un prete. Forse era un trucco. Le rivolse uno sguardo sospettoso. La tentazione di scacciarla era forte. Controvoglia, le domandò: “Lei è qui di sua iniziativa o a causa di un altro ordine del suo padrone?”
La donna scosse la testa, portando alla luce un sorriso triste. “Basta ordini!”, esclamò. “Basta con il maestro dei burattini.”
A Berisha venne in mente Master of Puppets, una canzone dei Metallica. Basato principalmente sugli assoli di Kirk Hammett, il gruppo aveva riscosso un enorme successo con un trash-metal veloce e aggressivo, poi era passato al rock e alle ballate. A Berisha non dispiacevano, benché il loro non fosse il suo genere preferito. Comunque, sempre meglio della musica di oggi. Il rap italiano!
Accantonò le considerazioni sui Metallica, tornando alle questioni concrete. Doveva credere alla vecchia? Ammesso e non concesso che fosse sincera, cosa l’aveva spinta a cercarlo? Cosa voleva da lui?
“Se sono qui”, proseguì la donna, “è per una ragione precisa. Un conto sono i peccatucci, altro assecondare quel demonio. Se sono stata costretta a farlo, ciò non significa che questo mi sia piaciuto.”
Berisha si sentiva indeciso. Prestarle fede? Forse, si disse, però era necessario qualcosa di più convincente. A parole sono tutti bravi, ma poi devono seguire i fatti. E questi “peccatucci”, di cui aveva già accennato, sostenendo che aveva ottenuto il perdono di Dio, di che genere erano? Aveva rubato, accusato qualcuno ingiustamente, praticato il male sotto diverse forme? Non gli importava granché, in effetti; le domande più importanti riguardavano lui e la presenza inattesa della vecchia. Cercò di cogliere qualche segno di falsità dall’espressione del suo viso, ma non c’era luce a sufficienza per un esame attento.
Il tempo era cambiato, stava arrivando un temporale estivo, nel cielo balenavano i primi lampi, la pioggia era imminente. “Senta, adesso devo andare.”, disse Berisha, corrugando la fronte.
“Soltanto un attimo! Io vorrei aiutarla.”
Ci fu un silenzio. Berisha cambiò piede d’appoggio. Alla fine stabilì che non mentiva. Più che alla razionalità, si affidò all’istinto; in genere non lo tradiva. Aveva già degli alleati – il misterioso Aidan, Paola, il piccolo Vale – aggiungere alla lista la “strega” tutto sommato sarebbe potuto essere d’aiuto. D’altro canto, non vedeva rischi eccessivi in questo. Nondimeno, conservava ancora qualche dubbio.
“Perché si è rivolta a me? E come fa a conoscermi?”, chiese in tono brusco.
“Ho sentito parlare di lei in occasione del mio incontro con Lui.
“Ah. E cosa ha sentito?” Berisha era incuriosito.
La donna distolse lo sguardo.
“Che la distruggerà.”

“Notte. Night.
Sogno. Dream.
Sogni che si avverano.
Dreams that si avverano.
La frase completa era troppo difficile per il suo inglese imparato dai fumetti.
Si fermò, ansimando leggermente, e scrutò il panorama davanti a sé. Il sole stava calando in un prodigio di colori; ma non era questo che gli interessava.
Avvertiva un flusso crescente di calore, come una sensazione di forza e di benessere, e sentiva che il suo momento era arrivato. Indossava un paio di jeans stinti, un logoro giubbotto provvisto di varie tasche, e calzava stivali scalcagnati. Come Randall Flagg, pensò. Non era riuscito a leggere “The Stand” per intero, a causa dell’eccessiva lunghezza del libro e della complessità di molte parti, però aveva visto lo sceneggiato a puntate in tv, accompagnando la visione con innumerevoli lattine di birra chiara, e il resto se lo era comunque inventato.”
Come Randall Flagg comincia così: con una breve descrizione dell’Uomo Nero, il quale avverte un Potere sempre più forte circolare in lui, Potere che sarà usato per scopi malvagi.
Dopo l’Antagonista vengono presentati i protagonisti principali: Paola, una bella ragazza, Vale, un bambino intelligente, il professor Brenden Reed, un americano che si è trasferito in Italia per viverci gli ultimi anni (il paese dove abitano è presumibilmente Inverigo, in provincia di Como) e Berisha, un giovane slavo che assieme alla famiglia ha trovato lavoro nel bel Paese. Flagg entra nei loro sogni, terrorizzandoli, però non riesce a “vedere” le strane visioni di Berisha, riguardanti Neil Young e un eccidio a Travnik.

Travnik. Non erano bosniaci quei giovani, e neppure soldati croati fatti prigionieri: si trattava di volontari che appartenevano a un gruppo di aiuti umanitari, spinti fin lì dalla volontà di aiutare per quanto era possibile e adesso spinti a viva forza nel letame, finché le teste non scomparivano sommerse da quell’orribile sudario. Il capo dei serbi aveva sbiaditi occhi celesti, privi d’espressione; fumava e rideva, portandosi alla bocca la bottiglia di birra. Il sole al tramonto sembrava voler fuggire da quell’atroce scenario di morte. Travnik… fu come una stilettata di ghiaccio che scacciò la musica di Neil Young, e le sue parole d’amore e il suo canto avverso il razzismo.

Non cogliere tali visioni irrita non poco l’Uomo Nero: è come se un muro si frapponesse tra loro e il suo sguardo.
Flagg trova dei seguaci, salvandoli in vari modi dai pericoli in cui si sono cacciati. Essi sono Luca, un masturbatore ossessivo che in seguito sarà punito con la morte dallo stesso Flagg poiché non ha portato a termine un compito affidatogli, e Stradilasi, maestro di scuola pedofilo, ricercato per aver tentato di seviziare un bimbo. Vi è poi una vecchia svizzera, chiamata “la strega”, donna singolare che non rivestirà un profilo particolarmente attivo.
Il primo a essere eliminato è il professore americano, che aveva assunto il ruolo di guida per Paola, Vale e Berisha. Nel frattempo, Flagg sconfigge grazie ai suoi poteri magici un essere maligno che per i suoi oscuri fini aveva reso Consonno un luogo abbandonato. Flagg ne prende il posto, insediandosi nel paese fantasma (esiste veramente ed è in provincia di Lecco).

A un cenno di Flagg, dal nulla prese forma una scala mobile. Era del tipo di quelle che si trovano nei centri commerciali, nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti. Un tapis roulant che conduceva in basso, quanto in basso non era possibile stabilirlo perché sembrava procedere all’infinito. Dopo un attimo di esitazione, la Creatura lasciò cadere la spada, voltò le spalle ai lupi e saltò sul primo gradino. La scala prese a muoversi, in principio quasi con aggraziata lentezza, quindi in maniera sempre più veloce.
L’Uomo Nero accolse con una fragorosa risata le minacce che il suo Nemico gli rivolgeva urlando… solo che presto furono inghiottite dalla distanza, perdendosi in flebili eco, fino a lasciare campo a un silenzio assoluto.
Sotto vi erano fiamme scarlatte, e ancora più sotto un luogo che da migliaia di anni terrorizza l’umanità intera. Se la Creatura non ricordava da dove proveniva, lo scoprì nei successivi, pochi, secondi.
Randall Flagg congedò i lupi.
Poi tornò a sedersi e accese un’altra sigaretta.

Si presenta un nuovo, misterioso, personaggio: Aidan. Costui a sua volta conosce la magia, però a fin di bene. Dopo aver salvato Berisha da un pestaggio, raduna i tre superstiti e racconta loro di come Flagg aggredì, rendendola pazza, Giulia, la sua donna. Da molto tempo, Aidan è a caccia dell’Uomo Nero.

“Lei conosce l’Uomo Nero!”, sbottò d’un tratto Berisha. “Di persona.” Non era più una domanda, come nel pomeriggio, bensì un affermazione. Vale, Paola e Berisha aspettarono in religioso silenzio il responso dell’oracolo.
Aidan parve assentarsi. L’espressione del suo volto denotava che era immerso in profondi, inaccessibili pensieri; o forse erano ricordi, pensò Paola.
La cameriera si aggirava per il bar con aria annoiata.
Passarono due o tre minuti.
Poi Aidan rispose.

Paola è fortemente attratta da Aidan, sebbene intuisca che presto o tardi “il cavaliere errante” (così se lo figura) se ne andrà. Berisha è infastidito dalle sue molte reticenze; in ogni caso, è pronto a seguirlo. Vale stravede per lui.
Stradilasi si reca nella clinica dove è ricoverata Giulia e la sopprime, per ordine di Flagg. La vecchia svizzera si incontra con Berisha, dichiarando di non essere una strega e di aver ottenuto il perdono divino per certi suoi “peccatucci” di gioventù.
Chiedo scusa, ma non so scrivere i riassunti! A presto con il capitolo 22.

Negli ultimi tempi i giornali hanno spesso affrontato un argomento: la lenta agonia dei blog in contemporanea con l’ascesa dei cosiddetti “social”. In realtà, tale fenomeno non è affatto recente; semplicemente, la forbice si è allargata, con conseguenze, secondo me, disastrose.
Tra blog e – poniamo – la piattaforma Fabeboock esistono due differenze, l’una strutturale, l’altra relativa ai contenuti. Riguardo alla prima differenza, è facilmente identificabile: il blog, in linea di massima, comporta un impegno, quasi del tutto assente per chi sceglie di comunicare tramite FB. La seconda differenza, quella dei contenuti, rappresenta il vero lato negativo, fortemente negativo, di FB e degli altri “social”, vale a dire la totale mancanza di affidabilità. Notizie fasulle, “voci” di dubbia provenienza riportate senza il benché minimo controllo, per arrivare a insulti, minacce, bestemmie, incitamenti alla violenza. E’ questo il motivo che mi ha indotta – mesi fa – a lasciare un mondo che considero diseducativo e portatore di falsi ideali – direi, il nulla elevato a ideale.
In massima parte, le esternazioni più grossolane, volgari e farneticanti sono da ascrivere a coloro i quali rifiutano in toto il concetto di politica, dimenticando che da oltre duemila anni, pur con i suoi difetti, politica significa comunque confronto, dibattito, ricerca del bene comune e, laddove non vige una dittatura, democrazia. Combatterla a suon di slogan o propugnando improbabili assalti a un fantomatico Palazzo d’Inverno porta solo a una semplificazione priva di qualsiasi base culturale e colma, invece, di frustrazioni individuali. A differenza di chi nel ’68 si batteva, magari ingenuamente, per un “sistema” più giusto e umano, costoro mancano di spessore intellettuale. Sono il prodotto di una asocialità astratta che niente si propone al di fuori del concetto di rifiuto.
Lo schieramento è in ogni caso vasto e composito, fra chi si limita a insultare, chi invoca la pena capitale per deputati e senatori – specchio del Paese che li ha votati -, chi reclama a causa di governi non eletti dal popolo sovrano, scordando – o ignorando – che in Italia è il Presidente della Repubblica a nominare il primo ministro (quando furono Spadolini e Craxi a presiedere il governo non avevano certo la maggioranza dei voti).
Ai margini del “partito della negazione” troviamo persone che vivono alimentando in sé l’odio per i diversi, omosessuali, neri, slavi, e invidia per quanti si sono realizzati anteponendo i fatti alle parole (e lavorando, senza aspettare la manna dal cielo). Le cronache di ogni giorno testimoniano la gravità di questi esempi.
Non sono fenomeni circoscritti all’Italia, qui in Francia la situazione è uguale, così come gli atti di violenza.
Il resto è innocuo. Qualche battuta di spirito, rari spunti interessanti, poesie d’amore copiate da Google, polemiche calcistiche, resoconti di cene. Ma la spirale di incitamento all’odio, alla disgregazione, aumenta quotidianamente.
Risulta ovvio che i “social” non costituiscono tutto il male del mondo, né era mio intento sposare tale tesi. Non sono nemmeno, però, una fonte di bene.
Per questo io scelgo i blog.