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Posts Tagged ‘armata rossa’

Martin YarbesIl presidente del KGB scosse la testa. “Lei non è un semplice funzionario dell’ambasciata britannica: lei appartiene al SIS e ha un grado elevato.”
Weber chinò il capo sorridendo. “Non poi così elevato.”
Kryuchkov non rispose al sorriso. “Una spia inglese”, lanciò un’occhiata di fuoco a Lebedev, “e un traditore! Nel mio ufficio! Comunque, la ascolto. Ma sia breve.”
Weber annuì. “Sarò estremamente breve. In tutta onestà, io credo che le sue intenzioni siano sincere e che ciò che ha fatto risponda al desiderio di migliorare la situazione economica e politica dell’Unione Sovietica; tuttavia ha tralasciato un fattore molto importante. Il popolo sta dalla parte di Gorbaciov, e di Eltsin. E questo vale anche per il Gruppo Alpha, nonché per vasti settori dell’Armata Rossa. Quello che è successo davanti alla Duma ne è la prova. Si sarà chiesto perché le sue guardie del corpo non mi hanno fermato. La risposta è semplice. Hanno ricevuto una telefonata che li informava dell’unica conseguenza cui stavano andando incontro: la pena capitale. E hanno deciso di andarsene, in modo da dissociarsi dal colpo di Stato.”
Weber fece una pausa. Lebedev lo osservava con uno strano sguardo. Il viso di Kryuchkov era una maschera impenetrabile.
“La persona che ha parlato con i suoi agenti”, riprese Weber, “è in grado di salvarle la vita. Ma a un patto. Che salga subito su un aereo e vada da Gorbaciov. Il golpe è fallito, compagno presidente.”
“E chi sarebbe questa persona?”, domandò freddamente Kryuchkov.
“L’uomo che un giorno avrà in mano la Russia.”
“Eltsin?”
“Oh, no.”, disse Weber.
Con un cenno della mano Kryuchkov li invitò a uscire dallo studio.
Rimasto solo, fissò a lungo un punto imprecisato della parete.

Tali affermazioni erano però quantomeno premature.
Di lì a breve Janaev dichiarò lo stato d’emergenza. Per motivi che sfuggono alla comprensione il telegiornale di quella sera trasmise le immagini di Boris Eltsin che balzava sul carro armato e arringava la folla: forse l’intento era quello di screditarlo; ma certamente raggiunse l’effetto opposto. Alcuni membri minori del GKChP (Comitato di Stato per l’emergenza) accolsero con allarme la notizia che il maggiore Evdokimov della Tamanskaya si dissociava dall’operato dei golpisti. Non così Yazov e Pugo, i ministri della Difesa e degli Interni. Ci fu una riunione che si protrasse fino a notte inoltrata, nel corso della quale un Kryuchkov visibilmente turbato dalle parole di William Weber fu convinto a procedere.
Il venti agosto, a mezzogiorno, il generale Kalinin annunciò il coprifuoco nell’arco di tempo compreso fra le dieci di sera e le cinque del mattino dopo.
Era il segnale.
Nel pomeriggio di quel giorno si decise l’attacco finale alla Duma.
Malgrado le defezioni, il GKChP poteva contare sul Gruppo Vympel, sugli elementi del Gruppo Alpha rimasti fedeli a Pomarev, su tre compagnie di carri armati con il supporto degli elicotteri.
L’assalto era previsto per le due di notte, quando la gente che difendeva con barricate e armi di fortuna l’edificio che ospitava il parlamento sarebbe stata stanca e demoralizzata. Scarseggiavano cibo e acqua, anche se circolava qualche bottiglia di vodka. Soprattutto mancavano mezzi adeguati. A prima vista non sarebbe stato un problema occupare la Casa Bianca e conquistare definitivamente il potere, senonché si avverò ciò che aveva previsto Weber. Gruppo Alpha e Vympel si rifiutarono di muoversi dopo che tre civili erano stati uccisi.
Poi i primi veicoli corazzati comparvero, avanzando lentamente.
Ne seguirono molti altri.
Le sagome minacciose dei carri armati circondarono da ogni lato la Duma. La vista di un carro armato ha sempre un effetto terrorizzante e il panico si diffuse rapidamente. Qualcuno pensò bene di eclissarsi, ma la maggioranza non si mosse.
I mezzi corazzati presero posizione.
Sarebbe stato un massacro, ben più terribile di quando le truppe zariste avevano sparato sulla folla che chiedeva pane e giustizia.
Tuttavia, quando venne impartito l’ordine di fare fuoco, i carristi non obbedirono. Non erano afghani o ceceni gli uomini e le donne che avrebbero dovuto sterminare. Era il grande popolo russo.
La notizia giunse ai capi del GKChP.
Yazov era intenzionato a insistere.
Kryuchkov vacillava e fu il primo a cedere.

Davanti alla Duma, confuse nella folla, si trovavano quattro persone.
Due erano americane. Martin Yarbes aveva lasciato il rifugio di Sasha, dopo aver trascorso ore intere al telefono e al laptop. Aveva pianificato l’intervento di Weber e sollecitato Putin a chiamare la Lubjanka per minacciare le guardie del presidente del KGB. Vladimir si era limitato ad annunciare l’arrivo imminente di Gorbaciov, e questo era stato sufficiente per mettere in fuga gli agenti della seconda direzione centrale.
Yarbes aveva contattato più volte Patrick Keynes, il quale si affrettava a far giungere le notizie a Bush.
Sasha aveva mandato dieci energumeni armati fino ai denti per scortare Weber e Lebedev fuori dall’edificio, mentre Martin informava l’inglese in tempo reale che la strada era libera. Se anche Kryuchkov avesse voluto fermarli, al momento non era in grado di farlo.
Sebbene fossero passati molti anni da quando Yarbes era un hacker, e benché la tecnologia nel frattempo si fosse rapidamente evoluta, egli si era sempre tenuto aggiornato ed era ancora un mago del computer. Prima di uscire dalla casa sicura di Sasha, riuscì a collegarsi con la Crimea e trasmise le notizie che voleva che Gorbaciov apprendesse.
Fu lui a scorgere l’uomo armato, seguito da una decina di irriducibili, che scrutava rabbioso la folla. La sua figura spiccava inconfondibile nella luce dei fuochi che illuminavano la piazza.
Era il maggiore Miloslav Pomarev del Gruppo Alpha.
A poche decine di metri dall’agente della CIA, una donna scarmigliata e dall’aspetto esausto osservava ciò che stava accadendo. Malgrado le sofferenze patite, la paura, l’ansia e i dubbi che l’avevano attraversata, un osservatore attento avrebbe notato che era comunque una donna attraente, né gli sarebbe sfuggita l’espressione decisa che trapelava dal suo sguardo – l’espressione di chi ha rinunciato ai timori per affrontare la realtà. C’era tempo per soffermarsi a meditare sul senso del suo lavoro, su concetti relativi all’etica e alla giustizia: ma non era quello il momento. Se era stata Magdalina a convincerla a recarsi a Mosca oppure il suo orgoglio non è dato saperlo. Forse entrambe le cose.
Mentre si faceva largo per avvicinarsi alla Duma, Pomarev la vide e la riconobbe immediatamente.
Per qualche ragione, la riteneva responsabile di quanto stava succedendo.
Si diresse verso di lei.
Le altre due persone erano un cittadino inglese, fuori di sé per l’entusiasmo, e una giovane russa leggermente claudicante.
Il Bastardo sapeva che l’indomani sarebbe diventato il giornalista numero uno della Gran Bretagna, e non solo: la sua fama avrebbe varcato l’oceano.
Nadiya aveva lo strano presentimento che Monica Squire fosse lì, da qualche parte, mentre nella notte i carri armati vigilavano, e il mondo tratteneva il respiro.

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