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L’UOMO DI GHIACCIO 2

Klaus AltmannPer i londinesi la loro città è la più bella del mondo in qualsiasi stagione dell’anno. Kris Howe non condivideva tale opinione, soprattutto in un freddo giorno di gennaio, e riteneva che Washington fosse decisamente migliore sotto ogni aspetto.
Ma il suo malumore non nasceva dalla pioggia monotona che fin dalla sera precedente non aveva smesso di cadere incessante, né dalla missione che le era stata assegnata e che avrebbe potuto farle guadagnare una promozione. D’altro canto, a Langley Kris era considerata una stella in ascesa e lei ambiva a riconoscimenti e “medaglie”.
Snella, di una bellezza che non emergeva di primo acchito, intelligente, colta, raffinata e affascinante, aveva due soli difetti: era un’inguaribile individualista – il che non piaceva ai suoi capi, che amavano il lavoro d’equipe – ed era lunatica, con un fondo di pigrizia che irritava i colleghi.
Per il resto, era perfetta: sapeva sparare meglio di un uomo, possedeva un grande intuito, era psicologa e razionale. Benché fosse di corporatura esile, e non particolarmente alta, negli ultimi dodici mesi aveva perso un solo incontro di lotta, e non perché la sua avversaria fosse più forte – come in effetti era – ma per il semplice motivo che quel giorno non aveva alcuna voglia di battersi.
Per le colleghe più giovani costituiva comunque un importante punto di riferimento – un modello da seguire -, e per i grandi capi un talento, cui perdonare quasi tutto malgrado i mal di testa che causava. La sua seguace più promettente si chiamava Monica Squire; Kris l’aveva portata con sé a Londra in qualità di assistente e Monica ora la stava aspettando al May Far Hotel, non avendo titoli per partecipare a quella riunione riservata. Più tardi, Howe si sarebbe confrontata con lei. Le intuizioni di Squire erano spesso rivelatrici.
Prima, però, si sarebbe concessa un lunghissimo bagno, magari mentre Monica le serviva un drink.
Ma era il momento di concentrarsi.
Kris trasse un profondo respiro.
Seduta in una stanza insonorizzata al terzo piano della Century House, la donna osservava indignata il tedesco che negli ultimi minuti aveva esposto le sue idee con arrogante sicurezza ai due funzionari inglesi, rispettivamente John Baker del MI5 (sicurezza interna e controspionaggio) e Martin Forbes del SIS, che molti chiamano anche MI6 (operazioni all’estero). Il suo malumore derivava dal fatto che detestava il tedesco e quello che egli rappresentava.
Nikolaus Barbie, ex Hauptsturmführer della Gestapo, noto come il boia di Lione, era riuscito a far perdere le sue traccia dopo la caduta di Berlino. Un anno dopo fu però riconosciuto e arrestato. Anziché essere impiccato, come sarebbe stato giusto e doveroso (era responsabile di 1.424 omicidi, in massima parte di ebrei ma anche di bambini), la CIA decise di arruolarlo.
In seguito, ci furono forti pressioni perché fosse processato e condannato, ma dai piani alti giunse un “no” secco. A Langley ritenevano che potesse rendersi estremamente utile… e poi i morti, ormai, erano morti.
La cosa non deve suscitare eccessivo stupore, se si considerano molti casi analoghi e se si tiene presente che le bombe che gli americani scaricarono sul Vietnam erano state realizzate con il contributo di scienziati tedeschi, fra i quali gli ideatori dello Zyklon B, utilizzato ad Auschwitz con particolare entusiasmo.
Adesso Barbie si faceva chiamare Klaus Altmann, disponeva di documenti perfetti e operava a Berlino, lautamente ricompensato dagli anglo-americani.
Il solo guardarlo dava a Kris un forte senso di nausea.
Se Altmann aveva notato quell’ostilità, gli risultava del tutto indifferente.
“Il problema”, concluse “nasce dall’arrivo di un tenente del KGB. In base alla mia esperienza, posso affermare che è l’agente più pericoloso con cui abbiamo avuto a che fare fino a oggi. Diventerà capitano, maggiore, colonnello… tutto quello che vorrà, perché è un fuoriclasse. Io conosco gli uomini.”
E anche i bambini, pensò acidamente Kris.
“Cosa propone?”, domandò Forbes.
“Semplice. Va eliminato. E al più presto: ha già fatto mettere sotto controllo tutti i conducenti della linea della metropolitana che passa a ovest e, a meno di un miracolo, il nostro uomo è spacciato. E farà di più. Va ucciso. Senza indugio. Naturalmente, c’è un prezzo da pagare.”
“Naturalmente.”, disse Baker con voce piatta. Anche lui disprezzava Altmann ma, come tutti, doveva obbedire agli ordini.” Raccolse le sue carte e si alzò. “Le faremo sapere. Ci servirebbe un curriculum di questo tenente.”
Klaus fece un sorriso gelido. “Ecco. Tre copie.” Le porse ai due inglesi e all’americana che la prese con la punta delle dita.
Altmann puntò l’indice sul fascicolo che Baker stava infilando nella borsa. “Lì c’è tutta la sua storia. Studiatelo.”
Nessuno degli altri tre gli rispose.
“Buona giornata, signori.” Altmann batté i tacchi e uscì dall’ufficio.
“Nazista di merda!”, esclamò Baker, quando la porta si chiuse alle sue spalle.

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L’UOMO DI GHIACCIO 1

AleksandrBerlino, zona est. E’ una gelida serata invernale, la pioggia scende mista a neve, il cielo è cupo e ostile e la gente corre verso casa nella speranza di trovare un po’ di tepore.
L’americano alto che sarebbe morto un minuto più tardi uscì da un locale che forse ai tempi di Hitler aveva conosciuto momenti migliori. Mentre varcava la soglia effettuò la consegna e nessuno se ne accorse. Il tedesco si diresse verso un tavolo, l’uomo della CIA attraversò la strada. Gli spararono un istante prima che raggiungesse il marciapiede situato sul lato opposto.
“Idiota!”, sibilò Aleksandr Stavrogin all’agente della Stasi.
Da quando era stato eretto il Muro, ogni contatto fra la parte occidentale e quella orientale di quella che anni prima era stata la capitale più potente e orgogliosa d’Europa era vietato. Ciò nonostante, esistevano dei modi per trasferire informazioni importanti e, benché fossero estremamente pericolosi, alcuni uomini avevano deciso di correre il rischio in nome della libertà e della lotta al comunismo.
L’agente della CIA si chiamava Tom Parker e agiva senza copertura diplomatica. Questo implicava che, in caso di cattura, sarebbe stato torturato e ucciso. Ma non era la sua sorte che interessava al tenente della prima direzione centrale del KGB Stavrogin: lui voleva mettere le mani sul misterioso tedesco che reggeva le fila dell’organizzazione clandestina che tanti danni aveva procurato all’Unione Sovietica.
Quell’uomo ora si trovava all’interno del bar, ma qualsiasi cosa gli avesse passato l’americano, essa era già scomparsa. Era anche possibile che il traditore fosse uscito dalla porta di servizio e, in tal caso, era praticamente irrintracciabile. Inoltre, Stavrogin aveva visto soltanto una figura di media statura, avvolta in un pesante cappotto, e l’aveva vista solo di schiena. Era tutto da dimostrare, poi, che fosse lui e non un altro il nemico che cercava.
L’agente della Stasi era giovane e sciocco. Dopo aver pedinato a lungo l’inviato di Langley, preso da un’insulsa euforia, derivante dall’inesperienza, aveva deciso di sopprimerlo, senza considerare le conseguenze. E Stavrogin, almeno nominalmente, non era al comando dell’unità impegnata in quella missione. Toccava ai tedeschi dell’est, sebbene allo stato dei fatti fossero solamente dei servi di Mosca.
Il tenente del KGB scrutò i quattro agenti della Stasi. Nonostante indossassero indumenti adeguati, erano intirizziti. Il russo li valutò per quello che erano: nullità. Non erano mai stati in Unione Sovietica; in caso contrario, avrebbero appreso ciò che significava la parola “freddo”. E se avessero prestato servizio in Siberia, non sarebbero durati più di due mesi. Girò loro le spalle e si allontanò, incurante della neve che ora scendeva abbondante, ammantando la città di bianco.
Stavrogin, il cui nome in codice era Matrioska, conosceva diversi sistemi per trasmettere notizie provenienti dall’Urss al di là del Muro.
Uno di essi era legato alla metropolitana. Naturalmente, i vagoni erano blindati, tuttavia vi era un punto dove per un breve tratto il mezzo sconfinava all’aperto nel territorio occidentale e se i passeggeri potevano unicamente guardare, la cabina di guida non era sigillata. Però, quanti erano i conducenti?
Esistevano molti altri modi, alcuni dei quali assai fantasiosi, ma non per questo meno efficaci. La casistica era vasta quanto l’intelletto umano.
Per quello sarebbe stato importante fermare e interrogare l’americano, anche se Matrioska non ignorava che difficilmente un agente della CIA fosse sprovvisto di una capsula di cianuro.
Quello che Matrioska non sapeva era che, malgrado non raggiungesse il metro e ottanta, l’uomo cui stava dando la caccia un tempo era appartenuto alla Gestapo; di conseguenza possedeva esperienza da vendere, nervi solidi e un autocontrollo formidabile. Non si sarebbe potuto spiegare altrimenti la mancanza dell’altezza regolamentare.
Non a caso, nell’ambiente egli veniva chiamato L’Uomo di Ghiaccio.
Lavorava per gli americani e per gli inglesi in cambio di denaro, ma anche per un piacere più intimo e sottile: uccidere.
Vi era poi una terza ragione.

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Berlino, zona est. E’ una gelida serata invernale, la pioggia scende mista a neve, il cielo è cupo e ostile e la gente corre verso casa nella speranza di trovare un po’ di tepore.
L’americano alto che sarebbe morto un minuto più tardi uscì da un locale che forse ai tempi di Hitler aveva conosciuto momenti migliori. Mentre varcava la soglia effettuò la consegna e nessuno se ne accorse. Il tedesco si diresse verso un tavolo, l’uomo della CIA attraversò la strada. Gli spararono un istante prima che raggiungesse il marciapiede situato sul lato opposto.
“Idiota!”, sibilò Aleksandr Stavrogin all’agente della Stasi.

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IL FATTORE B 13

Alexsandr Alexsandrovic StavroginOre 9.40
Nel corso degli anni, Monica Squire aveva partecipato a numerosi seminari, alcuni dei quali obbligatori, altri come volontaria. Fra questi ultimi, le era rimasto particolarmente impresso nella mente quello di cinesica.
La cinesica è una scienza moderna che, attraverso due precisi passaggi, permette di comprendere se un individuo sta mentendo, oppure glissando su certi particolari. La prima fase ha come scopo la realizzazione del profilo base. Si ottiene mediante l’uso di domande di cui si conoscono già le risposte, domande “innocue” che non implicano alcun coinvolgimento emotivo del soggetto preso in esame. Durante questa fase, si osservano con attenzione la postura del corpo, il tono della voce, i movimenti anche banali – ad esempio, incrociare le braccia davanti al petto o le caviglie sotto al tavolo. Ciò serve per notare, in seguito, le reazioni a seguito di domande insidiose, che potrebbero indurre la persona che si ha di fronte a mentire.
Lo scostamento dal profilo base è indicatore di una menzogna.
Tale disciplina si rivela assai utile quando si ha a che fare con un agente di un servizio segreto straniero che ha deciso di cambiare campo. Quello che interessa non è la motivazione, soldi, scelta ideologica, rancore verso i superiori, ma l’attendibilità del passaggio di campo. Ai tempi del KGB, non pochi membri della prima direzione centrale finsero di tradire l’Unione Sovietica per poi trasmettere informazioni fuorvianti, inframezzate da notizie vere ma di scarsa utilità pratica.
Monica fece ricorso alla cinesica non appena prese posto all’altro lato della scrivania dove sedeva Silvio Berlini. Dietro esplicita richiesta dell’americana erano soli. Niente interprete, niente segretari o funzionari del partito di Berlini. Sorbirono il caffè in silenzio. Subito dopo, nel suo inglese un po’ approssimativo anche se comprensibile, l’uomo politico e imprenditore le raccontò due barzellette, sbirciandole ogni tanto il seno. Per una forma di cortesia, Monica sorrise. In realtà, le aveva trovate agghiaccianti.
Poi toccò a lei. Cominciò affrontando temi irrilevanti. “Il comunismo da sempre è la fonte di ogni male.”, osservò come avrebbe fatto una giornalista che lo stesse intervistando. “E’ d’accordo, presidente?”
Berlini, rilassato e sicuro di sé, si lanciò in un lungo sproloquio, che Monica ascoltò senza particolare attenzione. Conosceva già le idee dell’italiano al riguardo; ciò che le interessava era studiare il suo modo di muovere le mani, la frequenza delle pause, l’espressione degli occhi. Quello che tradisce un mentitore non è quello che dice ma come lo dice.
Lo mise ulteriormente a proprio agio spostando il discorso sulla sua grande passione: la squadra di calcio del Milan. Se Berlini si stava domandando qual era il senso di quei quesiti, non lo diede comunque a vedere. Dopo altre tre o quattro domande, Monica ritenne di avere ottenuto un profilo base piuttosto attendibile.
Passò alla seconda fase.
Berlini percepì il cambiamento d’atmosfera e pensò che Squire avesse esaurito i convenevoli con cui per gentilezza aveva esordito e che ora sarebbe venuta al dunque. Avrebbe preferito flirtare un po’ con lei. Benché gli piacessero le ragazze, non gli sarebbe dispiaciuto portarsela a letto; malgrado non fosse più giovane, la donna possedeva un notevole fascino. E per essere un’americana vestiva con classe.
“Lei si sarà chiesto il motivo che mi ha condotta in Italia per questo nostro incontro.”
Berlini annuì.
Monica lasciò passare alcuni secondi prima di procedere.
“Bene”, poi disse con calma, “la ragione che ha indotto i miei superiori a mandarmi qui è legata ad Angela Merkel.”
Sarebbe stato un grave errore dirgli che l’iniziativa era sua e che non l’aveva “mandata” nessuno.
Berlini si irrigidì.
“Non capisco.”, replicò, fingendosi stupito.
“Desidero essere molto franca, presidente.”, disse Monica ignorando la sua risposta, e prendendo mentalmente nota grazie al linguaggio del corpo che Berlini si stava già scostando dal profilo base, e quindi che mentiva. “Da quando è stata fondata, l’Agenzia per la quale lavoro ha portato a termine diverse operazioni… ehm… particolari. Erano necessarie per la sicurezza degli Stati Uniti e naturalmente dovevano passare inosservate. Pertanto, a Langley i miei capi non si pongono questioni morali – la morale è un concetto molto relativo, e può essere intesa in un modo o nell’altro, a seconda di chi prende in esame un dato fatto -, bensì di convenienza politica. Lei capirà, signor presidente, che il rischio di una pericolosa destabilizzazione a livello internazionale…”
“Mi consenta.”, la interruppe Berlini. “Mi sfugge il senso delle sue parole. Operazioni particolari, Angela Merkel… non comprendo proprio, mi creda.”
Monica notò tutta una serie di piccoli dettagli legati alla sua postura che indicavano chiaramente che Berlini stava mentendo di nuovo. Quel “mi creda” finale era la ciliegina sulla torta. Un chiaro indice di menzogna.
Monica continuò, impassibile. “A Langley la sua posizione viene vista con simpatia. I suoi motivi di risentimento nei confronti della signora tedesca sono comprensibili e il suo desiderio di cambiare le cose, in Europa, è legittimo. Tuttavia non è politicamente consigliabile. Anziché risolvere problemi, ne creerebbe molti altri con grave danno anche dell’Italia. Di conseguenza, a nome dei miei superiori, la prego di rivedere i suoi propositi.
La prego di rinunciare all’operazione.”
Monica si era espressa con garbo, sorridendo, e aveva usato di proposito il verbo “pregare” per due volte. Un’aggressione verbale sarebbe stata controproducente.
Ma Berlini si alterò e scattò in piedi. Puntò l’indice della mano destra sull’americana. “Lei mi sta insultando! Ma non finisce qui. Una nota di protesta…”
Questa volta fu Squire a interromperlo.
“Se l’ho involontariamente offesa, mi scuso. Non era certo nelle mie intenzioni. Le chiedo solo altri dieci minuti. Sono sicura che arriveremo a un accordo.”
Fece un sorriso soave.
Berlini tornò a sedersi, cupo in volto.

Ore 11.40 ora locale di Mosca
Il generale Vatutin fissava pensieroso Vitalij Denisov, il suo amico del FSB. Più tardi sarebbero scesi nella mensa per pranzare assieme.
Il colloquio con Putin lo aveva lasciato alquanto perplesso. Che Putin fosse un uomo enigmatico, era un fatto risaputo; ma le sue parole finali gli erano sembrate insensate.
Prima, inviava in gran segreto Stavrogin in Italia per eliminare Berlini. Poi, si congratulava con Vatutin perché il generale aveva deciso di sabotare l’operazione.
Comunque la si volesse mettere, c’era qualcosa che non quadrava. Aveva cambiato idea, a causa della sua amicizia con l’imprenditore italiano? Vatutin tendeva a escluderlo: Putin non cambiava mai idea. E allora?
E adesso aveva la risposta.
“Non ti ho mancato di rispetto, Boris Nikolaevic.”, ripeté Denisov. “Ho semplicemente obbedito agli ordini, com’era mio preciso dovere. Scusami, se ti ho detto quella piccola bugia; così mi era stato chiesto di fare. D’altra parte, ciò che conta è il risultato finale.”
Vatutin guardò fuori della finestra, riflettendo su quel comportamento machiavellico. Poi pensò ai mezzi degli americani, alle intercettazioni. E iniziò a capire.
“Figurati, Vitalij. Non sono in collera con te. Devo ancora mettere bene a fuoco ciò che è successo, anche se comincio ad avere le idee più chiare.
Quindi, è stato Putin a dirti di farmi avere quel rapporto, facendomi credere che agivi a sua insaputa.”
“Esatto.”, confermò Denisov.
“E’ un Maestro.”, mormorò Vatutin. “Promette una cosa alla CIA, di più, si attiva affinché qualcuno vada realmente in Italia… e contemporaneamente dispone che io lo venga a sapere. Conoscendomi, era sicuro che mi sarei opposto con tutti i mezzi possibili alla missione del capitano. Povero Stavrogin!”
Denisov scrollò le spalle. “Un vero Maestro!”, convenne.
“Una Volpe.”

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IL FATTORE B 12

Alexsandr Alexsandrovic StavroginSabato 16 marzo
Ore 5.00
Stavrogin scese dal letto un istante prima che squillasse la sveglia. Dopo una rapida doccia, indossò un paio di jeans, una maglietta di cotone e una camicia molto larga, sopra la quale mise un giaccone che sarebbe stato più indicato in pieno inverno. A piedi raggiunse il box, aprì il baule della Bmw, controllò ancora il fucile, dopodiché si tolse giaccone e camicia per infilarsi un giubbotto antiproiettile di kevlar. Poiché il kevlar non è in grado di proteggere da una pugnalata o da un proiettile perforante, il capitano del SVR aveva aggiunto un leggero pannello metallico costituito da una combinazione di alluminio e rame. Si rimise gli indumenti e lanciò un’occhiata alle flashbang. Sebbene fossero stati gli agenti del SAS britannico a servirsi per primi di tali strumenti – che erroneamente molti chiamano “granate” -, i modelli M84 che Aleksandr aveva con sé erano di fabbricazione americana, a suo giudizio decisamente i migliori.
Quando fu pronto, salì sulla macchina e imboccò la strada che da Lecco conduce a Erba. Si fermò nei pressi di Valmadrera per consumare una colazione a base di cappuccino e doppio toast farcito.

Ore 6.21
Il sole sorse preannunciando una splendida giornata. Maruska aprì la finestra della camera situata al secondo piano dell’albergo in cui aveva alloggiato in quei giorni. Respirò con piacere la fresca aria che sapeva di primavera, riflettendo sul fatto che in Russia invece era ancora inverno, poi si lavò, si vestì e mangiucchiò una briosche al bar dell’hotel che a quell’ora era già aperto. Bevve un caffè e una spremuta d’arancia, saldò il conto e uscì.

Ore 7.30
Luca Scalabrini si lasciò baciare con scarso entusiasmo dalla mamma, ficcò i libri di testo nello zaino che fungeva da cartella e dichiarò che quella mattina avrebbe risposto a tutte le domande dell’insegnante di storia: si era preparato benissimo e aveva imparato a memoria ogni cosa.
Una volta che fu fuori di casa, anziché dirigersi verso la scuola, aspettò l’autobus che lo avrebbe portato a Erba.

Ore 8.10
Monica Yarbes lasciò l’Hilton di Milano e prese posto sul sedile posteriore della Jaguar con autista che Berlini le aveva messo a disposizione. Durante il tragitto attraverso la Brianza ignorò il panorama per concentrarsi su ciò che avrebbe detto all’imprenditore italiano.
Si era preparata con estrema cura per quel colloquio. Aveva studiato l’uomo, analizzando i suoi punti di forza e le sue debolezze. Sapeva che aveva molti problemi con la giustizia e che quasi sicuramente di lì a breve sarebbe stato condannato: questa forse era la ragione che lo aveva spinto a ignorare i rischi che avrebbe corso, qualora il killer da lui assoldato fosse stato catturato dalla polizia tedesca. Sapeva che amava le donne giovani. E sapeva che era immensamente ricco. Forse pensava che con i soldi avrebbe potuto cavarsela, pagando avvocati e corrompendo magistrati. O più probabilmente meditava una grande uscita di scena.
In quest’ultimo caso, il compito di Monica sarebbe stato più difficile.
Comunque, era fiduciosa. Aveva ucciso Pomarev e Matrioska, imprese che a Langley venivano considerate leggendarie. In altre circostanze, era stata meno fortunata. Alti e bassi, ma gli alti erano di gran lunga superiori.
Ripassò mentalmente le note riportate sul dossier che riguardava Berlini. Il suo intercalare preferito era “mi consenta”. Con quelle due parole interrompeva i suoi interlocutori.
Di certo, Monica non gli avrebbe consentito di mentirle.

Ore 9.00
Quando Silvio Berlini scese dall’elicottero, Aleksandr lo inquadrò nel mirino del fucile, però non sparò. L’uomo politico era circondato da quattro guardie del corpo, che lo sovrastavano in altezza e lo coprivano. Infatti, un istante dopo era diventato un bersaglio impossibile da colpire.
Più tardi, sarebbe uscito in tuta da ginnastica per la consueta passeggiata e quello sarebbe stato il momento.
Prima Stavrogin avrebbe lanciato una flashbang. L’ordigno avrebbe generato un rumore insostenibile, creando sconcerto e distraendo i gorilla.
E allora il capitano del SVR lo avrebbe ucciso.

Ore 9.05
Maruska aveva individuato da tempo la Bmw e ora stava osservando la sua preda. Aveva scelto un buona posizione, considerò fra sé: in alto, nascosto dalla vegetazione, tuttavia a distanza di tiro. Forse era un po’ lontano dall’obiettivo, ma evidentemente aveva un’arma in grado di coprire quello spazio.
Maruska impugnò la Wilson e si avvicinò, muovendosi agilmente lungo una pista che correva fra gli alberi.
Aveva notato la flashbang. Dato che non disponeva di un silenziatore, avrebbe aspettato che Stavrogin la scagliasse. Subito dopo, avrebbe fatto fuoco. Era indispensabile ammazzarlo con la prima pallottola: Maruska era più forte di molti uomini, ma non di un capitano del SVR. In uno scontro fisico, a parità di addestramento Spetsnaz, una donna non poteva battere un maschio.
Ma lei non avrebbe sbagliato.
E al suo rientro in patria sarebbe stata promossa. La attendeva una fulgida carriera.

Ore 9.20
Dopo aver bighellonato per le strade di Erba, Luca fece incetta di merendine al bar della stazione. Era una giornata magnifica, il sole splendeva alto nel cielo limpido: sembrava di essere a maggio.
Il ragazzo si avviò verso la sontuosa dimora di Berlini. Si sentiva ansioso ed euforico. La sua fantasia galoppava ed egli si vedeva nei panni di un agente segreto.

Ore 9.30
Monica aveva scelto un abbigliamento classico: tailleur color grigio tortora e scarpe senza tacco di Ferragamo, anche perché era più alta del Cavaliere e intendeva metterlo a suo agio. D’altronde, poteva permettersele per via delle sue gambe slanciate. Trucco leggero. Ma, con una punta di malizia, aveva optato per una camicetta che poneva in evidenza il seno. Non era più una teen-ager, e pertanto a rigor di logica non rientrava nei parametri preferiti di Silvio Berlini; ciò nonostante era consapevole di essere ancora attraente. Non era una “culona inchiavabile”, pensò con un sogghigno.
Quando scese dalla Jaguar, fu accolta da una graziosa ragazza di circa vent’anni che la invitò a seguirla all’interno della grande villa.

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IL FATTORE B 11

Alexsandr Alexsandrovic StavroginMentre Monica Yarbes sbrigava le formalità alla dogana e pochi minuti dopo saliva su un taxi, molto lontano da lì, in un grande ufficio due uomini si stavano fissando negli occhi. Lo sguardo di entrambi era imperscrutabile. Se il generale Vatutin, direttore delle Operazioni del SVR, temeva per la propria sorte, non lo dava a vedere.
Davanti a lui, seduto a un’ampia scrivania, con le spalle rivolte alla finestra, Vladimir Putin alzò un indice e glielo puntò contro. Però, parlò con calma.
“Così, Boris Nikolaevic, lei ha deciso di sabotare una missione da me personalmente ideata e messa in atto.” Non era una domanda, bensì un’affermazione.
Vatutin si limitò ad annuire con il capo. Nel frattempo, si domandava quasi oziosamente quale sarebbe stato il suo destino. A parte le inevitabili dimissioni, per usare un eufemismo, le possibilità erano due: Siberia oppure condanna a morte. Non vedeva altre strade. Si augurò che non ci fossero ripercussioni per la sua famiglia. Poi si chiese chi lo aveva tradito, ma era una domanda inutile. Di chiunque si trattasse, non faceva differenza.
Putin si alzò per andare alla finestra. La neve aveva cessato di cadere e un sole timido era apparso nel cielo di Mosca. La primavera era ancora lontana, ma l’inverno si stava lentamente allontanando.
Putin rimase in quella posizione per diversi minuti, quindi si voltò e tornò a sedersi. Fra numerosi fascicoli, impilati con cura, sulla scrivania c’era un bicchiere colmo d’acqua. Il capo della Russia tirò fuori da una tasca una moneta, la scrutò pensieroso, dopodiché la immerse nell’acqua. Un istante dopo la recuperò con i denti, tenendo le braccia dietro alla schiena.
Non era la prima volta che Vatutin assisteva a quella scena. Da tempo pensava che fosse come una specie di mantra o un modo, alquanto singolare, per fare luce sui propri pensieri. Comunque fosse, non batté ciglio.
Putin depose la moneta e fissò nuovamente lo sguardo sul direttore delle Operazioni. “E’ possibile, pressoché certo direi, che la sua iniziativa la priverà di uno dei suoi migliori agenti. Potrebbe perdere Stavrogin – ed è l’ipotesi più probabile, dato che egli si trova all’oscuro di tutto -, oppure Maruska Filippovna Baraskova. Ambedue le prospettive sono deprimenti.”
“Ritengo sia più deprimente lavorare per quel branco di assassini della CIA.”, ribatté Vatutin. Perso per perso, non vedeva perché non esporre con chiarezza la sua opinione. Non per giustificarsi, ma per spiegare la ragione del suo comportamento. Due cose diverse, considerò fra sé.
Poiché era abituato ad analizzare e a soppesare ogni particolare, anche il meno rilevante, colse nelle ultime parole di Putin una nota strana. Non aveva detto: “uno dei migliori agenti del SVR.” Aveva detto: “uno dei suoi migliori agenti”. E aveva usato il futuro. Ne fu decisamente meravigliato. Lo stupore aumentò in seguito a ciò che Putin aggiunse.
Guardando un punto imprecisato della parete, disse: “Silvio Berlini è un mio amico.” Poi ci fu un lungo silenzio. Forse, il presidente della Russia ripensava alle serate in cui l’imprenditore italiano aveva cantato per lui le canzoni napoletane o forse ricordava le barzellette, i moti di spirito, l’allegria che caratterizzava l’uomo. O forse, nella sua mente emergeva dalle nebbie del passato il ricordo di quando i carri armati tedeschi avevano invaso l’allora Unione Sovietica, portando morte e distruzione. O, infine, forse focalizzava il pensiero sui danni che la CIA aveva causato alla sua patria. Magari, tutte e quattro le cose.
Gli occhi celesti si fissarono nuovamente sul direttore delle Operazioni del SVR. “Non sono in grado di richiamare Stavrogin. A questo punto, nessuno lo è. Gli americani pagheranno comunque il prezzo pattuito, anche se la sua missione dovesse fallire: non sanno di Baraskova. Qualora il capitano  Aleksandr Aleksandrovic Stavrogin dovesse perire, non sarebbe morto invano, perché il prezzo pattuito è alto.” Qualche secondo più tardi, soggiunse: “Ho cercato di agire per il meglio. Certe scelte sono dolorose, ma talvolta inevitabili. A noi serve l’amicizia degli Stati Uniti. Non possiamo farne a meno, e non sarò certo io a mettere a repentaglio le nostre relazioni con loro.”
Trasse un profondo respiro e, con grande sorpresa di Vatutin, lo congedò con una stretta di mano.
“Ben fatto, generale.”, disse.

Dopo i due giorni trascorsi a Milano, Aleksandr si concesse un sonno più lungo del solito. Si svegliò alle nove del mattino, si rase, fece la doccia e indossò indumenti puliti. A quell’ora non servivano più la prima colazione.
Uscì dall’albergo, si fermò in un bar vicino, dove ordinò cappuccino e una fetta di torta, poi raggiunse a piedi il box.
Spirava un vento freddo che proveniva dalle montagne che sovrastano Lecco, però il cielo era sereno e sgombro da nubi. Il capitano lanciò un’occhiata alle acque increspate del lago. Immaginava che fossero gelide, comunque era una visione affascinante.
Una volta che fu all’interno del box, prese il fucile, lo smontò e lo rimontò con attenzione, controllando che tutti i meccanismi funzionassero perfettamente.
L’arma pesava circa quattro chili, aveva una portata di ottocento metri ed era dotata di un caricatore da dieci colpi. La canna, piuttosto sottile, terminava con un soppressore di fiamma ed era internamente cromata in modo da aumentare la resistenza alla corrosione.
Oltre a quella era munito della pistola con cui aveva ucciso il sicario spagnolo; inoltre disponeva di altri due strumenti che avrebbero potuto dimostrarsi molto utili.
Quando ebbe terminato, il capitano andò a cercare un buon ristorante.
Durante il pranzo – uno squisito bollito misto con contorno di patate lessate, e senape e mostarda in abbondanza – meditò sul fatto che, come gli aveva detto Putin, era davvero fortunato ad agire in Italia: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna o in Francia il suo compito sarebbe stato alquanto più complicato.
Suo padre, Matrioska, era andato in America, passando dal Messico, si era sobbarcato un viaggio interminabile ed era giunto in Virginia. Lì aveva eliminato il cekista numero uno della CIA, John Lodge, per fare poi ritorno in Europa. Era stata la sua impresa più grande. Il giovane ufficiale rivolse lo sguardo al lago, rimpiangendo di non averlo mai conosciuto.

Quello stesso giorno, alcune ore più tardi, due persone osservavano interessate l’ingresso, che mediante un lungo viale porta alla villa di Berlini, a Erba.
A parte le macchine dei carabinieri, non c’era niente di rilevante da guardare. Ma entrambe le persone, benché per motivi diversi, sapevano che prima di sabato non sarebbe accaduto nulla.
La donna bionda, alta e attraente, cercava di stabilire dove Stavrogin avrebbe posteggiato la Bmw e che posizione avrebbe scelto per sparare.
Il ragazzino, smilzo e infreddolito, aveva preso la corriera da Pusiano, un paese distante pochi chilometri, spinto dalla curiosità. Il messaggio che aveva decifrato parlava chiaro. Sembrava tratto da uno di quei romanzi di spionaggio che suo fratello, maggiore di due anni, leggeva avidamente, mentre fingeva di svolgere i suoi compiti.
Il messaggio indicava chiaramente che in quel luogo sarebbe stato consumato l’omicidio del bersaglio, che il killer assoldato dal suddetto bersaglio era morto e che tutto procedeva a dovere. Tuttavia, nel caso che sabato il bersaglio non si fosse mostrato, l’azione sarebbe stata trasferita in un non ben precisato stadio di calcio. Luca Scalabrini aveva fatto due più due, pervenendo alla logica conclusione che in quel caso – per lui deludente – il teatro dell’assassinio sarebbe stato il Giuseppe Meazza di Milano.
La donna e il ragazzino si allontanarono più o meno nello stesso momento.

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IL FATTORE B 2

Alexsandr Alexsandrovic StavroginLa Brianza è un territorio situato nell’Italia settentrionale. I suoi confini sono, a nord, Asso, un paese posto sulla strada che conduce a Bellagio, dove i due rami del lago di Como, quello descritto da Manzoni e quello occidentale, si congiungono per formare un unico bacino; e a sud la città di Monza. Ai lati è delimitata da due fiumi, l’Adda e il Seveso. Sebbene non sia propriamente una regione, molti la considerano tale. I suoi abitanti hanno in comune tre caratteristiche: sono estremamente laboriosi, forti risparmiatori e piuttosto chiusi di carattere. L’industria prevalente è quella del mobile. In un’epoca di crisi, cittadine come Meda e Cabiate prosperano grazie ai ricchissimi acquirenti arabi.
Erba è una delle località più belle, immersa nel verde e in una cornice di ridenti colline. Dista pochi chilometri da Asso. La villa più grande di Erba è circondata da un vasto parco, delimitato da uno spesso muro, alto più di due metri, e sormontato da un reticolato di filo spinato. Il parco, così come il bosco, orientato a settentrione e a sua volta cintato, è sorvegliato giorno e notte da guardie armate. Al tramonto, vengono liberati i cani. Un sistema di telecamere controlla ogni centimetro della proprietà. Due macchine dei carabinieri stazionano in permanenza davanti all’unico ingresso. Da lì un lungo viale porta alla villa.
Silvio Berlini possedeva case a Milano, Roma, in Sardegna, in Giamaica, ma considerava la dimora di Erba il suo rifugio e vi trascorreva quasi tutti i fine settimana. Quando arrivava con l’elicottero personale si liberava dell’abito doppio petto blu, della camicia, della cravatta e indossava una comoda tuta da ginnastica.
Figlio di un dirigente di banca, Berlini aveva costruito un impero nel campo delle telecomunicazioni. Ma, in realtà, le sue attività erano talmente numerose e diversificate nei settori più disparati che era difficile stendere una mappa precisa dei campi di cui si occupava.
Anticomunista viscerale, mentre in Italia infuriava lo scandalo di tangentopoli e la Democrazia Cristiana si dissolveva, Berlini aveva fondato in tre mesi un partito, era riuscito nell’incredibile impresa di dar vita a un’alleanza con i neofascisti e la Lega – vale a dire, cani e gatti – e aveva vinto le elezioni. Successivamente, le aveva perse salvo poi rivincerle. Alla fine, era stato il presidente della repubblica a togliergli l’incarico di primo ministro.
Metà del popolo italiano lo amava, l’altra metà lo detestava. Ciò aveva reso l’Italia ingovernabile.
Negli ultimi tempi, il luminare che fungeva da suo medico personale a tempo pieno era alquanto preoccupato. Le dosi massicce di ormoni, uniti ad altri medicinali, che Berlini assumeva, contro il suo volere, per potersi permettere frequenti incontri sessuali con ragazze più giovani di quarant’anni, stavano minando il suo equilibrio mentale. Questo, almeno, era il pensiero del dottore.
Vero o meno che fosse, era comunque indubbio che da mesi Berlini coltivava un’ossessione quasi patologica.

Il capitano Stavrogin parlava correntemente quattro lingue. Oltre al russo e al tedesco, l’inglese e il francese. Con l’italiano se la cavava, ma con qualche difficoltà. Per questo, quando varcò senza problemi la frontiera di Ventimiglia, aveva con sé un passaporto perfetto a nome di Julien Leblanc, agente immobiliare di Antibes. Nel doppiofondo della valigia, ve n’era un secondo, intestato a Patrick Driver, un mobiliere di Manchester.
Stavrogin non aveva un aspetto tipicamente russo. Aveva preso dai nonni, in particolare quelli materni che erano originari della Baviera: poteva sembrare un tedesco, un austriaco, un inglese o un francese.
Era a bordo di una Bmw 320 turbo diesel di seconda mano, regolarmente acquistata a Nizza da un rivenditore di auto usate. Meno regolare era ciò che aveva nascosto nel bagagliaio e sotto l’auto; ma anche la perquisizione più attenta e scrupolosa molto difficilmente sarebbe servita a scoprire quello che era stato celato con grande abilità in entrambi i posti. E comunque non c’era motivo per cui la polizia lo fermasse e ispezionasse l’auto. Stavrogin rispettava i limiti di velocità, viaggiava sulla corsia di destra e aveva tutta l’aria del turista intento a godersi una bella vacanza in Italia. In Russia era ancora pieno inverno, con i fiumi ghiacciati e i giardini coperti di neve; in Liguria il clima era già primaverile, sebbene fosse soltanto l’otto marzo. Stavrogin immaginava che probabilmente, più a nord, il tempo sarebbe stato meno mite. Ma il capitano amava il freddo.
Si fermò per fare il pieno e per mangiare un sandwich nei pressi di Pavia. Come aveva previsto, pioveva e il cielo era grigio. Giunto a Milano, imboccò l’autostrada dei laghi, prese la deviazione per Como e uscì al casello di Lomazzo. Aveva studiato attentamente tutta la zona e sul sedile del passeggero c’era una carta geografica. Il panorama, bello nei mesi caldi, dava una sensazione di tristezza. Passò per Cermenate, evitò Cantù svoltando a sinistra e, quando fu a Olmeda, girò a destra. Dieci minuti più tardi era a Montorfano. Posteggiò la Bmw e attraversò la strada per bere un caffè al bar Crème.
Si sedette a un tavolino d’angolo, dove fu servito da una ragazza molto carina.
Decise che avrebbe aspettato l’indomani per andare a Erba a effettuare una prima ricognizione. Era abituato a preparare i suoi piani con estrema cura, senza tralasciare il minimo aspetto; quando tutti i tasselli combaciavano e il quadro era completo, allora sferrava il colpo… e non falliva.
Lanciò un’occhiata alla ragazza del bar. Era alta e flessuosa, ma non era il momento di pensare al sesso. Si limitò a ordinare un secondo caffè.
Quella sera cenò da Sonia, una pizzeria vicina al lago di Montorfano, e si coricò presto, all’hotel Albavilla, dove aveva prenotato una camera telefonando da Nizza.

Benché fosse alquanto sorpresa, Maruska non manifestò in alcun modo il suo stupore.
Si limitò ad ascoltare, ad annuire e a prendere nota mentalmente di ogni dettaglio. Il mondo era strano, pensò, ma il suo compito non era quello di filosofeggiare, bensì di obbedire agli ordini e di agire.
Maruska aveva ventotto anni, era alta un metro e settantacinque, pesava sessantasei chili ed era in condizioni di forma invidiabili. Era anche decisamente attraente, anche se non graziosa. Soprattutto aveva un quoziente d’intelligenza elevatissimo. Questo le aveva permesso di affrontare con successo molte prove, e in un prossimo futuro – ne era certa – l’avrebbe fatta salire molto in alto. Se aveva un difetto era l’eccessivo orgoglio, che però a conti fatti poteva essere un pregio. Erano le due facce della stessa medaglia.
L’uomo seduto di fronte a lei non le fornì spiegazioni e Maruska non fece domande.
Quando uscì dall’ufficio, andò a casa a preparare i bagagli.

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IL FATTORE B 1

Alexsandr Alexsandrovic StavroginVladimir Vladimirovic Putin accolse con un sorriso il direttore della CIA e lo invitò ad accomodarsi.
“Quanti anni!”
“Davvero troppi.”, confermò l’americano restituendo il sorriso.
In realtà, sarebbe dovuto essere in pensione già da tempo: se, malgrado l’età avanzata, continuava a dirigere Langley era per una ragione precisa. Come altri suoi predecessori, e a differenza della Gran Bretagna dove si privilegiava la professionalità, Obama avrebbe voluto mettere a capo dell’Agenzia un politico. Alla base di quel desiderio c’era lo stesso motivo che aveva indotto altri inquilini della Casa Bianca ad effettuare tale scelta: un politico avrebbe svolto il proprio compito nel rispetto della legalità, riferendo sempre e comunque ogni cosa a Washington. Soprattutto non avrebbe mai preso decisioni azzardate, senza una preventiva autorizzazione.
Ciò non accadeva con i direttori che provenivano “dal campo”, i quali si sentivano liberi di organizzare segretamente azioni avventuristiche e spesso pericolose. L’elenco era lungo.
Tuttavia questo avrebbe causato problemi con i vertici della CIA. Perciò il presidente degli Stati Uniti tergiversava. Avrebbe potuto imporsi, ma preferiva evitare una controproducente serie di polemiche. Quando i tre o quattro papaveri più grossi si fossero ritirati a vita privata, sarebbe cessata ogni opposizione e lui avrebbe nominato il proprio candidato. Dato che mancava poco, nel frattempo Barack Obama pazientava.
Per quanto lo riguardava, il direttore sarebbe stato felice di trascorrere le sue giornate con la moglie, l’unico figlio e i suoi amati boschi. Però, conosceva il suo dovere.
Putin guardò con curiosità l’uomo che era arrivato a Mosca con un passaporto falso. Il nome riportato sul documento era William Baldwin e naturalmente era falso come il passaporto. “A cosa è dovuta la sua visita in Russia?”
Il direttore della CIA tolse dalla borsa un fascicolo e lo posò sulla scrivania. “Abbiamo un problema.”, disse.
Putin lo scrutò attentamente. “Di che genere?”.
“Riguarda due Paesi che rientrano nella nostra sfera d’influenza. Questo e quest’altro. Ma, per certi motivi, sarebbe preferibile un intervento… diciamo, esterno.”
“Russo?”
“Se fosse possibile, signor presidente. Naturalmente, ricambieremmo il favore. Sarà sufficiente una sua parola.”
“La ascolto.”
Yarbes parlò per circa venti minuti.
“Un compito per l’SVR.”, mormorò alla fine il russo. Prima di arrivare alla presidenza, era stato un agente del KGB e in seguito il capo del FSB, l’organizzazione che, dopo il fallito colpo di Stato del 1991, per volere di Gorbaciov aveva sostituito la seconda direzione centrale. L’SVR era succeduto alla prima direzione centrale. L’SVR agiva all’estero, l’FSB si occupava della sicurezza interna, della repressione e del controspionaggio entro i confini della Russia; in pratica quello che faceva un tempo il KGB, ma con minori poteri.
Putin aveva esperienza da vendere nel campo dello spionaggio e dei suoi diversi aspetti, anche quelli più oscuri. Forse, meditò, era preferibile un uomo abituato ad agire da solo. Nel SVR c’erano troppi spifferi. Represse un sospiro, rammentando che un tempo Yazenevo e la Lubjanka erano due inaccessibili fortezze. D’altro canto, allora gli Stati Uniti erano il nemico numero uno, ed era necessaria la massima allerta. Adesso tutto era cambiato.
“E volete qualcosa di definitivo?”
Yarbes chinò il capo.
Entrambi erano consapevoli che il politico da eliminare era un vecchio amico del russo. Oltre all’amicizia e alla simpatia reciproca, c’erano in gioco varie questioni di affari. Come sempre la Russia era affamata di soldi, ma realisticamente i dollari facevano più gola dell’euro.
“Potremmo sabotare l’operazione, senza uccidere l’uomo.”, osservò Putin meditabondo.
Yarbes scosse la testa. “Ci riproverebbe. Per lui questa è divenuta un’ossessione. E nella sua attuale situazione non ha nulla da perdere.”
“E’ anziano. Non vivrà ancora a lungo.”, obiettò il russo.
“Abbastanza a lungo per fare un secondo tentativo, e un terzo, se necessario.”
“Dovrò consultarmi.”, disse Putin.
Yarbes rimase impassibile. Tutti sapevano che Vladimir governava come un monarca assoluto. Politburo? Comitato centrale? Chi erano costoro? Per ironia della sorte era stato Boris Eltsin a dare tutti i poteri al presidente della Russia, proprio l’uomo che aveva salvato la democrazia in occasione del fallito putsch.
“Il risultato finale sarebbe un governo di destra. Senza la sua ingombrante presenza, quel che resta della sinistra perderebbe sicuramente le prossime elezioni.”, considerò fra sé Putin.
Yarbes scrollò le spalle. “E’ il nostro ultimo pensiero, signor presidente. Un esecutivo vale l’altro. Il problema è il concreto rischio di una tremenda destabilizzazione che riguarderebbe tutta l’Europa occidentale, e di conseguenza anche gli Stati dell’est.”
Putin si alzò e andò alla finestra. Cominciava a nevicare. Rifletté a lungo, quindi si voltò e fissò Yarbes.
“Lei si presenta sempre con notizie sorprendenti.” Si riferiva a quando l’americano lo aveva informato delle intenzione di Kryuchkov e Janaev, all’epoca del golpe.
“Però, vere.”, replicò Yarbes.
Putin annuì. “D’accordo. Provvederemo.”
Convocò la prima segretaria e le impartì alcuni brevi ordini.
“E adesso le offrirò una buona cena.”, disse all’americano, quando la donna si chiuse la porta dell’ufficio alle spalle.
Uscirono nell’inverno gelido e, scortati da quattro macchine, raggiunsero un piccolo locale posto alla periferia orientale di Mosca. Yarbes lo ricordava bene. Lì i due si erano conosciuti.
Il ristorante era vuoto. Se a qualcuno fosse venuto in mente di gustare il buon cibo di quella locanda, sarebbe stato gentilmente dissuaso dal farlo.
Mentre finivano di mangiare, una guardia del corpo annunciò che Aleksandr Aleksandrovic Stavrogin era arrivato.
“Harasciò.”, disse Putin.

Il capitano Stavrogin era alto più di un metro e ottanta, indossava un lungo cappotto, aveva i capelli scuri e non assomigliava ai suoi genitori.
Si avvicinò al tavolo dove sedevano i due commensali e scattò, rigido, sull’attenti.
Putin gli fece cenno di sedersi. Incredulo, il capitano obbedì.
Era nato in Germania, figlio illegittimo. Sua madre non usava contraccettivi e, a differenza di due altri “incidenti di percorso”, quella volta si rifiutò di abortire. Il piccolo Aleksandr crebbe senza conoscere il nome del padre. Elke si dimostrava sempre molto vaga al riguardo. Ciò che apprese fu soltanto che era un soldato russo. La mamma lo amava moltissimo, tuttavia gli impartì un’educazione teutonica. Se altri bambini erano viziati, lui non lo era. Crescendo, si distinse negli studi, nello sport e trascorse le vacanze svolgendo mille lavoretti, sebbene Elke fosse ricca e non avesse bisogno del suo contributo. Quando compì quindici anni, scoprì finalmente chi era suo padre. Era morto nove mesi prima che lui nascesse. Da quel giorno studiò assiduamente il russo, che ora conosceva come il tedesco.
“Aleksandr Aleksandrovic”, esordì Putin guardandolo negli occhi, “tutto quello che le dirò questa sera, e in un successivo incontro, è un segreto di Stato.”
“Signor presidente!”
“Nessuno dovrà venire a conoscenza del piano che lei preparerà, attuerà e porterà a termine. Mi auguro con successo.”
Il capitano sostenne lo sguardo. Ogni risposta, pensò, era superflua.
“Questa operazione”, proseguì Putin, “non riguarda l’SVR, né l’FSB, né qualsiasi altra organizzazione. Non riguarda i suoi superiori. Riguarda solo lei. E lei riferirà soltanto a me. L’ho scelta perché la considero il migliore… un futuro generale.”
“Signor presidente!”
A diciotto anni, Aleksandr si era recato in Russia. Con sé aveva una lettera di sua madre, indirizzata personalmente a Vladimir Putin. Dopo tre mesi, Putin acconsentì a riceverlo, lesse la lettera, manifestò un certo stupore, dopodiché lo sottopose a un duro interrogatorio, degno di Lefortovo. Venti giorni più tardi, sostenuti gli esami del DNA oltre a innumerevoli visite mediche, e superata brillantemente una prova ostile con la macchina della verità, il giovane ottenne la cittadinanza russa, il diritto di portare il nome di suo padre e fu ammesso all’accademia preparatoria del SVR, dove risultò primo in tutti i corsi. Compì la sua prima missione a ventidue anni. Fu promosso capitano sei anni dopo.
“Dovrà andare in un Paese straniero. Per sua fortuna, non gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o qualche letamaio arabo. Una nazione poco organizzata, con servizi segreti e polizia alquanto inadeguati: ciò le faciliterà il compito. Anche se, comunque, non sarà un compito semplice.”
Putin fece una pausa.
Poi gli porse l’incartamento che Yarbes aveva portato dall’America. Il direttore della CIA si chiese che reazione avrebbe avuto il giovane ufficiale, se avesse saputo che era stata sua moglie, Monica, a uccidere suo padre.
“Studi attentamente questi fogli, si imprima tutto nella memoria e quindi li bruci. Nessuno, insisto nessuno, dovrà mai vederli. Se avrà successo, sarà promosso. Ma se, malauguratamente, dovesse fallire, io sarò costretto a dimenticarmi di chi è figlio.”
“Non fallirò, signor presidente.”

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Monica Squire Il Crepuscolo della LubjankaSe Monica Squire avesse assistito al colloquio fra Martin Yarbes e Miloslav Pomarev, non si sarebbe certamente entusiasmata.
Obbedire agli ordini, quali che fossero, calpestare le vite altrui, torturare, ammazzare, inquisire. Forse per Yarbes era normale, non per lei.
Monica era un’agente della CIA e, in quanto tale, non aveva mai disobbedito a un superiore, dimostrandosi sempre ligia al proprio dovere; ciò, tuttavia, non le impediva di mantenere una posizione etica e di essere scettica nei confronti di azioni che, dentro di sé, giudicava riprovevoli.
Per Yarbes provava sentimenti contrastanti. Un tempo lui l’aveva derisa, sostenendo che non era riuscita a resistere al solletico ai piedi che le aveva praticato la spia russa, Aglaja. Non era vero. Baba Yaga, il nome in codice di Aglaja, non era interessata a quelle sciocchezze, aveva una mentalità molto più pratica. Monica non aveva subito il solletico, bensì torture assai peggiori, ripetute scosse elettriche e il terribile waterboarning.
Yarbes si confondeva con Nicole Parker, una ex collega che in Cina aveva patito quel supplizio e che in seguito si era uccisa. (Ma i cinesi non si erano certo limitati al solletico. Le avevano impedito di dormire, le avevano lesinato il cibo, l’avevano percossa). Yarbes era intransigente con chi tradiva, e Monica, comunque la si volesse mettere, aveva tradito.
Poi, però, Martin l’aveva difesa davanti alla commissione disciplinare della CIA. Era un uomo enigmatico, apparentemente privo di emozioni. Imperscrutabile… come Matrioska.
Monica aveva visto morire John Lodge davanti alla sua casa, e dato che ciò era successo a causa della sua debolezza non si era mai veramente perdonata; aveva ucciso Aglaja e Matrioska: ma nessuno di questi fatti, per vari versi devastanti, era paragonabile alla morte di Nadiya.
John Lodge era stato un valido compagno d’azione e un amore mancato, Aglaja una spietata serpe, Matrioska un uomo insondabile che, in altre circostanze e se lui fosse stato diverso, avrebbe potuto amare.
Nadiya in teoria sarebbe dovuta essere la sua carnefice, in realtà era diventata la sua schiava, e poi, forse, il talismano che avrebbe saputo rendere i suoi giorni felici. Si era sacrificata per lei, e non esiste al mondo una prova più grande dell’amore vero.
Se Yarbes era freddo e cinico, Monica era diversa.
Forse debole, forse troppe volte insicura. Guardò a lungo la donna russa che le aveva donato tutto: il suo cuore, la lealtà per l’Unione Sovietica, i suoi sogni. Sadica? Masochista? Parole sciocche, vuote, prive di significato, a fronte del sentimento che era nato e si era sviluppato fra loro. Più sincera Nadiya, più calcolatrice Monica, e questa consapevolezza rendeva il suo strazio maggiore.
Si inginocchiò accanto alla salma e continuò a piangere.
Per qualche motivo, si soffermò ancora a riflettere su Martin. Forse perché dopo Lodge, dopo Nadiya, rappresentava il suo ultimo appiglio. Era più ciò che li divideva di ciò che li accomunava; però entrambi amavano la natura (Yarbes le aveva svelato il suo sogno giovanile di diventare guardiacaccia), servivano la loro patria e avevano sempre considerato il comunismo come il principale nemico da sconfiggere. E, forse, Martin Yarbes conservava un fondo di umanità, sconosciuto a Matrioska, del quale in ogni caso lei si era invaghita.
Di Yarbes ammirava la forza, la mancanza di paura, il senso di protezione che a volte le infondeva. Se esisteva dell’altro, non lo sapeva. Non ancora, almeno.
Quando si rialzò, raccolse la Tokarev di uno degli assassini e si avviò verso la Duma, camminando come una sonnambula, gli occhi rigati di lacrime e il cuore a pezzi.
A un tratto scorse il maggiore del Gruppo Alpha che puntava una pistola su Yarbes.
Si sentì cattiva, cattiva e spietata, oltre ogni limite.
Pomarev era il responsabile della morte di Nadiya.
Nella piazza la confusione era indescrivibile. Scorreva vodka a fiumi e gli sguardi di tutti erano rivolti allo starets Zosima, che inneggiava al trionfo del popolo e alla sconfitta dei malvagi. Nessuno badò a lei.
Un istante prima che Pomarev premesse il grilletto, Monica appoggiò la canna della Tokarev sulla sua nuca.
Pomarev lasciò cadere a terra l’arma.
“Brava, Squire!”, esclamò Yarbes. “Ora lascia fare a me.”
Tese una mano, ma Monica scosse la testa.
“No.”, disse. “Questa è una faccenda solo mia.”
Martin avrebbe voluto obiettare, ma qualcosa nell’espressione della donna lo dissuase dal farlo.
Monica si rivolse al russo. “Mi segua, maggiore.”
La mente di Yarbes corse a Cannes: anche in Francia Squire gli aveva soffiato il bersaglio, qui però gli aveva salvato la vita. In America era stato lui a salvarla, quando aveva fatto irruzione nel cottage vicino al lago; quindi, ora erano pari. Ma c’era dell’altro. Se sulla Costa Azzurra Monica aveva già ripagato ampiamente il suo debito nei confronti della CIA, a Mosca era andata oltre. Era come se, in una partita di basket, avesse segnato un canestro da tre punti tirando dalla propria area, o realizzato un fuoricampo, in un incontro di baseball. Era una vincente.
Benché fossero molto diversi fra loro, all’improvviso fu raggiunto da un pensiero a dir poco singolare. Si presentò del tutto inaspettato: da sempre, sapeva che un giorno avrebbe conosciuto una donna forte e coraggiosa, la compagna ideale per un uomo come lui. La compagna con cui dividere la vita. E adesso l’aveva trovata. Con un sorriso, si rese conto che quel pensiero non lo sorprendeva più di tanto.
Li guardò andar via, augurandosi di rivederla.
Monica e il suo prigioniero si allontanarono.
A circa dieci metri di distanza, due soldati li stavano osservando. Uno era alto e biondo, dai tratti nordici, l’altro, scuro di pelle, sembrava di origini tartare. Il biondo si mosse per tentare di seguirli, ma inciampò. Era completamente ubriaco. “Lascia perdere!”, bofonchiò l’orientale. Anche lui si reggeva a stento in piedi. Dalle mani gli cadde una bottiglia di pessima vodka. Fortunatamente era vuota.        
Squire e Pomarev attraversarono la piazza e imboccarono una strada laterale.
“Fermiamoci qui.”, disse Monica.
Pomarev le rivolse uno sguardo beffardo.
“D’accordo. E adesso cosa pensa di fare?”
“Non lo indovina, maggiore?”
Lui rise. “Le manca il coraggio, americana! Mi consegni la pistola, e sarò clemente con lei.”
Monica ricordò il suo ultimo confronto con Matrioska. Pomarev gli assomigliava: non manifestava il minimo timore, era arrogante e sicuro di sé.
Ma con lui non c’era stata alcuna relazione sessuale.
Poi accadde.
Con un movimento fulmineo il maggiore del Gruppo Alpha le afferrò il polso, torcendolo. Era una stretta micidiale e Squire gemette per il dolore. Lentamente, lui la costrinse ad abbassare il braccio. Monica cercò di resistere ma era impossibile: era quattro volte più forte di lei. Questione di un attimo e la pistola le sarebbe sfuggita dalla mano. Mentre lottava disperatamente, Pomarev sibilò: “Non la ucciderò, non si preoccupi. La accompagnerò personalmente a  Kolyma. Un lungo viaggio in treno, e lì… interminabili giornate di lavoro nel gelo, tanto pesanti che lei si augurerà di morire. Un cibo misero che comunque non potrà mangiare perché le altre detenute glielo impediranno per dividerselo. E se si ribellasse commetterebbe un grave errore. Un’americana per quelle prigioniere è il simbolo di una ricchezza mai avuta, soltanto sognata. Le ficcherebbero la testa nelle loro feci. Perderà i denti e i capelli. Alla fine, le verrà il tifo. Purtroppo non avrò il piacere di vederla dormire nei suoi escrementi, né di sentirla piangere. Se è vero che la nostra azione patriottica è fallita, andrò altrove. Ci sono guerre ovunque e uno come me sarà accolto a braccia aperte in qualsiasi luogo.”
Monica non poteva saperlo, ma era possibile che ciò che gli aveva detto Yarbes lo avesse convinto della sconfitta.
Pomarev diede un ultimo strattone.
Monica strinse i denti per resistere. E a un tratto si rivide a Langley: le parve di udire la voce di Susan Cooper mentre, durante l’addestramento, le insegnava alcune tecniche di combattimento. Si contorse per guadagnare un minimo spazio e gli sferrò una violenta ginocchiata all’inguine. Con un grugnito, lui lasciò la presa.
Monica indietreggiò di qualche metro e, ignorando il dolore al polso, sollevò nuovamente la Tokarev.
Mirò a una gamba e Pomarev si accasciò.
Dopo un momento, Monica sparò di nuovo, all’altra gamba.
Miloslav Pomarev non emise un gemito.
La guardò, con un’espressione di stupita e riluttante ammirazione.
Un elicottero passò, volando basso. Risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco, non si capiva da dove, né chi avesse sparato a chi.
Dalla piazza giungevano voci esultanti e cori non particolarmente intonati.
La notte si avviava a diventare mattino. Il cielo a est andava schiarendosi, preannunciando un’altra giornata torrida e afosa. Sarebbe stata la giornata della resa dei conti definitiva.
Pomarev cercò di rialzarsi, senza tuttavia riuscirci: anche per un uomo del Gruppo Alpha esisteva un limite.
Monica si mise a gambe larghe su di lui.
“E’ pronto per l’inferno, maggiore?”

IL CREPUSCOLO DELLA LUBJANKA
GRAZIE PER AVER LETTO QUESTA STORIA

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Maggiore Miloslav PomarevDal Daily Telegraph, 31th December 1994
proseguendo in questa breve rassegna dedicata agli avvenimenti più importanti, o comunque degni di menzione, dell’anno che sta per finire, va citata la scarcerazione di Vladimir Aleksandrovich Kryuchkov.
Kryuchkov è stato probabilmente il peggior capo del KGB, l’ex servizio segreto della Russia; egli era sostanzialmente un burocrate, privo di esperienze sul campo, e doveva la sua carriera all’appoggio di Andropov, l’uomo che lo aveva preceduto al vertice di quella che un tempo era forse l’organizzazione più potente del mondo.
Kryuchkov fu uno dei principali artefici del fallito putsch dell’agosto del 1991. Un Colpo di Stato male organizzato, che non tenne in conto il sostegno che il popolo russo avrebbe dato a Gorbaciov e soprattutto all’attuale presidente, Boris Eltsin. Fonti attendibili attribuiscono la liberazione di Kryuchkov al fattivo interessamento di Vladimir Putin
John Wyman

Mentre, davanti al palazzo della Lubjanka, la folla smantellava la statua di Felix Edmundovich Dzerzhinsky, il fondatore della Ceka, accaddero due fatti.
Gli agenti della seconda direzione centrale che avevano seguito Pomarev furono richiamati freneticamente all’interno del Cremlino: un carro armato delle forze “lealiste” lo stava prendendo d’assalto.
Un istante dopo, risuonò uno sparo. Pomarev fu colpito a una spalla. Malgrado fosse stato colto di sorpresa, reagì con incredibile prontezza. Si gettò a terra, si girò e fece fuoco tre volte, in rapida successione. William Weber barcollò e si accasciò al suolo. Morì pochi secondi più tardi.
Il maggiore del Gruppo Alpha si rialzò prontamente, puntando la pistola su Yarbes. “Anglichanin!”, disse con disprezzo. “Pessima mira: ho solo un graffio.”
Yarbes lo fissò. “Noi due non siamo diversi.”, affermò in tono pacato. “Tutti quelli che partecipano al grande gioco sono simili. Obbediscono agli ordini, quali che siano; non hanno il tempo per soffermarsi a riflettere su concetti vaghi quali pietà, umanità, leggi morali. Agiscono.”
Lanciò uno sguardo al corpo inanimato di Weber, quindi aggiunse: “Da parte mia, compagno maggiore, non ho esitato a uccidere un agente dell’FBI, né a mentire a un traditore dell’Office of Security. Si chiamava Dan Capshaw. Prima l’ho torturato, poi gli ho promesso che sarebbe finito in un carcere federale.” Scosse la testa. “Non ho mantenuto la promessa.”
“E’ la sua orazione funebre?”, gli chiese ironicamente Pomarev.
Yarbes ignorò la domanda. “Io non la giudico, maggiore. Come me, fa ciò che le è stato comandato di fare. Ma quello che voglio dirle è che il golpe è fallito. Tutti i suoi sforzi ormai sono vani. La biscia si è rivoltata al ciarlatano. Adesso l’Armata Rossa sta dalla parte di Eltsin. Voi siete finiti.”
“Interessante.”, replicò il russo. “Quello che invece voglio dirle io è che non mi importa minimamente se ha eliminato un traditore e ammazzato un uomo dell’FBI. Per quanto mi riguarda, potrebbe anche aver ucciso Kennedy, se avesse qualche anno in più. La sua filosofia, chiamiamola così, non mi interessa e, riguardo alla nostra azione patriottica, essa non è affatto fallita. Entro domani prenderemo la Duma. Molte teste cadranno. E la sua sarà la prima. Adesso andiamo!”
Gli indicò la direzione. Yarbes si incamminò. Pomarev lo seguì.
Tornarono verso il parlamento. Da lì sarebbero andati a Lefortovo; prima, però, il maggiore intendeva controllare la situazione. Quando furono in vista della Duma, scrutò la folla, si rese conto che ogni tentativo di attacco era cessato e notò i soldati che familiarizzavano con la gente, sempre più numerosa, che era accorsa per occupare la piazza e difendere le istituzioni. Fu investito da una fredda collera.
Guardò allibito i veterani di guerra con le medaglie appuntate sul petto. Alla luce dei fuochi, distinse tre reduci di Stalingrado. Naturalmente erano più numerosi quelli che avevano combattuto in Afghanistan, ma fu la vista dei primi ad aumentare la sua collera. Avrebbero dovuto stare dalla sua parte!
“E’ una causa persa.”, lo provocò Yarbes, voltandosi. “La realtà è davanti ai suoi occhi: non può fingere di non vederla.”
“Bene.”, disse Miloslav Pomarev. “Allora, procediamo.”
Sollevò lentamente la pistola e mirò alla testa dell’americano.

Dal Daily Telegraph, 31th December 1999
Vladimir Vladimirovic Putin ha sostituito Boris Eltsin ed è il nuovo presidente della Russia. Già primo ministro, su nomina dello stesso Eltsin, Putin in passato fu un importante membro del disciolto KGB. Figlio di un’operaia e di un sommergibilista, grazie alla sua indiscussa intelligenza si laureò in Diritto Internazionale alla Facoltà di Legge dell’Università Statale di Leningrado nel 1975. Al termine degli studi fu arruolato dalla prima direzione centrale del KGB. Trascorse cinque anni a Dresda, mettendosi subito in luce a causa delle notevoli capacità organizzative.
Dopo aver conseguito un Master in economia all’Istituto Minerario di San Pietroburgo con una relazione che secondo alcuni traeva spunto da un analogo studio americano, fu nominato presidente del FSB, una delle due Agenzie di spionaggio con le quali Gorbaciov aveva sostituito prima e seconda direzione centrale del KGB, dopo il tentato putsch del 1991.
Putin ha scelto come nuovo presidente del FSB il generale Piotr Ivanovic Lebedev. Quest’ultimo ha vissuto a lungo a Londra e si ha motivo di credere che egli fosse il responsabile della locale stazione del KGB.
John Wyman

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