Il mattino seguente, Stavrogin si svegliò presto, fece la doccia, si vestì, pagò il conto e uscì dalla pensione. Mangiò qualcosa in un bar nelle vicinanze e bevve due abbondanti tazze di caffè.
Come Altmann fosse riuscito a sopravvivere era un mistero. Evidentemente lui aveva commesso un errore. Se avesse aspettato per un’ora o due, l’avrebbe visto rinvenire, ma era francamente impossibile immaginare quella inspiegabile “resurrezione”. Ad ogni modo, non era il passato che gli interessava, non era abituato a guardarsi indietro; però quello che era accaduto sulla collina che sovrastava Bellagio suonava da monito. Il tedesco non andava sottovalutato. Non sarebbe successo.
Era una giornata calda e luminosa, un clima ben diverso da quello di Mosca, dove invece stava nevicando. Matrioska scese in spiaggia a contemplare il mare mosso dallo scirocco. L’appuntamento con il tedesco era stato fissato per quella stessa sera nei pressi del promontorio che delimitava la piccola baia. Il peschereccio era scomparso, e su questo non aveva mai nutrito dubbi.
Prima di pranzo, consultò la cartina geografica e da buon sacerdote si recò in chiesa.
Durante l’inno cherubico si inginocchiò, come aveva visto fare in Russia; i monaci greci invece si sedettero, e uno di loro notò quella stranezza.
Questo fu il secondo errore di Stavrogin.
Terminata la funzione, padre Stephanos, che era in ottimi rapporti con il console inglese, pensò bene di segnalare l’anomalia. Al pari di molti altri abitanti dell’isola, era stato informato della presenza di un assassino russo e invitato a collaborare. Mezz’ora più tardi la notizia venne trasmessa a Bob Sheridan del SIS, il quale si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto; quindi informò Kris Howe.
In quel momento, Aleksandr Stavrogin stava gustando l’eccellente cucina greca in un ristorantino, la cui entrata principale dava su una piazza; era seduto a un tavolo che guardava la rada, e per la sua statura e per le imponenti spalle, al suo ingresso nel locale, aveva attirato su di sé gli sguardi curiosi dei turisti – perlopiù britannici – che a loro volta si stavano dedicando con entusiasmo al cibo. Più che a un sacerdote, assomigliava a un soldato, pensarono in molti; poi, con la riservatezza tipica che appartiene ai sudditi di Sua Maestà, tornarono ai loro piatti, senza più guardarlo.
Matrioska era arrivato al dolce, quando individuò con la coda dell’occhio quattro uomini, vestiti in giacca e cravatta, con i capelli corti e un’espressione di falsa indifferenza. Costoro ignorarono il cameriere che gli aveva indicato un posto libero e si limitarono a restare fermi, in piedi, senza osservare nessuno in particolare, simili a statue che facessero parte dell’arredamento. Qualche minuto dopo, altri due individui entrarono nel ristorante e con calma si diressero verso il bar, sull’altro lato della sala rispetto ai primi quattro. Ordinarono due caffè e mentre portavano la tazzina alla bocca, Stavrogin scorse un rigonfiamento all’altezza dell’ascella di quello che sembrava essere il più anziano della coppia.
Infine, fece la sua comparsa un settimo uomo che controllò la disposizione dei primi sei, lanciò un’occhiata fugace all’agente del KGB, annuì e abbassò una mano lungo il fianco, distendendo tutte e cinque le dita.
Cinque, pensò Matrioska. Cinque minuti.
Non sapeva come lo avessero scovato, ma era un interrogativo inutile. Passò rapidamente in rassegna alcune opzioni, scartandole man mano che le esaminava. Se si fosse alzato per andare al bagno o per uscire dal ristorante, lo avrebbero afferrato, immobilizzato e condotto via. Sicuramente, fuori c’erano due o tre macchine con i motori accesi. Aprire la porta a vetri, attraversare di corsa il terrazzo, scavalcare il muricciolo e gettarsi sulla spiaggia comportava un salto di tre metri. Per lui sarebbe equivalso al balzo di un bambino che scendeva da un’altalena. Il problema era che gli avrebbero sparato nel momento stesso in cui si fosse avvicinato alla vetrata. Impugnare la Tokarev e fare fuoco… ne avrebbe eliminati due, forse tre, prima di essere crivellato di colpi.
I minuti si erano ridotti a quattro.
Gli agenti del SIS non si muovevano, non ancora: lo avrebbero fatto quando l’ultimo venuto, chiaramente il capo, avesse impartito l’ordine. In lui, Aleksandr ravvisava l’unico elemento veramente pericoloso. Aveva l’aria del veterano, e in effetti Bob Sheridan lo era.
Tre minuti.
Matrioska prese la borsa che aveva appoggiato per terra. Non gli sfuggirono gli sguardi allarmati dei più giovani del “commando”, li ignorò, prese un pacchetto di sigarette, ripose la borsa, e accese una Camel, aspirando a fatica una boccata, dato che non fumava mai.
Quel gesto venne accolto con sollievo.
Il cameriere che lo aveva servito si avvicinò al tavolo e gli domandò se gradiva un Ouzo, offriva la casa. Aleksandr scosse il capo. L’uomo si allontanò. Trovava giusto che un sacerdote disdegnasse i liquori.
Due minuti.
Mentre gli uomini del SIS attendevano un cenno definitivo da parte di Sheridan, fece il suo ingresso un energumeno che difficilmente avrebbe potuto essere scambiato per un cittadino britannico. Indossava una camicia aperta sul torace villoso, che mostrava una grossa catena d’oro, aveva i capelli impomatati ed era accompagnato da una bionda appariscente in minigonna e tacchi oversize. In italiano, chiese ad alta voce il miglior tavolo – vista a mare, specificò -, sottolineando la richiesta con una lauta mancia che finì nelle tasche del maitre. Mentre si sedeva, Matrioska lo udì lodare le prestazioni della sua Ferrari. Quando fossero tornati a Frosinone, le avrebbe fatto provare l’ebbrezza della velocità. La bionda annuì con simulato entusiasmo. Ma Aleksandr non badava più a loro.
Mancava un minuto.
Due ore più tardi, lontano da lì, in Virginia, Monica Squire stava fissando il vuoto.
Tailleur grigio tortora di taglio classico, calze scure, scarpe con i tacchi bassi, le ginocchia che si toccavano, ascoltava incredula il direttore della CIA, mentre questi le leggeva il rapporto stilato da Kris Howe.
Quando ebbe terminato, il capo di Langley, che qualche anno dopo l’avrebbe salvata dalla condanna a morte o dall’incubo dell’ergastolo, anche se per ragioni di pura convenienza, si tolse gli occhiali e, benché non fosse necessario, riassunse i dati principali di quel vero e proprio atto d’accusa. “Una primadonna incapace di stare al proprio posto. Un elemento sostanzialmente mediocre. Una serpe pronta a tutto pur di fare le scarpe a un suo diretto superiore.”
Monica lo guardò in silenzio.
Il direttore inforcò nuovamente gli occhiali, aprì un cassetto e ne trasse un fascicolo. “Dossier Squire.”, disse scandendo lentamente le parole. “Intelligenza superiore alla media. Dotata di notevole intuito e di grande capacità di analisi. Estrema facilità nell’apprendere le lingue straniere. Alto spirito patriottico. Seconda classificata nel torneo di tiro a segno. Quarta nel campionato di lotta e terza in quello di judo. Si suggerisce una promozione.”
In genere, la carica di numero uno della CIA viene assegnata per motivi politici e l’attività che normalmente ne consegue è basata prevalentemente su questioni amministrative – reperimento di fondi, leciti o illeciti -, su sottili giochi diplomatici, sul confronto con le alte sfere di Washington e con i rivali dell’FBI: il controllo delle operazioni viene delegato ai vari capi di dipartimento e può accadere che in dieci anni non ci sia mai un incontro diretto fra il massimo dirigente e un dato agente. Non era il caso di Paul Harrison. Egli proveniva dal campo, aveva lavorato come “illegale” in Cile, ai tempi del colpo di Stato di Pinochet, e si era fatto strada grazie ai suoi successi. Conosceva le esigenze di chi era alle sue dipendenze e aveva sinceramente a cuore il destino di coloro i quali rischiavano la vita per gli Stati Uniti. Questo non escludeva un fondo di cinismo, ma gli garantiva l’ammirazione e il rispetto dei suoi sottoposti.
Rimise il fascicolo nel cassetto e roteò la poltroncina girevole in direzione del Potomac. Con l’arrivo della bella stagione, la vegetazione lo avrebbe nascosto, ma ora il fiume riluceva ai raggi del pallido sole invernale. Per quello e per certi ricordi legati all’infanzia amava i mesi più freddi dell’anno.
Trascorsero diversi minuti, che per Monica risultarono alquanto penosi. Nonostante le note lusinghiere contenute nel suo fascicolo personale, non si faceva illusioni. Harrison le aveva dato uno zuccherino, cui sarebbe seguita una medicina amara. Attese rassegnata il responso, chiedendosi perché Kris avesse voluto pugnalarla alle spalle. Poi il direttore si voltò e scrutò il volto, comunque impassibile, della giovane donna seduta di fronte a lui. “I casi sono due.”, osservò in tono pacato. “O il suo dossier è stato scritto da lei stessa, e ne dubito” – accennò una sorta di vago sorriso -, “oppure Kris Howe, per ragioni che francamente non riesco a comprendere, è gelosa di lei.”
Monica non ritenne opportuno ribattere.
“D’altro canto”, proseguì l’uomo che reggeva le sorti dell’Agenzia, come se fosse un suo feudo personale, “ho scambiato quattro chiacchiere con gli amici di Londra. Erano stupiti e non capivano il senso del suo allontanamento. Hanno asserito che le sue intuizioni erano più che brillanti, e a loro giudizio lei è destinata a una carriera superiore a quella di Howe. Ora, non è mio interesse mettervi una contro l’altra, abbiamo già abbastanza nemici per fomentare rivalità interne, e a parte questo, dai relativi dossier, appare evidente che in un scontro, che sia fisico o meno, lei risulterebbe la vincitrice, considerando oltretutto la differenza di età.”
Aprì nuovamente un cassetto e tirò fuori un altro incartamento. “Kris Howe, quinta nel tiro a segno, settima nella lotta (in seguito a tale competizione ha chiesto e ottenuto dieci giorni di permesso, a causa dei traumi riportati, mmmm…), ritirata in preda ai crampi durante la corsa di venti chilometri… mmmm è peggiorata rispetto a un anno fa; per essere atletica è atletica, diciamo come una casalinga che si tiene in forma… il resto non la riguarda.”
Ripose il dossier e incrociò le mani sulla scrivania. Scacciò dalla mente il ricordo di quando riusciva a sollevare un bilanciere appesantito da cinque dischi per lato, ciascuno di venti chili, e si rivolse di nuovo a Monica. Era sciocco rimpiangere il passato.
“Sarebbe più interessante uno scontro al pc, tra hacker, ma ribadisco che non amo l’antagonismo: noi dobbiamo essere tutti solidali. E probabilmente finirebbe per vincere ancora lei. Ciò non toglie che Kris sia un elemento di prim’ordine. Solo, non lavorerete più assieme. Insisto” – la voce si indurì per un momento – “perché lei non si lasci sopraffare dal risentimento; causerebbe problemi inutili.”
Molti anni dopo Monica Squire si sarebbe trovata in una situazione diametralmente opposta, ma allora non poteva saperlo. La vita è composta da cicli immutabili, e all’estate segue sempre l’autunno, che peraltro talvolta può dimostrarsi assai appagante.
Paul Harrison si alzò per andare a versarsi un bourbon al mobile bar. “Lei è astemia, vero, agente Squire?”
Monica annuì.
“Bene. Mi parli di quel dannato russo.”, disse Harrison, dopo aver svuotato il bicchiere.
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