Ne fui certo, non avevo bisogno di conferme. Con questo, non intendo atteggiarmi a grande psicologo: al contrario, se esiste un uomo che non è mai riuscito a penetrare in quella massa informe e gelatinosa che è il cervello di una donna, quell’uomo sono io. E, comunque, la conferma arrivò immediatamente. Lei chiese a me di incontrarci, in qualsiasi posto, in un bar, a casa mia, a casa sua, purché ci vedessimo subito. Visto che ero in posizione di vantaggio, decisi di sfruttarlo e la convocai da me.
Quando rincasai mi stava già aspettando sul marciapiede. La feci entrare, la invitai ad accomodarsi sul divano e la scrutai, perplesso. Non era più la Lucia che conoscevo, il sergente di ferro che a volte veniva preso dalla malinconia ma che, superato quel momento, tornava a essere una donna forte e sicura di sé. Ricordavo la scenata che mi aveva fatto lungo i tornanti che conducevano all’Aprica. Io avevo dimenticato di portare con me la patente, e per quella banale distrazione ero stato processato e condannato senza possibilità di appello. Quella sera non me l’aveva data, e nemmeno la sera successiva. Ricordavo come mi incalzava quando le arrancavo dietro spingendo goffamente gli sci verso lo skilift. Ricordavo la sua personalità magnetica e la sua spietata efficienza.
Adesso era un’altra persona, insicura e palesemente in preda a un bruttissimo esaurimento nervoso. Mi chiese un Chivas e lo bevve avidamente, aumentando la mia perplessità visto che la sapevo astemia; quindi si sfogò, torcendosi le mani come il protagonista di un romanzo di Dostoevskij.
Silvia era riuscita a distruggerla psicologicamente. L’aveva plagiata e resa succube, le aveva tolto sicurezza e autostima. Mi disse che era arrivata a odiarla ma che, malgrado tutti i suoi buoni proponimenti, ogni volta che si ritrovava nel letto con lei perdeva la testa. Un giorno Silvia aveva deciso di lasciarla e lei si era degradata supplicandola in ginocchio di non farlo. La detestava con tutta se stessa, però non riusciva a vivere senza di lei. Era andata da uno psichiatra, ma non era servito a nulla. Silvia l’aveva obbligata a farsi di eroina, ed era diventata tossicodipendente. Infine, l’aveva rovinata portandole via tutti i soldi che aveva.
Man mano che ascoltavo quell’agghiacciante resoconto, la mia confusione aumentava al punto da farmi pensare che fossi vittima di un incubo e che presto mi sarei svegliato dimenticando tutte quelle sconcertanti assurdità. Fino a un’ora prima mi ero fatto un quadro, molto approssimativo e pieno di zone oscure, che tuttavia si basava principalmente sull’attività sessuale di mia moglie. Aveva avuto due amanti, il diario era chiaro in proposito, e la presenza del numero di Lucia sul suo cellulare mi aveva indotto a sospettare anche un’esperienza lesbica. Ma era solo un sospetto vago, e soprattutto non contemplava il fatto che Silvia fosse una sorta di Hannibal Lecter in gonnella, pronta a far soffrire una persona per il semplice gusto di farlo. A Silvia non servivano soldi, guadagnava quasi come un dirigente. E com’era possibile che Lucia si fosse dimostrata tanto stupida da darglieli? Senza contare l’eroina.
Questo era un campo da gioco nuovo.
Rabbrividii pensando che avevo vissuto per un lustro accanto a una donna così cattiva.
Non potevo definirmi ricco, però stavo molto bene, grazie anche alla parte di eredità che mi era spettata. Le domandai quanto le aveva sottratto Silvia, sgranai gli occhi nell’apprendere che si trattava di circa ventimila euro, presi il libretto degli assegni, ne compilai uno per quella cifra e glielo porsi. Sono un uomo pratico e, quando posso, cerco di risolvere i problemi in modo pratico. Non so aiutare psicologicamente una persona, ma se c’è da dare una mano concreta non mi tiro indietro.
Lei scoppiò in lacrime. Credo che quel pianto fosse dovuto al mio gesto, sebbene intuissi che ci fosse anche dell’altro: autocommiserazione, vergogna, forse un principio di crisi di astinenza. Mi abbracciò, poi diventò nervosa e mi disse che doveva andare. Quella fretta improvvisa non mi piacque.
Agii di impulso, senza riflettere sulle conseguenze. Probabilmente se mi fossi soffermato a pensare, l’avrei lasciata uscire, abbandonandola al suo destino. Non ero responsabile per quello che le aveva fatto Silvia, questo era fuori questione, ciononostante sentivo di avere un debito da pagare. Non è un concetto facile da spiegare, dato che esula da una visione razionale della vita, e infatti non mi proverò a spiegarlo. Posso solo dire che nella programmazione della mia esistenza esiste un lato nascosto, sconosciuto persino a me stesso, e questo lato prevede misteriosi congegni che il computer astrale ha inserito in alto a sinistra. Fatto sta che attesi che si alzasse, poi le balzai addosso, la sollevai di peso e la portai in camera. Lei scalciava e urlava, e quando finimmo sul letto, io sopra e lei sotto, mi morse e cercò di graffiarmi. Ma era diventata una donna debole e la lotta durò poco. Mi implorò di lasciarla, disse che la soffocavo, e forse era vero. Le risposi che avrebbe potuto uscire da casa mia entro dieci minuti, a patto che mi ascoltasse e non cercasse di fuggire.
Lei annuì, tirando su con il naso.
Mi alzai e corsi in cucina. Quando tornai, munito di corda e nastro isolante, era ancora distesa, ansimava e aveva la fronte imperlata di sudore. Le assicurai i polsi alla testiera del letto, quindi le legai anche le caviglie. Non si oppose, probabilmente le mancava la forza per reagire.
Le parlai con calma, sforzandomi di usare il tono più rassicurante di questo mondo. “Lucia, i prossimi sette giorni saranno i più terribili della tua vita. Ma io ci sarò. Starò sempre qui. Con te.”
Presi una settimana di ferie, e in quella settimana conoscemmo entrambi l’inferno.
Il termine tecnico è tacchino freddo. Questo modo di dire ha varie spiegazioni. Io ne conosco solo un paio: “il tacchino freddo è un piatto che non richiede una preparazione particolare” è la prima che mi viene in mente, ma mi convince di più la seconda che fa riferimento alla pelle d’oca. Non avevo imparato questo procedimento sui banchi di scuola, bensì ascoltando John Lennon e vedendo Trainspotting. La faccenda è molto semplice: ci si chiude in una stanza, si butta via la chiave e si soffre in modo inverosimile per svariati giorni. I sintomi sono quelli di una micidiale influenza, accompagnati da crisi isteriche, momenti di cupa depressione, tachicardia e desiderio di farla finita. Se si sopravvive, se si tiene duro, alla fine le crisi di astinenza cesseranno e la scimmia se ne andrà da qualche altra parte. Solo una persona dotata di un’eccezionale forza d’animo può riuscirci, e questo non era il caso di Lucia. Non della Lucia attuale, almeno. Perciò ci pensai io. Lucia non poteva ribellarsi perché era immobilizzata. In compenso, mi insultava sciorinando un repertorio di bestemmie e di parolacce che avrebbe fatto invidia a un marinaio. Altrimenti piangeva e mi implorava di liberarla.
Un giorno assunse un’espressione astuta. Era bianca come un cadavere, aveva le pupille dilatate, era tutta sudata e il suo corpo emanava un odore acido con un retrogusto indefinibile ma certamente poco allettante. Mi disse con voce studiatamente roca che voleva fare l’amore con me, e visto che io non rispondevo, calò con forza il piede sull’acceleratore: “Scopami! Chiavami! Sono la tua troia! Fammi vedere quel tuo meraviglioso uccello!”
Io avevo un compito da svolgere, un compito estremamente importante, e non avrei ceduto a quelle lusinghe nemmeno se al suo posto ci fosse stata Sienna Miller. In un’altra occasione mi comunicò che aveva deciso di smettere, e che desiderava solo un’ultima dose.
Naturalmente non abboccai.
Le cose si complicavano quando la accompagnavo in bagno o cercavo di farla mangiare. La prima volta mi aggredì, mirando agli occhi, mordendomi e cercando di centrarmi le palle. Io ero molto più robusto di lei, ma dalla sua aveva la forza della disperazione, e ci fu un momento in cui ebbi paura che potesse prendere il sopravvento e stendermi. Anche perché io non la colpivo e mi limitavo a bloccarle i polsi. A un tratto sembrò calmarsi e io allentai la guardia. Fu un grosso errore. Mi colpì con il piede nudo proprio lì, in mezzo alle gambe. Mi piegai in due, boccheggiando. Lei aveva il viso stravolto dalla collera, una luce omicida nello sguardo. Per un attimo non seppe come approfittare del vantaggio. Comunque, si riscosse subito. Aprì l’armadietto dei medicinali, spazzò via scatole, boccette e una confezione maxi di lamette da barba che avevo acquistato ingolosito dalla scritta 15 più 5. Trovò le forbici e mi si avventò contro con la chiara intenzione di uccidermi. Per quanto singolare possa sembrare, la mia reazione fu un’improvvisa vampata di desiderio fisico. Stavo soffrendo le pene dell’inferno, rischiavo seriamente di morire o quantomeno di venire ferito; inoltre lei non era precisamente al top della forma, né della pulizia. Eppure la visione di quella erinni scatenata aveva un enorme potere attrattivo.
Mi fu addosso, la forbice nella mano destra, gli occhi puntati in direzione della mia gola. Riuscii a riscuotermi, accantonando improbabili sogni intessuti di sesso allo stato brado, probabilmente qualcosa che veniva dagli abissi del tempo, un istinto primordiale che per alcuni istanti mi aveva fatto tornare uomo delle caverne, appena uscito dalla condizione di primate. Le diedi una spinta, non troppo forte ma sufficiente per farla finire a terra. Poi con un sospiro di sollievo le strappai la forbice dalla mano, me la caricai in spalla e la riportai a letto.
C’erano anche dei momenti di calma. Mi raccontò un episodio allucinante che risaliva al periodo immediatamente successivo all’esproprio, non saprei definirlo in altro modo, perpetuato dalla deliziosa Silvia.
In quei giorni Lucia era rimasta senza un soldo e dipendeva in tutto da lei. La mia fu mogliettina le procurava regolarmente l’eroina, e questo a Lucia bastava. Non capirò mai da dove nascesse quella crudeltà senza limiti, anche se incomincio a pensare che fosse la risultante di uno sdoppiamento della personalità. Schizofrenia, credo, sebbene io non abbia i titoli per fare una diagnosi scientificamente attendibile. In ogni caso, senza una ragione apparente se non quella di procurarle sofferenza, la lasciò a secco per quarantotto ore. Lucia mi disse che quando la guardava negli occhi percepiva distintamente una gioia maligna. Comprese che godeva del suo stato di disperazione, ma comunque non poteva farci niente, tranne supplicarla.
Fu l’occasione buona per dirle che stava migliorando, ancora pochi giorni e si sarebbe liberata per sempre dalla dipendenza.
Lei mi giurò che non ci sarebbe ricascata mai più. Accolsi quella promessa con il beneficio d’inventario.
Ma Lucia è stata di parola.
E adesso è tornata la donna di un tempo, a parte una profonda cicatrice nel cuore. Ma quelle le abbiamo tutti.
In qualche modo gli anni passano, la vita scorre… e succede di incontrare un’altra donna, di mettersi insieme e di bere e di scrutare troppo spesso il vuoto, pur sapendo che a lei, Barbara, questo non piaceva.
E’ quell’ultimo ricordo, la settimana del tacchino, a farmi passare la sbronza.
L’angoscia di Lucia, la consapevolezza che avevo vissuto per cinque anni con una pazza sadica dalla quadruplice vita: il ragazzino timido, l’intellettuale che alla fine rinunciai a cercare, la schiava e il bravo maritino. Quattro vite portate avanti contemporaneamente, con micidiale sicurezza. Basta e avanza per eliminare gli effetti dell’alcool.
Devo bere di meno. E’ un pensiero cosciente, consapevole: il primo dopo la stagione dei ricordi. Stagione che è ora di accantonare. Per sempre.
Non mi piace questo mio lato oscuro. Mi angoscia perché è come una presenza estranea che si introduce nel cervello quando alzo troppo il gomito. Si manifesta solo interiormente; non gli permetterei mai di esternarsi; tuttavia mi provoca un senso di forte disagio. Lo sento arrivare, simile a un ladro nella notte, ma invece di sbarrare la porta la lascio socchiusa come se volessi essere derubato. Perché proprio di un furto si tratta: ogni volta che appare mi sottrae brandelli di dignità. Per questo mi crea disagio.
Mi alzo dal letto, vado in cucina e preparo il caffè. Intanto mi sovviene che la notte scorsa ho fatto cilecca con una troia, che avevo raccattato per strada. Per forza, astutissimo uomo: è molto difficile farselo venire duro con mezzo litro abbondante di Chivas che scorrazza allegramente per il corpo.
Bevo il caffè, mi accendo una sigaretta, aspiro la prima meravigliosa boccata di fumo. Adesso mi sento meglio, anche se provo una profonda vergogna. Respiro a fondo. Ripenso a Barb, a tutto il bene che mi ha fatto prima di lasciarmi. Ricordo perfettamente quel pomeriggio, quando stracciò il biglietto di Silvia, un biglietto feticcio che conservavo nel portafoglio. Risento la sua voce che fa a pezzi la dea. Una dea cattiva, certo, ma tutti gli dei lo sono. Una dea che annegando mondò i suoi peccati, riuscendo a farmi credere che l’amavo ancora. Che senza di lei la mia vita era priva di senso, che tutto sommato me ne infischiavo dello studentello, dell’intellettuale e della schiava seviziata. Perché mi ero messo in testa di essere comunque il primo. Ero l’unico ad avere uno status ufficiale, ero il legittimo marito; gli altri venivano dopo, con almeno quattro giri di distacco. La dea malvagia aveva fatto soffrire la schiava, ma a ben vedere era un suo diritto, il diritto del più forte, dell’eletto, che non deve rendere conto a nessuno, che è al di sopra della legge morale. Questi convincimenti si erano fatti strada a poco poco, finendo per superare lo sdegno iniziale, e trasformando Silvia in un’icona. Ma quel pomeriggio Barbara parlò chiaro.
(Silvia era una troia!)
Smontò l’idolo, pezzo a pezzo, senza pietà, scavando nel mio cuore fino a farmi urlare di dolore per poi finalmente estirparmi anche l’ultima vestigia di lei.
E’ annegata…
Questo non mi interessa, né la assolve.
Un colpo di maglio e la statua si frantuma, va in mille pezzi, diventa polvere che il vento provvederà a disperdere. Ecco: la dea non c’è più. Ma, se non fosse stato per Barbara, ci sarebbe ancora. Continuerebbe ad avvelenarmi il sangue, a insinuare rimorsi per il fatto che non ero andato a nuotare con lei, a distillare rimpianti.
E adesso basta!
Giuro a me stesso che non berrò mai più, a costo di ricorrere al “cold turkey”.
Se ho perso Barb, è stato a causa del dannato alcool.
Fuori piove. Un corvo gracchia, alcune donne strillano, la sirena di un’ambulanza. Lucia, Silvia, Barb. Vita di merda.
Cielo color catrame, luce zero.
Afferro di nuovo la bottiglia e giù un sorso. E poi un secondo.
Già, Cold Turkey!
Avvincente… dio mio che tecniche estreme per stanare l’altro…un nero umoristico leggibile come un bel sorso di Chivas! Complimenti
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@ FRANZ mooolto estreme 🙂
Grazie, caro poeta!
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la scrittura deve sempre sondare i bordi estremi dellagire umano…è li che scova lo straordinario
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@ FRANZ é bello quello che dici. Naturalmente non mi riferisco alla mia scrittura, però in generale è verissimo.
Saluti!
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Mi inchino. Una sorpresa dietro l’altra (la dea! ma che razza di idee si è messo in testa…!?), prosa e ritmo impeccabili. Applausi fragorosi!
‘notte e ogni bene 😉
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@ IVANO F si era messo in testa troppe cose.
Ringrazio di cuore per gli applausi!
Ogni bene a te e buona giornata 🙂
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Fra l’altro solo dopo mi sono ricordato da dove veniva quell’idea di qualcuno che sta sopra alle leggi morali: il buon vecchio Fëdor…
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@ IVANO F preciso!
Spasibo, amico mio ^^
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😉
Buona serata
Ciao ciao 🙂
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Sviluppi sconcertanti e finale amaro, un mix da lasciar sedimentare con calma. Sono colpito!
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@ JULIAN VLAD e io sono lusingata! Il finale, come dici tu, è proprio amaro.
Un sorriso per una bella serata 🙂
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Oh che atmosfera hai creato!
Mi ha distrutta.
Bellissimo.
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@ LADY NADIA una sola persona può distruggerti! Il suo nome inizia per “N”, finisce per “A” ed è composto da cinque lettere 🙂
Grazie di cuore, mia carissima amica!
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un bel finale. Lui che usa il cold turkey con Lucia, non riesce applicarlo a se stesso.
Bella conclusione di uno splendido racconto.
Un grande abbraccio
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@ NEWWHITEBEAR verrebbe da dire: medico cura te stesso.
Grazie infinite e un caro abbraccio, amico mio.
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parole sante le tue 😀 Un grande abbraccio
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un crescendo di sorprese e di emozioni. Vite sfasciate da comportamenti irresponsabili, saggezza che appare a brandelli, luci che paiono accendersi per spegnersi subito dopo.
Bravissima tu ad aver saputo rendere tutto in modo mirabile, con grinta e ritmo.
Un abbraccio 🙂
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@ ILI6 e bravissima tu (nonché assai generosa) per le splendide righe che hai dedicato a questo racconto!
Un forte abbraccio, Marirò ❤
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Godibile e efficacissima soluzione per concludere un degno racconto della tua abilità. Un saluto, a presto. Univers
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@ UNIVERS81 un salutone e un sentitissimo grazie!
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Questi non li vorrei come miei vicini di casa, diciamo 😀 Comunque nel suo caso, penso che l’alcool non sia stata l’origine, ma una conseguenza. Un racconto molto particolare, davvero originale, complimenti vivissimi! 😉
… Cold Turkey… chissà se funziona anche con le dipendenze moderne: una settimana senza Smartphone, tablet & C. e via: si torna alla realtà! 😀
No, eh? La maggioranza di noi non sopravviverebbe ad una tortura del genere, temo… 😀
http://www.wolfghost.com
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@ WOLFGHOST nemmeno io, lupissimo!
Grazie davvero per i complimenti 🙂
Cold Turkey… a me non servirebbe… possiedo solo un computer IBM 🙂
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(spero che oggi funzioni il commento)
Fedor sarebbe fiero dei personaggi che riesci a creare, così complessi ed albergati da tremendi demoni. La tua massa informe e gelatinosa sa generare intrecci, cambi di scena e personaggi che avrebbero meritato ancora una altra puntata per approfondirli ulteriormente, ma tu hai voluto mantenere la lunghezza prefissata. Ci accontentiamo. Vai alla grande 🙂
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@ RODIXIDOR se volevi farmi diventare rossa, be’ ci sei riuscito perfettamente!
Un solo “grazie” non basta 🙂
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Bel racconto davvero 🙂
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@ RODIXIDOR ❤
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alla fine molto brava tu a dipanare tutto l’intreccio e un po’ deluso io perchè avevo puntato sul cavallo sbagliato, Silvia 🙂
accidenti, l’avevo assolta intravedendo una figura di donna interessante che vive di (in)sane emozioni, ma in questo epilogo è sprofondata in un vortice di gratuite crudeltà da cui nemmeno un giudice benevolo come me la può tirar fuori.
complimenti e un sorriso
ml
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@ MASSIMOLEGNANI mi dispiace per la tua delusione; d’altro canto i miei personaggi da sempre fanno quello che vogliono, spesso a mia insaputa.
Ti ringrazio moltissimo e ricambio il sorriso 🙂
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It seems I am a spam 😦
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@ RODIXIDOR ti chiedo scusa, anche se la colpa non è mia ma di WP.
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Non ti preoccupare, ho risolto con l’intervento del supporto di WP 🙂
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@ RODIXIDOR meno male!
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Gentile Alessandra,
immagino che tu desideri un giudizio sulle tre puntate della storia.
Bene, cercherò di essere breve e sincero.
La vicenda, pur non essendo molto originale, l’hai saputa svolgere con maestria e con notevole ritmo. La cosa che mi ha colpito di più è stata la cura e la pulizia della tua scrittura. Giustamente stringata nell’uso degli aggettivi e senza troppe ripetizioni di concetti ad appesantire la narrazione.
Per quello che può valere il mio giudizio, ti do un otto tondo.
Nicola
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@ NICOLA LOSITO prendo l’otto e me lo tengo stretto!
Grazie mille, Nicola, e buona giornata.
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Eccellente narrazione di una storia che rivela uno scenario sconosciuto al protagonista. Coinvolgimento e suspense ben calibrati fra loro.
Un abbraccio
Annamaria
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@ ANNAMARIA49 un grande abbraccio a te, cara Isabel!
Ti ringrazio davvero tanto.
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Un tacchino da non dimenticare
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@ CAPEHORN le sono molto grata, Maestro.
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