E l’aria era blu. E c’erano luci ovunque. Era come un presepe, un presepe del futuro, tutto artificiale e pagano, ma con la stessa ansia, che qualcosa arrivasse, la redenzione, la salvezza. “Per qualcosa prenotiamo, se no ci tocca fare un fila del cazzo”. Va bene. Tanto, per quel che mi importava. Era uno di quei momenti che duravano giorni, sperando che non diventassero mesi, quei giorni dove lasciarsi portare era quello che volevo, scivolare appena sulla superficie, quanto più superficie, che la corrente mi portasse altrove, possibilmente altrove. Guardavamo distratti l’incrocio di geometrie innaturali, vivaci, non c’era spigolo che fosse cresciuto da sé, l’unica cosa che il tempo accumulava era lo sporco, lattine, fazzoletti, cartacce unte da fastfood. Roby non era male, era buono. Era lì per divertirsi, domani sarebbe andato ancora a sopravvivere nella plastica, ma come un santo, con la missione di andare avanti e di sorridere. Un santo, davvero. Io invece che m’ero scontrato con lei, ancora non potevo rialzarmi. Non avevo ancora pensieri sufficienti. Ero solo un bruciare.
Il Luna Park era molto grande. Una ventina di chilometri fuori città. Accanto c’era un altro parco a tema, immagino sul cinema, non so. Roby propose di mangiare qualcosa, per tre o quattro attrazioni avevamo già prenotato, potevamo rilassarci un attimo, manco fossimo andati là per lavorare. Provammo a mangiare un trancio di pizza, ma faceva schifo. Così, per rifarci la bocca, entrammo in un bar poco lontano. Qui invece il caffè era buono, era buono il profumo e il rumore delle tazzine, il rumore dei piatti e persino il vociare. Fuori faceva freddo e anche un po’ di caldo poteva bastare, a rendere le cose migliori, più gentili. Quando uscimmo facemmo due passi senza meta. Accano a noi c’era un piccolo canale d’acqua, poi una striscia d’erba e, ancora oltre, un ottovolante. Non ci feci caso, subito, era abbastanza discreto, quasi non volesse farsi notare. Nel nervoso graffiare delle luci se ne stava quieto, disteso. Però. Qualcosa mi prese. Quella curva che faceva la pista mentre scendeva dall’alto e s’affondava sinuosa e armonica, mi prese. Mi prese lo stomaco e il resto.
Quella curva erano i suoi capelli. I suoi capelli di miele. Lei era miele, lei era quella curva che prendeva e portava via, veloce, come affondare. M’aveva portato su, piano, faticosamente, quasi sembrasse non dovessimo arrivare, salire, salire, c’era solo salire, c’era solo pensare che quella fatica dovesse portare a qualche frutto coscienzioso, ad una soddisfatta fermata. Ma il plateau, cos’era durato? Lo spazio di qualche secondo, forse meno. Il tempo di vederla muovere in quel modo, di sentirla parlare in quel modo: il tempo di chiudere gli occhi e trovarsela ancora, incredibilmente intatta, ancora lì davanti. E poi. E poi era stato come precipitare, qualcosa chiamava, non c’era più da lottare per stare in piedi. Ogni cosa aiutava, ad andare giù, più giù: più che mai le sue mani graziose, in quelle pose strane, e i suoi occhi, e il suo fare indaffarato per il mondo, e come mi teneva quando ci stringevamo, e ballare tutta la sera, e fare l’amore, e il suo sapore nella mia bocca, nella mia testa. Mi portava nella sua vita, così. Non aveva curva e discesa che non fossero delizia. La salita arrivava solo per preparare la caduta, cui non riuscivo ad abituarmi, per quanto lo volessi, per quanto ci sperassi. Ricordo come non fossimo riusciti a trovare un nomignolo con cui chiamarci, quei nomi che si danno gli innamorati, non c’era uno che ci sembrasse adatto. “Ottovolante”, pensai, “Ottovolante, amore mio, ti sarebbe stato bene.” E sorridevo, mentre, dentro, stringevo perché la mia anima non si rovesciasse per strada.
“Tutto bene? … che hai?” Roby non poteva capire. Né avevo voglia di spiegare. M’ero perso in quel crogiuolo, mi dannava, ma mi piaceva, perché c’era ancora lei, così viva, da pensare che mi fosse ancora vicina. E invece no. Chissà dov’era. Con chi. Che storia antica. Anche la vita, che era la vita, se non questo continuo rivoltarsi di inferno e paradiso? Come s’accendesse un interruttore, il suono di un campanello, e il giorno si faceva notte. Ding! Ehi! Ti è nato un figlio. E’ uno splendore. Ding! Hai un cancro. Diciamo un anno di vita, ma molte indicibili sofferenze. Ding! Stasera hai vinto tutto, piatto e anche lei è tua. Ding! Ehi. Sei nato nelle macerie di una guerra. Tra poco vedrai tua madre stuprata e tuo padre mutilato. E, più abitualmente, tutto in una vita. Al mattino passeggi con Diana, al pomeriggio sei cieco e maledetto, alla sera sei raccolto da un vecchio pietoso, di notte uccidi, e poi, di nuovo, prima sei un tronco verde e prepotente, e poco dopo le tue ferite schiumano di sale. Ding! Ding! Ding! E lei, come la vita. Inferno e paradiso. Senza che volessi altro.
Quell’ottovolante era ancora lì.
Roby consumava le sue attrazioni e io la mia delusione.
Ecco ora la ruota panoramica! Tutta la mia vita girava: solo qualche sosta ogni tanto e poi ripartiva. Cambiavano le facce, qualcuna serena, altre pallide, qualcuna impaurita, altre beffarde. Il pomeriggio sarebbe mutato in notte e poi tutto sarebbe ripartito così, l’indomani mattina, identico e chissà per quanti giorni ancora in quello zoo di plastica, esattamente come dentro di me.
Roby rideva eccitato mentre io ero un fantoccio sballottato al suo fianco. Un rigido, bianco, lucido manichino che, con tutti quei contraccolpi della giostra, rischiava di rompersi. E non sarebbe importato a nessuno. Gambe, braccia, busto, testa. Qualcuno subito dopo la chiusura avrebbe buttato tutto in un sacco della differenziata insieme a tutto il resto dell’immondizia.
Basta! L’avrei rivista. Dovevo. Stasera. Non potevo continuare ancora in quell’incubo che ogni tanto mi svegliava, mi faceva sussultare e poi, appena chiudevo gli occhi, riprendeva da capo.
In auto lungo il ritorno, in autostrada, fu come se fossimo noi immobili e a sfrecciare fossero le luci e le altre vetture, ma nell’altra direzione. Ero stanco di restare così passivo ad osservare la vita esattamente come uno spettatore, ero stufo di lasciarla scivolare e percepirne solo, talvolta, una brezza fredda.
Mentre Roby parlava del niente, io pensavo a quanto la desideravo. Pensavo ai suoi capelli che mi spolveravano il viso mentre lei sopra di me facevamo l’amore.
E anche se quella plastica avvolgeva ogni cosa, sterile, noi in quei momenti potevamo scivolarne fuori. Eravamo lì, vulnerabili, nudi e caldi. Vivi.
Non potevo restare in quel bozzolo artificiale, mi stavo soffocando. Dovevo riaverla, prenderla per i vestiti, trascinarla a me e possederla di nuovo, a tutti i costi. Fosse stata di nuovo mia oppure no.
Lasciai Roby a casa sua, notai gli alberi ormai quasi spogli davanti al suo cancello. Dalla portiera spirò dell’aria fredda. Rimisi in moto e presto fui da lei.
Parcheggiai al solito posto e mi rividi come un fantasma in tutte le attese di quel luogo ove solevo eccitato accendermi una sigaretta aspettando che varcasse quella soglia per osservarne la sua inconfondibile camminata elegante e sicura, per guardarla sorridere e venire a me. Ed io così sopraffatto e pronto a prenderla… esattamente come si può prendere un acquazzone senza ombrello, e ogni volta desideroso di essere dentro di lei.
Sento il sangue pulsare, sono un drogato in piena crisi di astinenza. Chiudo la portiera e mi dirigo al suo uscio. Dei cani latrano poco lontano.
Quando lei sopra di me facevamo l’amore.
Le stelle sono gelide, spettrali.
Il rumore dei cani. Gli ossimori. Lei mi amava, non amandomi. Come diceva Francesco De Gregori? Ti perdono per averti tradita. Qualcosa di simile. Sento caldo. Il caldo del sangue che scorre nelle vene. Il caldo del desiderio. Sento freddo: il freddo della paura.
Suono il citofono. L’attesa è interminabile. Però le luci sono accese. Infine si scosta una tendina. Clic. Il portone si apre. I gradini del paradiso oppure dell’inferno? Mi accoglie sul pianerottolo, lo sguardo duro, le braccia incrociate sul petto, un piede più avanti dell’altro. Indossa un abito color fucsia, appena sotto al ginocchio, scarpe con i tacchi, come se stesse per uscire, come se fosse attesa da qualcuno.
“Ciao, Ottovolante!” Detesto il suono della mia voce che tradisce insicurezza. Sorrido senza sapere quello che ne esce, forse uno stupido ghigno.
“Avevamo detto…”
“Cento volte, lo so.”, la interrompo.
“Mille volte!”
“Mille volte, d’accordo. Posso entrare un attimo?”
Lei si scosta e mi fa cenno di accomodarmi; non è mai stata maleducata, non è da lei. Come sempre, il soggiorno è pulito come uno specchio. D’istinto mi dirigo verso la “mia” poltrona, poi però mi fermo.
“Come stai?” Domanda formulata in tono impersonale, un piccolo atto di cortesia, credo privo di reale interesse. Mi indica il mobile bar. “Serviti da bere.” Prendo un bicchiere e verso una doppia dose di bourbon. Mando giù il liquore di un fiato, magari mi desse coraggio. “Come sto? Ti voglio, Ottovolante. Ti desidero. Non ce la faccio più.”
Lei sbatte le ciglia. “E’ un capitolo chiuso. Mille volte, ricordi?”
Annuisco. “Mille volte! Diecimila volte! Ma questo non cambia ciò che provo per te. E tu… tu non puoi avermi dimenticato, avere scordato tutto, ogni cosa, il nostro amore, il Luna Park, il mare, le gare di nuoto che vincevi sempre tu.”
Le gare di nuoto: poi lei mi aspettava, slanciava le gambe, intrecciandole dietro la mia schiena, io le sorreggevo la testa, non mi occorrevano le mani per penetrarla, era troppo forte la passione, simile a un fiume in piena, a una cascata scrosciante, a un viaggio nel mondo delle fate, lassù fra le stelle. In quei momenti ero vivo. Niente plastica, nessun giorno fatto di cartone, nessun risveglio faticoso, con la mente svagata, lo spirito abulico, punti interrogativi che non ricevono risposte.
Mi verso ancora da bere. Lei mi fissa, ma cosa c’è dietro quello sguardo gelido, quali pensieri attraversano la sua mente? A volte si chiudeva in se stessa, si estraniava, però gli occhi avevano una dolcezza diversa e, sebbene io non riuscissi a entrare in quel suo mondo privato, ero comunque sicuro del suo amore.
Mi avvicino a lei e cerco di abbracciarla.
Diana si ritrae.
E’ come assistere alla scena di un film, osservo da fuori, dicendomi che è un orribile film, di quelli cui manca il lieto fine, perché un regista o un soggettista o il libro da cui è tratto, non lo prevedono, a causa di pura paranoia; e osservo da dentro, mentre qualcosa si lacera in me.
Eppure, lo immaginavo. Mi amava, forse, ma, quale possa essere la verità, il tempo è passato, frantumandosi simile a un bicchiere di cristallo, come quello che riprendo per bere di nuovo. In bocca, un sapore di fiele. Nel cervello, un vortice di sensazioni. Non voglio tornare nella plastica.
Da bambino mi tolsero un giocattolo perché avevo fatto certi capricci, quel ricordo riemerge nitido dalla memoria e con esso il senso di frustrazione che provai. Allora reagii con violenza, rintanandomi nella mia cameretta e spaccando altri giochi. Adesso è lo stesso: guardo Ottovolante, mentre la rabbia e l’acool mi vanno alla testa, togliendo ogni freno inibitore. Se ci fosse Roby, mi aiuterebbe, mi fermerebbe, ma lui non c’è.
Mi avvento su Diana, mulinando le braccia. Devo punirla. Una punizione dura. Ridurla a uno straccio e dopo possederla contro la sua volontà. Non accetto il suo rifiuto. Non tollero quegli occhi di ghiaccio, presto saranno umidi di lacrime. Una donna bella e sicura di sé ridotta a supplicare, invano.
E l’aria era blu. E c’erano luci ovunque.
L’entropia dell’universo. Nasceranno universi paralleli. Per quel che mi importa.
Eppure, eppure mi sembra di udire la voce di Roby.
Diana si ritrae di un passo, ma non manifesta alcuna paura. “Vai a casa, sei ubriaco!”
A casa? Questa notte? Non ci penso nemmeno. Però esco dal suo appartamento, risalgo in macchina, trovo un bar aperto, l’ideale per bere quattro caffè. E poi via, via verso il mondo di plastica che mi aspetta.
Nel Luna Park ancora lattine, fazzoletti, cartacce unte da fastfood, i residui di un’ennesima occasione perduta. Mi siedo per terra e fisso lo sguardo verso il cielo.
La luna mi ignora.
La mia vita è un giro di giostra che porta all’inferno.
Se potessi cambiare il passato, trasformarlo, renderlo bello in modo che anche il futuro lo sia.
Ma questo è solamente un sogno inutile.
Fine delle trasmissioni.
Bravissimi Quou e Nadia!
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405 followed. Grazie!
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😉 SEI GRANDE
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@ MAIRITOMBAKO ❤
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Dunque Quou è tornato. Provo a indovinare la sequenza degli autori. Il primo è Quou, lil secondo è Nadia, il terzo sei tu. Ma se mi sono sbagliato poco importa siete stati bravissimi tutti e tre.
Chissà se Quou tornerà a scrivere per caffè letterario.
Un caro abbraccio
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@ NEWWHITEBEAR indovinato, forse…
Grazie e un grandissimo abbraccio.
Quou… mah 🙂
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Ringrazio Alessandra e Quou qui, pubblicamente. Quando vi leggevo senza conoscervi da Facebook restavo a bocca aperta. Ho molti sogni, molti. Ma oggi uno di questi e’ stato coronato. Quale onore far parte di questo trio e di questo racconto, che, nonostante ne conoscessi una parte mi ha emozionato fortemente. Grazie e spero vi sia qualche altra occasione simile. Inoltre mi associo e chiedo a Quou, per il bene comune, per la gioia della letteratura, di lettori e letterati, di degnarci, filarci, di qualche nuova storia, anche su caffe’ letterario. Davvero G R A Z I E!😊
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LADY NADIA ti ringrazio dal profondo del cuore.
L’onore è soltanto mio, perché tu sei la numero uno!
Non a caso ti scelsi come erede, ma l’erede è migliore della panettiera, qui presente.
Scrivere con con te è emozione pura!
In quanto a Quou, devo fustrarlo per indurlo a scrivere 🙂
Un immenso grazie a te ❤
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Grazie. So che le parole ti vengono sincere e dal cuore. Ma fare il pane non è cosi’ semplice. A volte viene bene, altre non lievita e altre ancora brucia.
Ci vuole ESPERIENZA! O rischiamo di far chiudere la panetteria. Un caro abbraccio.
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@ LADY NADIA ❤
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[…] Sorgente: ATTRAZIONI FATALI DI QUOU, LADY NADIA E ALE […]
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Un intreccio impeccabile di tre brani. Complimenti veri a tutti. Univers
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@ UNIVERS81 grazie, mio “vecchio” amico!
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Quando le penne, descrivono un mondo all’ unisono di scrittura e bellezza: io mi sento di applaudire
Grazie a voi e abbracci
Mistral
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@ OMBREFLESSUOSE ti ringrazio anche a nome di Quou (ex Pappina) e Nadia. Baci, Mistral*
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si. grazie!😊
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Your blog, Lady Alessandra, appears to be getting more traffic than usual! 70 hourly views – 3 hourly views on average 🙂
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Allora… anche io ho provato a individuare l’ordine di comparizione degli autori 🙂
All’inizio mi sono detto “Questo è di Quou, è uno stile che non appartiene a Alessandra e Nadia”, però poi non ho trovato lo “stacco” che mi aspettavo… sembra proprio scritto a tre mani! 😉
L’ho trovato… “poetico”, molto bello da leggere in sé, al di là della “trama” 🙂
http://www.wolfghost.com
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@ WOLFGHOST credo che non esista complimento più bello!
Grazie 🙂
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Commossa!😊
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Complimentissimi a voi! E’ un crescendo di emozioni. Sempre triste quando gli amori finiscono e drammatico quando terminano solo da una parte.
E la ruota continua a girare con le sue mille luci che non riescono più ad illuminare il blu.
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@ ILI6 che bel commento, cara!
Grazie.
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