Aveva fatto appena in tempo a passare dal negozio ed a prendere una latta, prima che chiudesse. Entrò in casa, la posò nell’ingresso. Tanto l’avrebbe usate l’indomani mattina. La cucina lo aspettava come sempre, lo aspettava anche quell’odore di resina e altri piatti da lavare. La ferita cominciò a pulsare e gli sfuggì un verso. Era stufo, era un po’ stufo. Ma doveva resistere. Erano quasi due anni. Quasi due anni erano una buona cosa, ma non ancora abbastanza. Mise le uova a sfrigolare, le guardò mentre si doravano e diventavano croccanti. Avevano un buon sapore. Poi sarebbe cominciata la sera e negli occhi aperti sarebbero entrate le figure colorate e conosciute.
Si svegliò abbastanza presto, ma fuori era già chiaro. Doveva riverniciare la parete sul retro della casa, era quella che prendeva più luce e andava trattata più spesso. Quando era arrivato lì, s’era imposto alcune cose. La casa doveva essere dipinta di blu, tranne che per i cornicioni delle finestre. Questi dovevano restare bianchi. In più, la casa avrebbe dovuto mantenere il suo colore, impeccabilmente, il più impeccabilmente possibile. Ecco perché la controllava così spesso e la laccava quasi di continuo. L’altra regola era quella di mantenere l’interno molto semplice, frugale, con vasellame di metallo o legno o ceramica. L’ultima regola era di restare lì per sempre.
Non erano regole che avessero un significato particolare. O forse ce l’avevano, ma lui non era in grado di capirlo. Forse non era ancora in grado di capirlo. E non lo voleva neppure. Per adesso gli bastava che gli servissero a vivere, ad avere un ordine. Una disciplina di cui farsi schiavo, senza pretese. Un qualcosa che lo facesse andare avanti. La sera, invece, quando non poteva lavorare e doveva fermarsi, non aveva altro sistema che tormentarsi la mano. Quella piccola ferita cui non dava modo di rimarginarsi. Da un paio di settimane era stato costretto a bendarsi, il taglio esasperato aveva fatto infezione. Forse non gli restava che l’ospedale.
Ecco. Forse le regole erano come una diga, misera. Misera come lui. Si sentiva così misero. Avvertiva che le onde che si stavano gonfiando, sapeva che sarebbero arrivate. Si stavano formando là, lontano, dove il suo occhio non poteva arrivare. Ma la sua meritata sapienza, quella sì, che lo sapeva. Da quel mare contro cui non poteva nulla, qualche maroso si stava alzando per venire a prenderlo, a cercare di soffocarlo. E lui se ne sarebbe stato lì, senza invocare pietà, inzuppato d’acqua, sbattuto tra le rocce, come se quel boia lo punisse. E infatti non c’era alcuna confessione da estorcere, ma il semplice espiare.
Abitava appena fuori del paese, in una delle poche case che chiudevano la periferia. La strada gli passava davanti e poi si allungava verso il Nord, seguendo il contorno delle spiagge. Ogni tanto andava in paese a mangiare al piccolo locale, l’unico, o semplicemente a bere della birra. Non parlava molto, e il fatto che fosse straniero aiutava. Ad un quarto d’ora di strada c’era invece il traghetto per la città, dove aveva trovato lavoro. Lo scorso inverno era stato quasi insopportabile. Aveva avuto la tentazione di tornare, quando l’aria aveva ripreso tepore ed il sole una specie di forza.
Il sentimento della fine era un serpente. Un serpente muscoloso, aggrovigliato al centro dello stomaco, che si torceva fin dentro alle sue braccia. Non si poteva vomitarlo, quel grumo di disgusto; le cose finivano, per colpa di qualcuno o forse di nessuno e non si poteva più fare nulla. Non bastava neanche guardarle come fossero fotografie in un album di ricordi perché non davano nessun succo, non avevano linfa, e invece avrebbero dovuto essere acqua e morbido limo. Erano fotogrammi e figure che arrivavano, specialmente la sera, colorate, come pellicole che il tempo bruciava e scioglieva tra le mani. Non restava niente.
Se doveva riconoscersi una colpa era quella di essersi guardato dentro; non avrebbe dovuto farlo; nessuno ne avrebbe patito, di quella sua cecità; e invece, quello che aveva tirato fuori, dalle quinte del suo teatrino, non era piaciuto al pubblico, era stata la fine. Lei ne era morta. E lui ne era morto, al contempo. Ogni passo dell’inarrestabile delirio seguito alla sua confessione lo avevano vissuto entrambi. Era bravo, ad immaginare, era la cosa che aveva fatto di più, in tutta la sua vita; perciò aveva sentito tutto, la disperazione di lei, la rabbia, e soprattutto la maledetta impotenza. Era un precipitare disperato e senza senso, un disgusto che si apriva come un serpente dal centro dello stomaco fino a divorare ogni confine.
La sera non andava mai in paese, tantomeno in città. Passava il tempo libero a ripassare di blu le assi delle pareti esterne della casa, e, quando diventava troppo scuro per proseguire, si rinchiudeva coi suoi pensieri. Arrivavano come immagini di un filmino sbiadito, di una pellicola troppo vecchia, quasi stesse per dissolversi da un momento all’altro. Quando facevano troppo male si scopriva una ferita della mano fino a farla di nuovo sanguinare. Se l’era fatta quando s’erano lasciati, e da allora la teneva in vita. Sentire, sentirla dentro, quella fine, era stato troppo. Quella fine aveva segnato tutto il resto, perché da quel momento aveva capito che ogni cosa sarebbe finita allo stesso modo. Con un grumo di disgusto per l’insensatezza e l’impotenza per l’amore, che non si conserva.
Da allora se n’era andato lontano, più lontano. Non era nemmeno un’idea. Era un annaspare, quello di un uomo sommerso dall’acqua, che non sappia più che fare, e muove le braccia senza accorgersene, senza sapere quanto possa valere, quanto senso abbia il suo balletto. Non voleva iniziare più nulla, perché sapeva che il prezzo sarebbe stato troppo alto, per chi inizia qualcosa. Così, dipingere una casa di blu e non tenere oggetti di plastica in casa gli era sembrata una routine sufficiente. Non voleva causare altri lutti, e la cosa migliore da farsi era rinchiudersi da qualche parte. Bastava così poco ad essere la speranza di qualcuno, a dare ai suoi giorni la forma di un delfino che scivola e scivola ancora, lucido, splendente.
Bastava così poco, certo, ma lui non ne era capace. Nessun delfino, poche onde, in genere calma piatta. Forse era per questo che era finita con lei? Eppure, in altri tempi, era stato forte, pieno di vita, un vincente, o così almeno credeva. Ma credere senza certezze è un errore, e infatti le certezze le aveva smarrite per strada. O in qualche solaio, forse. Oppure nella ferita, che aveva sostituito altre ferite, più gravi. D’altro canto, cos’è la solitudine? Un ripiego? La ritirata di un guerriero che ha perso l’ultima battaglia? Magari una scelta voluta, a livello inconscio. Come dicevano i romani? Cupio dissolvi.
Ecco, gli sarebbe piaciuto avere un’amica, non per confidarsi troppo – ciò è pericoloso -, piuttosto per ascoltarla, per aiutarla, se necessario. Odiava le previsioni del tempo, sempre sbagliate. Odiava se stesso? Quasi sempre, tranne quando si occupava della casa blu.
Quella era sua. Nessuno avrebbe potuto togliergliela. Mentre lavorava, trovava uno scopo, peraltro effimero, e lo sapeva. Immagini pulsanti, spesso false, a volte vere, e queste erano le peggiori.
Gli capitava di pensare: oh, ha fatto bene a fuggire lontano da me. Non sono un uomo degno… degno di cosa? E perché? Detestava gli oggetti di plastica, le donne stupide, invadenti e brutte. Aveva un ideale di bellezza, fatta di armonia, intelligenza, spirito pronto, il trucco blu a valorizzare gli occhi. Come la casa. Come certi sogni, quelli che svaniscono all’alba, lasciando al risveglio un sapore di fiele in bocca. Poi un caffé. Una passeggiata fino all’unico locale? Oggi, sì. Due birre.
Lo specchio posto dietro al bancone gli rimandò la sua immagine. La accolse con indifferenza. Un nodo allo stomaco. Strani ricordi lontani. Il gioco del pallone, il profumo di maggio, i libri che un tempo, ormai lontano, remoto, perso, aveva amato fino a intossicarsi di Camus. Ah, sì. L’incipit de “Lo straniero”. Forte, nella sua dura schiettezza.
Rincasò, meditando su quello che non esiste. L’amore? Vale per i poeti. La verità è diversa: assomiglia di più a un romanzo di Stephen King. Chissà se ha smesso di bere? Scrollò le spalle. Che mi importa? Camminava e non c’era vento, non c’era sole, non c’era niente per cui fosse importante vivere. Illusioni. Questa è la vita, confermò a se stesso. Poi si fermò.
La casa blu era lì.
Lo aspettava.
Avrebbe fatto qualche nuovo ritocco.
Lo avrebbe ammirato.
E dopo si sarebbe steso sul letto.
Non cercava più risposte, non aveva nemmeno domande a essere sinceri.
Forse… una luce diversa. Suoni differenti.
Ma, no!
Apatia.
Il nulla.
Meglio. Molto meglio.
LA CASA BLU DI LUIGI FURONE (QUOU) E ALE
6 ottobre 2015 di Alessandra Bianchi
28 Risposte
Un vecchio racconto col mitico Quou oppure un ritorno come la fenice dalle sue ceneri?
Un lungo monologo interiore come entrambi siete abilissimi nel farlo.
Un caro abbraccio
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@ NEWWHITEBEAR no, no, è nuovissimo.
La fenice ogni tanto torna 🙂
Grazie, amico, e un grande abbraccio!
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Il racconto mi e’ piaciuto moltissimo. Nella seconda parte prevale la lucida e profonda descrizione dei sentimenti veramente travolgente. Il finale con quest’ uomo arreso a se stesso e’ esattamente cio’ che avrei desiderato . Un finale degno di un racconto, aperto ma fino ad un certo punto.
Se fosse stata la vita… mi sarei augurata per questa persona un riscatto pieno e una grinta differente ma adoro la malinconia, il dire e non dire, le cose lasciate a mezz’aria quando si tratta della scittura.
La prima parte molto reale e sincopata, una lucida e essenziale descrizione con la sorpresa di un disagio scoperta piano, di riga in riga, che consuma il lettore non attraverso una descrizione di stati d’amimo ma un elenco di situazioni. Due punti di vista che si amalgamano molto bene come il burro e la marmellata.
Direi FANTASTICO. COMPLIMENTI!
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@ LADY74NA grazie di cuore, da me e da Quou!
La tua analiisi è a dir poco perfetta.
Situazioni che rappresentano l’animo. Descritte con tanto impegno.
La prima parte è Charlie Parker.
La seconda è un un afflato del cuore.
Tanti baci, grande scrittrice 🙂
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😳😳😳
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@ Lady74na ❤
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Anche io avrei voluto che lo salvassi, Alessandra, ma … pazienza 🙂 . Era solo un pio desiderio. In fondo, il lieto fine mi insospettisce e non mi riesce mai facile e poi credo che questi finali amari ci accomunino come tante altre cose. Tra cui … Charlie Parker. Mamma mia. Tu non sai quale gioia sentirtelo dire. Ovviamente è un paragone spropositato, ma il semplice fatto di sentirmi in qualche modo collegato a quel nome, a quei nomi, è stato fantastico. MI piacerebbe scrivere come loro suonavano, con quella semplicità e quella ricchezza che sembra nascere da una prepotenza creativa, posseduta, vissuta. Grazie per avermi spronato, ospitato e grazie per avermi fatto sprofondare dietro al bancone del bar, di fronte allo specchio. Non è facile che capiti. Smack.
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Infine, cosa siamo se non note stonate dentro un sassofono senza suono?
(Miles Davis).
Franzesfeste-Fortezza (Bolzano),
Fuori aveva nevicato e il freddo, intenso, mi carezzava le guance. Quel giorno compivo otto anni. Quasi come ogni sera, stavo con il viso premuto dietro i vetri in attesa del ritorno di mio padre.
La tavola imbandita per cena, La televisione accesa e ma sorella, con mamma, indaffarate a discutere ora di questo, ora di quello.
Finalmente, eccolo. Dal vialetto, mio padre, si apprestava ad entrare in casa, con un pacchetto fra le manii e una teoria di orme sulla neve.
-Auguri Ninni, da oggi sei un ometto. L’uomo di casa. E per un uomo, un regalo da uomini.
Ero rimasto un po’ deluso dalla sottigliezza di quel regalo, ma … mai dire mai!
Lo ricordo come fosse ora.
Era un 45 giri, della Ricordi-RCA Italiana. Sulla copertina la foto di un signore, di colore, con un sassofono che sorrideva.
Quel singolo era “All the things you are” e lui Charlie Parker.
Conservo, ancora, quel disco e i ricordi legati a quella canzone.
Tanti anni dopo, al suono di quel 45 giri, ormai graffiato, ormai solo al mondo (non abbiamo più né genitori, né sorella: morti tutti) scrissi:
Dalla finestra della mia stanza posso vedere un ritaglio di verde della foresta, mentre la luce del sole che sta scendendo sotto l’orizzonte batte dorata sui cristalli colorati appesi al soffitto, frangendosi in mille incorporee sfumature sulle pareti e sul pavimento. Così simile al mio cuore, dove mille emozioni turbinano come in tempesta, lasciando la mia anima spossata e stranamente disabitata. che fa parte della presentazione, del profilo, WordPress.
C’é tanto, in questo racconto. Una stratificazione, compulsiva, del tempo che avanza e che lascia altri strati.
Un racconto lineare, pulito, bello e stilisticamente corretto e presente.
un racconto che, e non faccio fatica a dirlo mi ha emozionato profondamente, strozzandomi in gola un sospiro.
Tutto perfetto e tutto presente.
Con due calibri così, non potevamo aspettarci altro.
Lady Alessandra una garanzia
Lord Quou, che ho letto tanto, in passato.
[ … ] L’amore? Vale per i poeti … Che mi importa? Camminava e non c’era vento, non c’era sole, non c’era niente per cui fosse importante vivere. Illusioni. Questa è la vita, confermò a se stesso. Poi si fermò…. [ … ]
Grazie e cordialità
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Ovviamente chiedemmo venia per gli orribili refusi, testé, lasciati a disonore e ignominia per lo scrivente.
Cordialità.
(*) Cos’é un refuso se non l’errore, che accompagna qualsiasi atto della creazione e rende umano tutto ciò che è divino?
(Perdono per l’autocitazione)
😉
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Scrittura impeccabile.
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Un’anima così schiacciata, annullata dagli eventi della vita e dalla conseguente solitudine mette tanta tristezza, persino angoscia con le figure retoriche che avete abilmente usato.
Un racconto scritto benissimo, che non lascia indifferenti. Davvero complimenti ad entrambi.
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baci d’atene cara mia
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@ LUIGI FURONE a volte i lieti fini vanno bene, in altri casi – secondo me – no.
Charlie Parker? Certo! E infatti quando scrivo con te è sempre una grande sfida, ho sempre un po’ di paura. Tu sei…
Be’ non a caso scelsi te per il primo post splinderiano di “Caffè Letterario”.
Baci 🙂
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@ LORD NINNI un bellissimo regalo, apprezzato in seguito.
L’emozione suscitata nel Milord mi lusinga profondamente. E credo proprio che questo valga anche per Lord Quou.
Un sentitissimo grazie per il magnifico intervento e un radioso saluto.
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@ LORD NINNI qui non si accettano commenti senza refusi 🙂
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@ RODIXIDOR grazie mille!
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@ ILI6 la parte difficile è “entrare” nel personaggio e cercare di sentire come lui.
Io e Luigi (Quou) ti ringraziamo di cuore, cara Marirò.
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@ MAIRITOMBAKO un abbraccio grande, mia amica lontana 🙂
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Stasera non sono nello spirito adatto, leggerei distrattamente e sarebbe un peccato. Segno e… torno! 🙂
http://www.wolfghost.com
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@ WOLFGHOST ti abbraccio, caro lupo.
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Un racconto che non lascia nessuna via di scampo, un decadere continuo nonostante il leggersi continuamente dentro e infine l’accettare la propria condizione senza far nulla per cambiarla. Apatia e il nulla, una vita che non so se vale la pena chiamarla Vita!!
Mi è piaciuto molto, si legge scorrevolmente e coinvolge, cosa che per me è importantissima.
Complimenti ad entrambi.
Serena notte, Patrizia
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@ PATRIZIA M. nessuna via di scampo, è esattamente il senso di questo racconto. Sono felice che ti sia piaciuto, dato che non era un post facile.
Grazie da Quou e da me!
Un sorriso per una notte di stelle, cara Pat*
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La routine è un rifugio, non solo per lo sfortunato protagonista del racconto, ma lo è per tutti. Perfino gli animali (non scendo nel dettaglio perché inizio a sentire il bisogno di uscirne) quando non stanno bene si aggrappano alle loro abitudini. Figuriamoci noi.
Ovviamente in certi casi l’abitudine assume contorni così forzati da diventare patologica. O meglio, di essere sintomo di patologia.
Questo è un racconto, tetro, molto ben scritto. Ma tutti dovremmo stare attenti davvero, perchè fare il passo che dalla normalità porta alla follia può essere molto molto più breve di quel che pensiamo…
Complimenti ad entrambi.
http://www.wolfghost.com
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Torno di nuovo a leggerti e vedo, che non è cambiato niente: eternamente brava
Complimenti ad entrambi
Bacini
Mistral
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@ WOLFGHOST complimenti a te, caro lupo, per il commento strepitoso!
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@ OMBREFLESSUOSE ben tornata, amica 🙂
E grazie.
Baci e bacini * ___________ *
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Giustissima la scelta di dar spazio all’introspezione… ammaliante. Un saluto. Univers
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@ UNIVERS81 ammaliante? Grazieee!
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